Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 02

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nella nostra città, che tutta la terra puosono in confusione, come nel
seguente capitolo diremo.

CAP. XXIII.
_Come per sospetto nato nella città di Firenze di messer Niccola
indegnamente egli ne ricevette vergogna._
Anichino di Bongardo, com’è di sopra scritto, e con sua compagnia
era passato nel regno di Puglia, con animo d’offendere il re Luigi a
suo podere, il quale sollecitamente si dava a’ ripari, il perchè il
gran siniscalco n’era venuto a Firenze per avere aiuto, e promessa
avea avuta d’avere trecento cavalieri; or come piacque alla fortuna
occorse, ch’al nuovo priorato, che trar si dovea per legge di comune,
far si dovea lo squittino nuovo de’ priori e collegi, e fallare non
potea che stando messer Niccola a Firenze o vicino non fosse priore,
perocchè nelle borse vecchie niuno v’era rimaso se non egli, e delle
nuove trarre non si potea se non si votasse le vecchie, ed egli a
ogni nuovo priorato era tratto, e rimesso per assenza: il caso che
parea appensato, e l’uomo per la grandezza sua nella città per tema di
tirannia verisimilmente sospetto, con assai colorata credenza facendo
i governatori della città fortemente sospettare, e mormorio n’era tra
loro, il quale per lo procaccio si stendea nel volgo, e se ne parlava
e in piazza e a’ ridotti, ma per quello che veramente sentimmo l’animo
del nobile cavaliere della detta intenzione era tutto rimoto, e per
tanto per quetare il mormorio sollecitava d’avere la gente dell’arme
che il comune gli avea promessa, e proposto s’era al tutto nell’animo
che se necessario caso l’avesse ritenuto di renunziare l’uficio.
Occorse in quei giorni, che licenziandosi i nostri ambasciadori dal
legato di Spagna, il quale come di sopra è scritto presa avea la
signoria di Bologna, ed egli avendo l’uno di loro conosciuto per uomo
grave e intendente e d’autorità, e a cui molta fede era data nel suo
comune, avanti che a loro desse il congio, quel tale segretamente
chiamò nella camera sua, e datali la credenza, prima gli rivelò come
certamente sentia che in Firenze era trattato e congiura per sovvertere
lo stato loro. Il discreto e accorto ambasciadore gli rispuose,
che tale credenza tenendola a lui era pericoloso, e simile al suo
comune, e che per tanto a lui piacesse che a’ suoi signori il potesse
manifestare, non domandando come savio più oltre, per non avere materia
d’abominare i suoi cittadini, senza i quali non pensava ragionevolmente
potere essere trattato. Lo cardinale non glie n’aperse più, ma
gli concedette licenza che di quello che detto gli avea ne facesse
fede a’ signori suoi come gli avea domandato. Per la rivelazione di
costui generale e oscura il sospetto preso di messer Niccola crebbe a
maraviglia, e in tanto, che senza niuno intervallo di tempo provvisione
si fè, la quale in effetto contenne, che niuno ch’avesse giurisdizione
di sangue, o sotto sè città o castella non potesse essere all’uficio
del priorato: ma per non fare più vergogna al valente cavaliere
trovandosi egli alla tratta de’ nuovi priori, affrettarono di dare
la gente promessa perchè avesse onesta cagione di partirsi, il quale
avendo ricevuto la gente, al modo del buono Scipione Affricano per
liberare dal sospetto la patria e sè da vergogna, con la gente datagli
di presente prese viaggio, e giunto a Siena, e appresso a Perugia,
loro in nome del re Luigi richiese d’aiuto, e altro che belle parole
non ne potè riportare. In questo fortunoso ravviluppamento assai per
li savi non odiosi si comprese della magnanimità del gran siniscalco,
perocchè nè in atto nè in parole in lui veruno turbamento si vide o
sentì, ma piuttosto tranquillità d’animo, quasi come se ciò s’avesse
recato a onore che in tanta città fosse preso che tanto animo avesse: e
tutto che per lo trattato che poco appresso si scoperse si manifestasse
l’innocenza sua e purità d’animo, non di meno la legge rimase, e fu
riputata utile e buona, perchè si dirizzava a conservamento di libertà,
la quale in questo mondo certano è riputata la più cara cosa che sia.

CAP. XXIV.
_Come si scoperse congiura di certi cittadini di Firenze, e trattato
per sovvertere lo stato che reggea._
Vedendosi manifesto per ogni qualunque intendente, che la legge fatta
in favore della parte, tutto ch’ad altro fine fosse principiata, era
in sè utile e buona ma male praticata, e che coloro che ne doveano
secondo il proponimento di coloro che l’aveano creata essere disfatti
n’erano sormontati e aggranditi, e che la città n’era in molte parti
stracciata e divisa, e di male talento piena ne stava in tremore e
sospesa, e’ rimedi sufficienti al male non si vedeano, e se si vedeano
erano posti a silenzio, il perchè quasi per una boce comune forte si
dubitava di cittadinesca commozione. Ed era per certo da dubitare,
come l’esperienza poco appresso ne fè manifesto, perocchè tale mala
disposizione conosciuta da certi cittadini mal sofferenti e d’animo
grande, e che mal contenti viveano, massimamente veggendo alzare
troppo i loro avversari, e da certi che per ammunizione erano a loro
parere contra ragione offesi, ed eranne poco pazienti, loro diede
audacia e materia di cercare novità, e gli mosse a congiura, e in una a
cercare de’ modi e delle vie da levare dello stato coloro i quali per
loro nemici teneano. Costoro loro capo feciono Bartolommeo di messer
Alamanno de’ Medici, uomo animoso troppo, e che si sarebbe messo a
ogni gran pericolo per abbattere gli avversari suoi; al quale parendo
che il tempo abile a ciò fare fosse venuto, riscaldato e sollecitato
da Niccolò di Bartolo del Buono, e da Domenico di Donato Bandini, i
quali erano stati ammuniti e levati dagli ufici e onori del comune come
sospetti della parte, non perchè fossono, ma per operazione di chi gli
avea con quel bastone voluti fare ricomperare, ristrettosi con loro,
cominciarono segretamente a cercare de’ modi e delle vie da pervenire
all’intento loro: e così cercando, trovarono che Uberto d’Ubaldino
di messer Uguccione Infangati, uomo cupido e vago di novitadi, e atto
assai a dovere e potere cercare, e avendo rispetto al male disposto e
intrigato stato della città, come per quella scritta avemo di sopra
comprendere si può, per suo proprio movimento, e senza averne con
alcuno conferito, sotto la speranza d’avere il seguito de’ malcontenti,
de’ quali allora il numero era grandissimo ogni ora che gli avesse
richiesti, avea tenuto trattato con uno Bernarduolo Rozzo Milanese,
il quale era cameriero di messer Giovanni da Oleggio de’ Visconti per
allora signore di Bologna, e stato era suo tesoriere, uomo sagace,
astuto e d’animo grande, il quale entrato n’era in ragionamento col
detto messer Giovanni, mostrandoli per assai belle e apparenti ragioni
come se volea il potea fare signore di Firenze. Il tiranno giusta
il costume de’ tiranni vi prestò l’orecchie, ma infra il tempo per
necessario caso occorse ch’esso tiranno per lo migliore suo s’accordò
con la Chiesa, e rendè Bologna a messer Egidio d’Albonazio di Spagna
cardinale e legato di santa Chiesa nelle parti d’Italia, il perchè il
trattato cominciato per messer Bernarduolo Rozzo si rimase. I predetti
Bartolommeo, Niccolò, e Domenico avendo segretamente odorato che per
Uberto si cercava rivoltura di stato, e che per tanto verificando
il titolo e nome della famiglia sua s’era Infangato, tutto che il
modo e le persone con cui trattava non sapessono, conoscendolo uomo
sufficiente e atto a fornire delle intenzioni loro, e di quello che
loro andava per l’animo, e stimando che per l’errore già commesso per
lui loro dovesse essere fedele, lo tirarono ne’ loro segreti consigli,
e intorno a loro impresa gli dierono faccenda e pensiero, con dirli
cercasse consiglio e aiuto pronto col quale loro intenzione potessono
fornire. Parendo a Uberto che i suoi vecchi pensieri fossono di nuovo
appoggiati e di consiglio e di forza, senza ai suddetti niuna coscienza
farne col detto Bernarduolo Rozzo ricominciò il vecchio trattato,
parendoli avere migliorato condizione, offerendoli al servigio
sufficiente seguito a fornire il cominciato trattato con lui, e diedeli
certe scritture di sua testa compilate, dove soscritto apparea non
piccolo numero di cittadini e grandi e popolani, e de’ maggiori e de’
mezzani e de’ minori, tutti persone e da nome e da fatti. Il detto
Bernarduolo, parendoli avere in mano la detta cosa per fornita, di
tanta audacia e presunzione fu, che avendo cercato questa faccenda
con messer Giovanni da Oleggio, e veggendo che sua intenzione gli era
faltata per lo dare che fatto avea di Bologna a santa Chiesa, fu di
tanta audacia e presunzione, che sentendo il cardinale di Spagna uomo
d’alto animo, fattivo e cupido di fama mondana, e desideroso oltre a
modo di temporali signorie, e per tanto quasi senza considerazione,
e per tanto di grandi imprese lo richiese, mostrandoli, che senza
niuno dubbio con poca spesa e fatica potea essere signore di Firenze.
Il legato, tutto fosse cupido e animoso, era savio e temperato, e
conoscea che fallandoli l’impresa potea essere il suo disfacimento,
e promessa credenza di tutto, il trasse fuori di pensiero de’ fatti
suoi; poi come detto è di sopra a uno degli ambasciadori fiorentini il
detto cardinale in genere revelò che trattato era in Firenze. Nè però
ristette Bernarduolo di cercare, e seguendo la via cominciata, portò il
trattato a messer Bernabò, il quale mostrò d’averlo caro e accetto, ma
come signore di grande sentimento e pratico delle baratte del mondo,
non parendoli che la cosa dovesse avere effetto, secondo l’offerte
che gli erano fatte dava e toglieva parole e tenea in tranquillo,
mettendo per lunga via la mena, e per simile il detto Uberto dicea
ai detti Bartolommeo e i compagni che cercava cose ch’anderebbono
a loro intenzione, ma che per ancora non avea tanto che loro niente
effettualmente ne potesse dire.

CAP. XXV.
_Come si scoperse il trattato che era in Firenze, e certi ne furono
puniti._
Mentre le dette cose si cercavano per Bernarduolo, parendo ai detti
tre Bartolommeo, Niccolò e Domenico, che ogni piccolo indugio loro
fosse pericoloso, poichè incominciato aveano, e temendo che lunghezza
di tempo non impedisse, e scoprisse quello che intendeano di fare,
sollecitavano continovamente, e un’ora non si lasciavano fuggire di
mano, pensando dì e notte de’ modi come loro proponimento potessono
fornire, intra i quali uno loro ne cadde nell’animo, il quale poi si
conobbe sufficiente a muovere scandalo grande e pericoloso, ma non
a terminare secondo il concetto dell’animo loro; e per mandarlo ad
esecuzione. I detti caporali con inventivi modi e argomenti sottili
e sagaci trassono in loro congiura e trattato messer Pino di messer
Giovanni de’ Rossi, Niccolò di Guido da Sanmontana de’ Frescobaldi,
Pelliccia di Bindo Sassi de’ Gherardini, Beltramo di Bartolommeo
de’ Pazzi, Pazzino di messer Apardo Donati, Andrea di Pacchio degli
Adimari, Luca Fei, Andrea di Tello dell’Ischia (questi ultimi due
per molti si tenne che senza colpa fossono messi nel ballo) e frate
Cristofano di Nuccio de’ monaci di Settimo, il quale era stato
lungo tempo alla guardia della camera dell’arme, e quindi per alcuno
procaccio d’altrui era stato rimosso: di molti altri si disse, ma non
si trovò esser vero, e se fu, si tacque, e ammorzò per lo migliore, e
per fuggire disordinato fascio, ma agl’intendenti parve, non essendo
matti i detti nominati di sopra, sì grande tentamento dovesse avere
maggiore appoggio e sequela e nel numero. La motiva loro fu più per
odio e nimistà speziale che vogliosamente portavano a certa famiglia
di popolari grandi e in comune, e per levarli di stato e cacciarli,
che per zelo che avessono alla repubblica o ad altri loro cittadini.
L’ordine per i detti dato a fornire loro impresa fu di questa maniera,
che l’ultimo dì di dicembre frate Cristofano, che per le reliquie
del vecchio uficio che gli era stato levato ancora liberamente usava
l’entrata e l’uscita del palagio de’ priori, ed era signore delle
chiavi, dovea segretamente mettere quattro fanti in sulla torre del
palagio de’ signori, e rinchiuderli in una camera che v’è, e non
s’usava, e poi di notte dovea aprire lo sportello della porta del
palagio di verso tramontana, che non s’usava, e mettere quetamente
per quella ottanta fanti, e riporli ivi di presso nella camera dove si
riducono gli uficiali delle castella, ch’allora non vi stava persona,
e la seguente mattina, quando escono i signori vecchi ed entrano i
nuovi, rimanendo dentro un fante solo che serra la porta, mentre che
le dicerie e solennità a tali atti usati si fanno, i detti ottanta
fanti doveano uscire della detta camera, e uccidere o prendere il detto
portiere, e serrare la porta, e salire sul corridoio del palagio, e
con le pietre percuotere chiunque fosse sulla ringhiera, e i fanti
della torre doveano sonare le campane a stormo, e in quell’ora si
doveano muovere i detti congiurati col seguito loro, stimando che molti
cittadini offesi e malcontenti, e quelli che stavano indubbio dello
stato loro traessono a loro, e gli dovessono seguire; con volere che
per altro ordine si governasse la terra, della quale s’immaginavano
essere principali e maestri, com’erano principali della matta impresa,
con mostrare di volere che a neuno fosse fatto oltraggio o torto. Il
pensiere loro fu riputato da molti folle, perchè non avendo altro
braccio, rimaneano in podestà del furore del popolo, se non avesse
consentito al loro movimento. Altri stimavano, che essendo il popolo
confastidiato come detto avemo, e per natura mobile e vago di novità,
e che scorrere si lascia quando è scommosso là dove non possono i savi
stimare, che loro pensiero potesse avere effetto: ma Dio che è guardia
de’ semplici e innocenti, e che talora per rispetto loro tempera
l’ira sua contra i rei, perchè il caso parea come suole fare, o per
fortuna o per privati odii contra loro straboccare, volle si scoprisse
il trattato, e fu in questo modo. Detto avemo come il legato sotto
parole generali avea fatto sentire come nella città era trattato, ma
d’esso non avea dato indizio veruno; e stando per questo i governatori
e i cittadini di Firenze nel tenebroso sospetto, Bernarduolo Rozzo,
che vedea suo ragionamento tornato in fummo, pensò di fare civanza,
e trarre vantaggio delle fatiche che avea ordinato in male operare,
e venuto a Santa Gonda, mandò per uno suo amico della casa degli
Antellesi, e a lui disse, che quando il comune di Firenze gli volesse
dare venticinque migliaia di fiorini, ch’egli manifesterebbe il
trattato, e chi lo conducea. Ciò sentito per i signori, e tenuto
segreto consiglio, per trarre il popolo di periglio, e di sospezione
e paura, diliberarono gli fosse dati danari, e alla promessa d’essi
s’obbligarono i signori, e’ collegi, e’ richiesti, e se ne fè scrittura
obbligatoria con saramento, e il pagamento se ne dovea fare in Siena,
manifestato ch’avesse in forma bastevole la verità del fatto. Anzi che
fosse il detto ragionamento fornito, o fattone esecuzione, fu noto
a Bartolommeo che ’l fatto si venia a scoprire, non perchè il detto
Bernarduolo il sopraddetto processo e ordine sapesse, ma che per quello
che tenuto avea con Uberto Infangati sapea i nomi di coloro che sapea
che teneano al suo, si manifestò e aprì a Salvestro suo fratello, e
quello che occultato avea, e a lui e a’ suoi consorti palesò. Salvestro
udito il voglioso e poco savio movimento del fratello, per ricoverare
l’onore suo e della casa sua, che per la detta impresa potea cadere
in sospicione, e per trarre il fratello di pericolo e d’abominio, con
certi dello stato discreti e fidati, e alla famiglia sua, di presente
ne fu a’ signori, e da loro prese sicurtà per Bartolommeo, dicendo,
che da lui avrebbono tanto, che potrebbono trarre di sospetto e di
paura il comune, il quale quasi per lusinghe tirato nel trattato, con
infingere di non sapere se non la corteccia, dissono a’ signori, che
se avessono Niccolò e Domenico di Donato Bandini che ne saprebbono
il tutto, come da’ caporali e guide del trattato; di che i signori di
subito mandarono per loro in forma e in modo, che se si fossono voluti
cessare non aveano il podere, e quelli per loro prima esaminati li
dierono al podestà. Gli altri congiurati sentito questo si cessarono
subitamente; e i detti presi confessato il loro eccesso furono
dicapitati: gli altri nomati, eccetto il detto Bartolommeo, furono
per lo potestà senza vituperevole titolo condannati nella persona. Il
detto Bernarduolo Rozzo, avendo per la detta sua operazione certificato
il comune che ’l suo palesare il trattato era per vendere la vita di
molti cittadini, e non per palesare il suddetto trattato, del quale
niente sapea, fu di tanta presunzione e ardire, che sotto la promessa
di dare al comune scritta di mano propria de’ congiurati, alla quale
erano sottoscritti molti cittadini di loro propria mano, e suggellato
di loro proprio suggello, domandò ed ebbe fidanza di venire a Firenze,
e a’ signori la detta scritta diede, la quale si trovò essere di mano
d’Uberto Infangati, fittamente e coloratamente composta, secondo che
fuori n’uscì la boce, se vera fu, o no. Ragunato il consiglio, _coram
omnibus_ la scritta fu arsa senza altrimenti farne dimostrazione. A
Bernarduolo Rozzo furono donati cinquecento fiorini d’oro, e tratto
del nostro contado dato gli fu il congio. La legge, ch’era stata in
gran parte cagione e materia di tanto male, e peggio per l’avvenire
promettea, per tutto ciò ammendata non fu, nè regolata nè aggiustata in
niuna sua parte.

CAP. XXVI.
_Come si comperò Montecolloreto, e la giurisdizione di Montegemmoli
dell’Alpe per lo comune di Firenze._
Ottaviano e Giovacchino figliuoli di Maghinardo e Albizzo degli
Ubaldini, essendo male in accordo co’ figliuoli di Vanni di Susinana,
e con gli altri Ubaldini teneano Montecolloreto, e possedeano l’Alpi
con millecinquecento fedeli e’ fitti perpetui, e costoro cercavano
di volere vendere Montecolloreto e l’Alpe, e le ragioni ch’aveano in
Montegemmoli, e in Cornacchiaia e nell’altre villette dell’Alpe al
comune di Firenze per loro vantaggio, e dispetto de’ loro consorti.
Il comune intendea alla compera. Gli altri Ubaldini che si teneano
avere ragione nell’edificio di Montecolloreto mandarono a Firenze a
contradire la vendita. La cosa stette lungamente in dibattito, infine
il comune comperò la proprietà da coloro che teneano Montecolloreto, e
tutta l’Alpe, e la giurisdizione ch’aveano i figliuoli di Maghinardo,
e comperò tutti i fitti perpetui ch’aveano nell’Alpe, sicchè il paese e
gli uomini rimasono liberi del comune di Firenze, e i detti Ottaviano,
Giovacchino, e Albizzo, e tutti i loro congiunti e loro famiglie furono
fatti per riformagione del comune, a dì 30 di dicembre del detto anno,
cittadini e popolari di Firenze, e fatte le carte della detta vendita
per ser Piero di ser Grifo delle riformagioni, ed ebbono contanti
fiorini seimila d’oro, com’elli furono in concordia e in patto d’avere
dal comune di Firenze. L’Alpe fu recata a contado, e gli uomini liberi
da’ fitti perpetui.

CAP. XXVII.
_Come una compagnia creata novellamente prese Santo Spirito._
Finite le guerre, e fatta la pace fra i due re d’Inghilterra e di
Francia, tornato il re Giovanni in Francia, e intendendo dolcemente a
rassettare il reame, fece gridare per tutto suo reame che tutta mala
gente si dovesse partire, e sgombrare il suo reame sotto gravi pene;
e per tale cagione diverse compagnie s’adunarono, le quali l’una dopo
l’altra poi trassono ad Avignone. Sicchè dove speranza era che il
re liberasse la Chiesa seguitò il contrario, e più si credette per
tutti che i paesi si posassono, e s’intendesse a’ mestieri e alle
mercatanzie, ma incontanente seguitò in Parigi e nel paese di Francia
grandissima carestia e mortalità, e coloro ch’erano usi in guerra,
e più atti alle prede e alle rapine ch’alle mercatanzie e mestiere,
udito il grido e il comandamento del re in diverse parti s’accolsono
insieme per modo di compagnia, e feciono diversi capitani, e chi vernò
in un paese e chi in un altro alle spese de’ paesani, conturbando le
provincie; e un’accolta si fece verso Lione sopra Rodano, in grasso e
abbondante paese, e ivi stettono senza contasto, e dimorati alquanto
nel paese, si misono verso Lione per valicare in Provenza: il vicario
di Lione coll’aiuto de paesani occuparono i passi, che sono stretti e
forti, e non gli lasciarono passare; e vedendosi la compagnia impedire,
un’altra volta maliziosamente si strinsono sopra Lione, ove tutta la
forza della città e delle vicinanze trassono alle difese, e i capitani
della compagnia aveano fatto eletta di mille barbute, e ordinato quando
la gente traesse a loro che prendessono un altro cammino per l’alpe
della Ricodana, e così fatto fu senza trovare chi loro contradicesse,
e tra il giorno e la notte appresso l’alpe passarono, che di mala via
furono oltre a miglia quaranta, e alla dimane si trovarono nel piano
presso a Santo Spirito in sul Rodano, e quivi per lo freddo sostenuto
la notte con fuochi si ristorarono, e a’ loro cavalli provvidono e a
loro di vivanda per riprendere forza della gran fatica che la notte
per lo gran cammino aveano sostenuta; e ciò fatto, montati a cavallo
si dirizzarono a Santo Spirito, dove trovarono la gente sprovveduta,
e nullo resistente s’entrarono nel borgo. La rocca si tenea per uno
castellano lucchese, e quella col castellano presono: e perchè il fatto
fu incredibile per la fortezza del luogo, molti pensarono che fatto
fosse per ordinamento del Delfino, e perchè il castellano fu lasciato
e poi ripreso ad Avignone, stimossi che il papa il sentisse, e per
lo meno male lo si tacesse. I terrazzani da bene uomini e donne si
ridussono nella chiesa ch’è forte, e aspettando il soccorso de’ vicari
circostanti e dal re di Francia per spazio di sei dì, si patteggiarono
di dare fiorini seimila d’oro, salvo l’avere e le persone: i danari
furono pagati, ma i patti non furono attesi, che tutti furono rubati,
e molte femmine giovani ritenute al servigio della compagnia. Santo
Spirito è vicino ad Avignone a otto leghe di piano. E il nobile ponte
sopra il Rodano di presente occupato fu per quelli della compagnia,
d’onde aveano libera l’entrata nel Venisì, e poteano a loro piacere
cavalcare fino ad Avignone: per tale cagione il papa e i cardinali
ebbono gran paura, e la città tutta prese l’arme serrate le botteghe,
e solo s’intendea a fare steccati e bertesche sì alla città e sì al
gran palagio del papa, e a provvedersi di vittuaglia, e con soldati
s’attendea a buona guardia, e di dì e di notte. E oltre a questa
provvisione il papa bandì la croce sopra la compagnia, credendo subito
avere gran concorso di gente d’arme e da piè e da cavallo, e nullo
si trovò che la prendesse, onde lentamente cominciò a fare gente di
soldo, e fè capitani il cardinale d’Ostia con certi altri prelati, e li
mandò nel Venisì a fornire le castella della frontiera contro i nemici
perchè non potessono stendere nè verso Avignone nè verso la Provenza,
massimamente perchè sentiva che la compagnia era per avere maggior
forza in corto tempo da quelli che rimasi erano di là da Lione. Al
modo delle guerre de’ prelati la boce fu grande, e la difesa fu piccola
quando alla compagnia parve il tempo da valicare, ma per allora essendo
pochi, ed avendo roba assai, gran tempo stettono senza fare cavalcate,
e il ponte afforzarono in forma, che le navi che veniano di Borgogna
ad Avignone con vittuaglia non poteano passare, onde la corte sostenne
grave carestia. Lasceremo per ora questa materia la quale ebbe lungo
processo, e seguiteremo le cose d’Italia, che nel tempo richieggiono il
luogo debito loro.

CAP. XXVIII.
_Come tornati gli Ungari e messer Galeotto da Parma si misono a Lugo._
Tornati gli Ungari del Parmigiano, il legato, perchè non gravassono
dentro i Bolognesi, gli mandò sopra Lugo, dando boce di volere
rivolgere un fiumicello che corre verso Castello san Piero sopra
Lugo; e per fare la mostra apparente ragunò maestri paesani a ciò
fare, e niuno effetto ne seguì. Stando gli Ungari a campo a Lugo
messer Galeotto cavalcò sopra Castelfranco, e mancandogli i soldi
pagati per lo legato agli Ungari e ai soldati, si partirono del detto
mese di gennaio e da Lugo e da Castelfranco, e di loro una parte
dal Biscione prese soldo, ed entrò in Lugo a fare guerra contro al
legato, e alquanti il legato se ne ritenne. Mille o più a piano passo
si dirizzarono in Romagna, e quindi nella Marca vivendo a legge di
compagnia, e parte di loro s’aggiunse alla compagnia del Regno. Poco
appresso il legato s’accordò con quelli ch’erano passati nella Marca, e
di febbraio gli fece tornare sopra Lugo, per rattenere quelli ch’erano
in Lugo dal conturbare la Romagna, ma poco tempo là durarono per la
povertà del legato, ch’avea l’animo grande e la fonda vota.

CAP. XXIX.
_D’alquanti trattati tenuti in diverse parti che tutti si scopersono._
In questi giorni, certi d’una casa di Forlì che si nomava di Capo
di Ferro, i quali il legato avea rimessi in Forlì, con altri loro
amici e congiurati cercarono di mettere una notte in Forlì la gente
di messer Bernabò ch’era in Lugo. Il trattato si scoperse, e furono
presi venticinque cittadini, e trovati colpevoli, due di quelli di
Capo di Ferro ed altri due del mese di gennaio furono decapitati, e
dodici di loro seguito mandati a’ confini. La terra si rassicurò con
sollecita guardia. Seguendo simili cose e’ pare, che quando il verno
non lascia campeggiare la sfrenata rabbia degl’Italiani, non resti
di procurare scandali e commuzioni. I Perugini in questi dì trovarono
certi loro grandi che voleano rompere il popolo, e mutare il reggimento
di quella città, e furono tanto e sì potenti, che scoperto il fatto non
s’ardì a fare punizione. In Siena fu sospetto di mutamento di stato,
e lungamente se ne stette in gelosia e in guardia. In Volterra fu il
simigliante, e con gli ambasciadori del comune di Firenze si quetò la
materia dello scandalo. In Bologna in questo verno si scoperse un altro
trattato, che alcuni cercavano con messer Bernabò, de’ quali erano
due de’ Bianchi caporali, non sapendo l’uno dell’altro. Ed avendo il
podestà condannati Giovanni e Federigo de’ Bianchi nella persona per
questo tradimento, e mandandoli alla giustizia con due altri, il legato
fece liberare Giovanni ch’era meno colpevole, e Federigo e’ compagni
furono decapitati. I Perugini, con trattato ch’aveano con certi loro
sbanditi ch’erano al soldo del signore di Cortona, il doveano fare
uccidere: il fatto scoperto, i traditori furono presi, e fattone quello
che meritavano.

CAP. XXX.
_Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno, e quello ne seguì._
Per inzigamento di messer Giannotto dello Stendardo, e di messer
Ramondo dal Balzo e de’ seguaci loro, allora governatore del re, messer
Niccola Acciaiuoli gran siniscalco al giudicio de’ cortigiani parea in
poca grazia del re, e giunto in Napoli, e scavalcato al castello del
re, convenne che quel giorno col seguente solo a solo col re dimorasse,
e con lui a quelle cose che nel Regno erano a fare diede il modo, e lo
re lo fè suo luogotenente, e per suo decreto e a’ baroni e a’ popolani
comandamento fece, che ubbidito fosse come la persona sua. Quindi a
pochi dì fatto suo apparecchiamento, colla gente del comune di Firenze
e quella potè avere del paese cavalcò in Puglia verso la compagnia, e
misesi nelle terre vicine alla frontiera loro, e li comimciò forte a
ristrignere di loro gualdane.

CAP. XXXI.
_D’un segno nuovo ch’apparse in cielo sopra la città di Firenze._
A dì 9 di febbraio detto anno, alle quattro ore di notte, in aire
apparve sopra la città di Firenze un vapore grosso infocato di tale
aspetto, che a molti parve che fosse fuoco appresso nella città vicino
a loro vista, e per tanto cominciarono a gridare al fuoco, e le campane
della chiesa di santo Romeo sonarono a stormo, e lungamente, come è
usanza di sonare per lo fuoco; per lo quale romore molti cittadini si
levaro da dormire, e vedendo ch’erano vapori incesi nell’arie uscirono
delle case, e andarono a’ luoghi aperti, e vidono il tempo sereno, e il
lume della luna, e di qua e di là dal vapore sua larghezza rosseggiante
a guisa di fuoco per spazio di miglio, e sua lunghezza di quattro, e
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