Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 01

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CRONICA
DI
MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA
TOMO V.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1826.


LIBRO DECIMO

CAPITOLO PRIMO.
_Il Prologo._
La superbia, la quale prima nel cielo mostrò la sua malizia, se nelle
menti terrene si trova non è da maravigliare, considerato che l’umana
natura indebilita per lo peccato del primo uomo è ne’ vizii inchinevole
e pronta. Questo peccato quanto sia grave, e quanto sia in ira di
Dio, per lo suo fine l’ha sovente mostrato; porne alcuno esempio in
nostri ricordi forse non fia da biasimare, se non da coloro che per
morbidezza d’animo sono amatori delle brevi leggende, o da coloro che
per tema di spesa veggendo la moltitudine de’ fogli non osano fare
scrivere. Serse re d’Asia, avendo avuto più tempo nelle guerre prospera
e felice fortuna, insuperbito, lo mare coperse di navi, e intra Sesto
e Abido, due isolette di mare, per pomposa memoria di suo innumerabile
esercito sopra le navi fè ponte, e a riceverlo tutta la Grecia non
parea sofficiente, nè a ricevere nè a pascere la sua brigata; e infine
da poca gente vituperato e sconfitto, e in uno piccolo legno tornò in
suo paese morta tutta sua gente. Sennacherib maravigliosamente esaltato
per beneficio della ridente fortuna, con l’animo altero montò sopra
le stelle spregiando gli Dii, e massimamente quello degli Ebrei, come
se fossono minori e meno possenti di lui; costui veggendo l’esercito
suo tagliato, vilmente fuggì, e nel tempio degl’Idoli suoi da’ suoi
proprii figliuoli vilmente fu tolto di vita. Dario re potentissimo, più
volte sconfitto dalla poca gente d’Alessandro re di Macedonia, infine
da’ suoi propri congiurenti vilmente fu morto. Ciro re di Persia e di
Media, eccellentissimo di potenza....
_Il codice Ricci è mancante in questo luogo di una pagina, che dovrebbe
contenere il rimanente del Proemio, il capitolo secondo, e il principio
del terzo, e con mio sommo rincrescimento non son riescito a riempire
questa laguna col soccorso di un altro codice, poichè non m’è stato
possibile trovarne copia. La Biblioteca Riccardiana possiede tre
codici di Matteo Villani, e uno la Laurenziana, ma non oltrepassano
il nono libro. Per supplire in qualche modo a questa laguna mi
son servito d’un’Epitome fatta da Domenico Boninsegni delle storie
fiorentine di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, che si conserva nella
Biblioteca Laurenziana, e che un giorno faceva parte della Biblioteca
Mediceo-Palatina, segnato di num. 160._

CAP. II.
_Dell’atto e rilevato stato della casa de’ Visconti di Milano._
«Più era infocato che mai messer Bernabò nell’impresa di Bologna,
e impuose e trasse da’ cherici del suo tenitorio in tre mesi più di
trecento migliaia di fiorini d’oro, e da’ secolari per nuova imposta
circa trecentosessanta migliaia di fiorini d’oro; e venne in tanta
superbia, forse per lo parentado fatto in Francia, che nessuno accordo
si potè trovare tra lui e ’l legato, nè per il gran siniscalco nè
altri, usando di dire, che non temeva potenza di signore terreno
che gli potesse trarre Bologna di mano, e molto sparlando contra il
legato. Ma per lo contrario il legato ricorse all’aiuto di Dio, e per
comandamento del papa a ogni prete d’Italia fece fare in ogni messa
dietro al _Pater noster_ speziale orazione de’ fatti di Bologna, e
mandò al re d’Ungheria per gente, ed ebbe da lui duemila Ungari bene
capitanati, e poi tremila di loro volontà, e subito furono in Lombardia
e in Romagna al servigio del legato.»

CAP. III.
_Del pauroso e vile partimento dell’oste di messer Bernabò da Bologna._
«Per la venuta di questi Ungari, e per l’operazione d’Anichino di
Bongardo, entrò paura alle genti di messer Bernabò per modo che non
ubbidivano al capitano, e tutto dì si fuggivano; per la qual cosa al
capitano» montata la paura, vedendo partire l’un l’altro, e non sapendo
il perchè, chè per la forza e autorità che ’l capitano avesse non gli
potea ritenere; onde vedendosi il capitano a questo pericolo richiese
Anichino che lo accompagnasse infino valicato Bologna verso Modena, e
avuta la compagnia, volendo da sè fare buona condotta, fu costretto da’
vili d’andarsene di notte sconciamente abbandonato il campo con assai
fornimento e arnesi, e campati per lo beneficio della notte valicarono
Castelfranco, ove s’arrestarono per non parere rotti, e ivi la mattina
fermarono il campo; e stativi pochi dì, il primo d’ottobre valicarono
a Modena, e tornarsi con gli orecchi bassi al loro signore, il quale
quasi arrabbiato più dì stette rodendo in sè medesimo il suo orgoglioso
furore, acciocchè riposatamente ai forestieri dimostrasse, ch’alla
festa si ragunavano, per magnanimità questa cosa avere per niente,
ed essere intervenuto per lo peggiore del legato, come di sua bocca a
molti pronunziò.

CAP. IV.
_Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite._
Sentito in Bologna la vile partita dell’oste di messer Bernabò, tutto
che ancora del tutto non fosse del Bolognese partito, il popolo prese
cuore, e per lo essere tenuto affamato, furioso, giusta la sentenza
di Lucano che dice, che il popolo digiuno non sa che sia il temere,
straboccatamente e senza aspettare condotta o regola uscì di Bologna,
e con grand’ardire assalì la bastita che guardava verso Romagna, e
quella aspramente combattendo e con grida ch’andavano al cielo ebbono
per forza, e tagliati e fediti molti di quelli ch’erano alla difesa
la rubarono e arsono, e con quell’empito e gloria corsono ad altre
due, e per simile modo l’ebbono, rubarono e arsono. Quando giunsono
a quella di Casalecchio in sul Reno trovarono il becco più duro a
mugnere, perocchè era ben guernita di gente da piè e da cavallo, e dato
di cozzo in essa con loro dammaggio si ritornarono a Bologna, nullo
assedio lasciato alla bastita: onde que’ d’entro scorreano fino alle
porti di Bologna facendo danni, nondimanco aperti i cammini di Romagna
cominciarono a venire della roba a Bologna; e dagli Ungheri i quali
alloggiati erano fuori della città tenuti erano a freno quelli della
bastita da Casalecchio, e in Romagna s’apparecchiava grande carreggio e
salmeria di vittuaglia per conducere in Bologna alla venuta del legato.

CAP. V.
_Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli ambasciadori del re
d’Ungheria._
In questo mese di settembre furono in Firenze tornati di corte di
Roma gli ambasciadori del re d’Ungheria, e andaronne al re, avendo
impromesso al papa, in quanto il bisogno occorresse, che la persona del
re d’Ungheria verrebbe incontro al signore di Milano con patto, che
ciò che egli acquistasse delle terre de’ detti signori, fossero sue
ed egli avea fatto dire al papa che con meno di diecimila cavalieri
non potrebbe venire, ed era in accordo d’avere ogni mese fiorini
quarantamila d’oro, de’ quali dovea avere dalla lega de’ Lombardi sotto
il titolo di Genovesi fiorini sedicimila, e fiorini quattordicimila
dovea pagare il legato traendoli della Marca e del Ducato, del
Patrimonio e di Romagna, e diecimila ne dovea mettere la camera del
papa. La cosa fu divolgata per tutto, ma i signori di Milano poco se ne
curavano, s’altra fortuna non avesse barattata loro intenzione.

CAP. VI.
_Dell’avvenimento del legato a Bologna._
Partita l’oste di messer Bernabò dall’assedio di Bologna, il legato
fatto conducere di Romagna in Bologna molta vittuaglia, e fatta
la condotta degli Ungheri, col grande siniscalco del Regno, e con
messer Malatesta e altri valenti uomini della Romagna e della Marca,
all’entrata d’ottobre del detto anno entrò in Bologna, dove da’
Bolognesi fu ricevuto a gran festa e onore, e prestamente intese a
ordinare e riformare e la guardia e il reggimento della città, e i
fatti della guerra contro a’ nemici suoi, non come prelato, ma come
esperto e ammaestrato capitano di guerra cominciò a trattare, come
conseguendo l’opere sue ne dimostreranno.

CAP. VII.
_Cominciamento della nuova compagnia d’Anichino di Bongardo Tedesco._
Levatasi la gente di messer Bernabò del distretto di Bologna, Anichino
di Bongardo Tedesco, non senza infamia d’avere maculata sua fede,
all’entrata d’ottobre s’accolse a Salaruolo presso di Faenza a tre
miglia con ottocento barbute e trecento Ungheri, ricettato dal legato,
e datoli vittuaglia; e sì avea il legato circa a milledugento barbute
e quattromila Ungheri da poterlo prendere o cacciarlo di suo paese,
per la qual cosa assai fu manifesto che il legato per nuovo servigio
gli fosse obbligato: e avvegnachè assai fosse segreto, egli stette
tanto a Salaruolo, che pagati gli furono quattordicimila fiorini,
ovvero genovini d’oro; il perchè egli tantosto crebbe sua compagnia
e di Tedeschi e masnadieri, e di volontà del legato a mezzo ottobre
cavalcò il contado de’ conti d’Urbino; appresso entrò nella Ravignana,
e di là valicò ad Ascoli del Tronto in servigio della Chiesa per certa
rivoltura fatta in quella città contro al legato, e stettono alquanti
dì nel paese, e poi di novembre valicarono il Tronto, e arrestaronsi
nel paese verso Lanciano, ove soffersono lungamente gran disagio,
come al suo tempo diremo. Stando in questa compagnia nel numero di
duemila cinquecento tra Ungheri e Tedeschi, e molti fanti a piè nella
Ravignana, e dando boce di valicare da Firenze, i Fiorentini ne tennono
consiglio, e infine deliberaro di provvedersi alle difese, e imposono
per legge personale a chi consigliasse, trattasse o parlasse occulto
o palese del prender accordo alcuno con la detta compagnia: e ciò fu
assai utile cagione e materia a tutti i Toscani, perocchè le compagnie
vanno cercando chi fugga e fannone preda, e fuggono le resistenze,
perocchè dove e’ le trovano non possono durare, nè trarne furtivo
guadagno.

CAP. VIII.
_La rivoltura d’Ascoli della Marca_
Ascoli della Marca era all’ubbidienza del legato, e Leggieri
d’Andreotto di Perugia v’era alla guardia per la Chiesa, e di fuori
n’erano ribelli l’arcidiacono e messer Filippo.... con altri molti di
loro animo e volere; costoro del mese di settembre detto anno accolta
gente in loro aiuto rientrarono nella città, e trovando il seguito
d’assai cittadini corsono alle case de’ loro nemici, e uccisonne
ventidue; gli altri che poterono campare s’uscirono della terra, e
Leggieri d’Andreotto fu preso, e tanto ritenuto, che quivi fece dare
la fortezza che v’era per la Chiesa, dicendo che teneano la città
all’ubbidienza di santa Chiesa, ma che voleano potere stare sicuri
in casa loro. La novella forte dispiacque al legato, e pensossi con
la compagnia d’Anichino farla tornare al suo volere, ma i tornati in
Ascoli di quella poca cura pigliavano; il legato come savio e astuto
s’infinse di non se n’avvedere, perchè mostrando cruccio non si
mettessono a più grave ribellione.

CAP. IX.
_Come a petizione del legato fu preso messer Ridolfo da Camerino._
All’uscita d’ottobre detto anno, messer Ridolfo da Camerino essendo
stato principio col suo consiglio e con le savie e sollecite operazioni
di sua persona di vincere e riducere i Malatesti all’ubbidienza del
legato, ed appresso continovato intorno a’ fatti di santa Chiesa
operazioni leali e degne di merito, tanto seppe operare messer
Malatesta, ch’era divenuto il più segreto consiglio ch’avesse il
legato, che ritornandosi messer Ridolfo da Bologna a Camerino, e
capitato nella città di Fermo, invitato da messer Giovanni da Oleggio
marchese della Marca, e fattali allegra accoglienza, come ebbe
mangiato, prendendo da lui messer Ridolfo congio, fugli detto ch’era
prigione, dicendoli messer Giovanni, che ciò gli convenia fare contra
suo grado per mandato del legato, e mostrò le lettere che mandate gli
avea. Il valoroso cavaliere messer Ridolfo niente per tale presura
sbigottito, il fece di presente sapere a’ suoi, dicendo, ciò essere
senza niuna sua colpa, e confortando che di lui nessuna minima cura
prendessono, e che nè per minacce nè per tormenti, nè per morte che
a lui data fosse, nè di loro terre nè di loro giurisdizione dovessono
dare per ricomperare la vita sua, e ciò, come cara avessono la grazia
sua. I fratelli teneri di tanto uomo, e ubbidienti a lui, con i sudditi
loro feciono consiglio, i quali loro offersono quarantamila fiorini
i quali di presente impuosono tra loro, e fornirsi di gente d’arme, e
intesono a buona guardia, e al legato mandarono ambasciadori per sapere
che ciò volea dire. Di tale presura il legato forte fu biasimato da
tutta maniera di gente, e quale che si fosse il suo movimento, altro
non se ne manifestò che detto sia, ma valicato il mese di sua presura
il legato il fè diliberare: messer Ridolfo senza tornare al legato
sdegnoso e pieno d’ira e di mal talento si tornò a Camerino.

CAP. X.
_Del maestrevole processo del legato co’ suoi Ungari in questo tempo._
Era, come addietro è detto, capitano degli Ungari il maestro Simone
conte, e il legato avea condotto con tremila Ungari, e gli altri
Ungari con alcuna provvisione nutricava: il maestro Simone in segreto
con gli Ungari ch’erano di fuori s’intendea e con quelli ch’erano
seco, e come era con loro fuori di Bologna gli mantenea quasi in
discordia col legato rubando i Bolognesi come nemici, e facea alla sua
gente usare parole, nelle quali lodavano messer Bernabò, e dicevano
sè essere al servigio suo, biasimando il legato: per tale astuzia
si divolgò per tuttochè gli Ungari erano rivolti dal servigio della
Chiesa. E continovando la cosa in questa contumacia, e messer Bernabò
veggendosi avere fatte disordinate spese nella guerra, e vedendosi al
cominciamento del verno, cominciò a cassare de’ suoi cavalieri, i quali
nel suo paese s’accoglieano col grido di fare compagnia; e maestro
Simone con i suoi Ungari scorreano in preda in guisa di compagnia,
senza gravare i paesani come nemici: e nondimeno il legato mantenea
l’oste alla bastita di Casalecchio, e mostrava di volere rivocare gli
Ungheri a sè per la fede avea avuta dal re d’Ungheria, e mostrava
di mandare lettere perchè il re rinfrenasse gli Ungheri, che non
trasandassono contro a santa Chiesa.

CAP. XI.
_Come s’ebbe per i Bolognesi la bastita di Casalecchio sopra il Reno. _
Essendo la bastita fatta per l’oste di messer Bernabò sopra il Reno
luogo detto Casalecchio lungamente tenuta in grande confusione de’
Bolognesi, avendo per quella tolta l’acqua delle mulina di Bologna, ed
essendo presso alla terra luogo forte e ben fornito, facea continua
e tediosa guerra infino alle porti. Partita l’oste del Biscione,
non potendola i Bolognesi avere per battaglia, l’assediarono, e
sopravvenendo i difetti dentro, e non essendo soccorsi da messer
Bernabò, furono costretti d’arrendersi, e fatto il patto salvo le
persone, a dì 11 di novembre detto anno s’arrendè, e gli Ungari pronti
e con più forza la presono, e mostrarono di volerla tenere per loro
contro la volontà del legato; e mostrandosi la riotta grande tra il
legato e gli Ungari per la bastita, il legato fece venire lettere dal
re a maestro Simone comandandoli che rendesse la bastita al legato,
e che non si partisse dal suo volere. E fatto questo comandamento la
bastita fu renduta a’ Bolognesi, e maestro Simone di nuovo condotto
con mille Ungari, e gli altri furono licenziati; e partitisi di là per
fare compagnia, arrestandosi tra Bologna e Imola, avendo la vittuaglia
dal legato: e fatta questa dissensione, messer Bernabò prese fidanza,
e cassò più di sua gente, sicchè al bisogno non potè riparare agli
Ungari, come seguendo nostro trattato diviseremo.

CAP. XII.
_ La venuta a Giadra del re d’Ungheria e della moglie._
In questi tempi lo re d’Ungheria non potendo avere figliuoli della
reina sua moglie, alla quale portava grande amore, avvegnachè figliuola
fosse d’un suo suddito barone, a lui e a tutto il regno ne parea male,
che trascorresse il tempo senza speranza d’avere successore e di lui
erede nel regno. E la moglie medesima per l’amore che portava al re
n’era in afflizione, e ben disposta di fare ciò che piacesse di sè e
ch’ella potesse perchè al suo signore non mancasse rede, sentendosi in
istato da non potere portare figliuoli, e per questa cagione si disse
palese che il re e la reina erano venuti a Giadra, e là dimorarono
parecchi mesi facendo edificare un grande e nobile munistero a onore
di santo..... nel quale si dicea che dovea con la dispensazione di
santa Chiesa entrare la reina in abito e stato monachile, e lo re dovea
potere torre altra donna. Se ciò fu vero, l’amore della donna lo vinse,
e solo la fama della volontà rimase.

CAP. XIII.
_La presa di Gello fatta per quelli di Bibbiena, e la compera ne fece
poi il comune._
Gello è un bello castelletto presso a Bibbiena a due miglia, e possiede
buoni terreni. Messer Luzzi figliuolo bastardo di messer Piero Tarlati
l’avea lungo tempo occupato all’abate di Magalona, e rispondevali
certa cosa per anno. I fedeli occupati vedendo loro tempo per uscire
di servaggio, diedono il castello a coloro ch’erano in Bibbiena per
i Fiorentini all’entrata del mese di novembre, e accomandaronsi al
comune. Messer Luzzi in questo dì era accomandato de’ Sanesi, i quali
mandarono ambasciadori a Firenze, e tanto operarono, che ’l comune
a dì 15 di gennaio detto anno per riformagione di consigli diedono a
messer Luzzi per compera del castello di Gello fiorini milledugento, ed
egli fece consentire all’abate; e le carte fece ser Piero di ser Grifo
notaio delle riformagioni del comune di Firenze.

CAP. XIV.
_Come il comune di Firenze mandò ambasciadori al legato e a messer
Bernabò per trattare accordo._
Essendo l’impresa di Bologna barattata nelle mani di messer Bernabò
per altro modo che non istimava, e ripiena d’Ungheri la Lombardia,
il comune di Firenze avvisando che tempo fosse atto a trovare via
d’accordo, mandò di novembre di detto anno a smuovere il legato a
lasciare trovare modo alla concordia, lo quale trovarono in vista e
nelle parole bene disposto, e però andarono a Milano a messer Bernabò,
e cercato più volte di poterli parlare, non poterono da lui in Milano
avere udienza, perocchè la notte innanzi mattutino messer Bernabò era
a cavallo e andava alla caccia, e la sera tornava tardi, e non dava
udienza, perchè convenne che la notte il seguitassono sponendo loro
ambasciata, e cavalcando forte il signore senza arrestarsi, e non
di meno parea desse speranza al trovare de’ modi; e così seguì più
dì senza avere udienza altro che cavalcando, sopravenne quello, che
il legato trattò co’ suoi Ungheri, come appresso diviseremo; per la
qual cosa sdegnato messer Bernabò non volle più udire da quella volta
innanzi gli ambasciadori di Firenze, e senza onore si ritornarono al
loro comune.

CAP. XV.
_Come il legato mandò gli Ungari sopra la città di Parma._
Il valente legato conoscendo l’animo di messer Bernabò niuna fede
prendea di lui, e avendo lungamente dimostrato discordia con gli
Ungheri come narrato avemo, e sentendo inverso Reggio mille barbute
casse da messer Bernabò, con l’aiuto di messer Feltrino da Gonzaga
per certa provvisione le condusse, e improvviso a tutti in una notte
fece pagare per certo tempo gli Ungari ch’avea cassi e quelli ch’avea
condotti, e mostrando d’andarsene gli Ungari di verso Ferrara, avendo
avuta la licenza del passo, si rivolsono, e valicarono Modena e Reggio,
e furono prima in sul Parmigiano, ch’alcuna novella n’avessono avuta
i paesani, e per questo improvviso corso feciono di bestiame grosso e
minuto preda senza misura. E appresso agli Ungari vi mandò il legato
messer Galeotto con mille barbute, e a lui feciono capo l’altre mille
condotte a Reggio per modo di compagnia, valicarono la Fossata, e poi
il fiume della Parma, e stettono in larga preda più di venticinque dì,
perocchè per comandamenti di messer Bernabò il paese non era lasciato
sgombrare. La stanza e la ritornata fu senza contasto, e a Bologna
si ritornarono a dì 11 di dicembre, con fama d’avere avuti danari da
messer Bernabò; per la qual cosa il capitano degli Ungari tornato poi
in Ungheria dal suo signore fu messo in prigione.

CAP. XVI.
_Della presura del conte da Riano._
Il re Luigi avendo sentito come Anichino di Bongardo con la sua
compagnia s’avviava nel Regno, o che ’l conte da Riano gli fosse di
ciò infamato, o ch’egli avesse sospetto di lui, lo fece mettere in
prigione, con minacce di farli torre la persona. Il conte si sentia
senza colpa, e non temea, confidandosi nella verità, e nel grande
parentado che avea con i maggiori baroni del Regno, i quali riprendeano
il re di quella presura, per la quale non piccola dissensione era nel
reame, e per l’aspetto della compagnia, e ancora perchè il duca di
Durazzo non si fidava del re; e il gran siniscalco si stava a Bologna,
e mostrava non curarsi di ritornare nel Regno, accortosi che ’l re
avea troppa fede data ai baroni ch’erano a lui in contradio. Lo re non
era sano, e il prenze perduto per le donne e per lo vino dalla cintura
in su, e per queste cagioni il re sollecitava con lettere il gran
siniscalco che tornasse a lui, ed egli sostenea per soccorrere al tempo
del gran bisogno, e per fare ricredenti gli avversari suoi, come poscia
addivenne.

CAP. XVII.
_Come la compagnia d’Anichino sostenne fame all’entrata del Regno._
Anichino di Bongardo con la sua compagnia essendo valicato nel
Regno, tentato l’andare all’Aquila, e trovato i passi forniti alla
difesa, fu costretto arrestarsi del mese di novembre, essendo i passi
stretti e male agiati di vittuaglia, verso Lanciano, per la qual cosa
soffersono gran fame e assalto a’ passi da’ paesani, onde in quel
luogo perderono circa a ottocento tra cavalieri ungari e masnadieri;
e non potendo in quel paese acquistare se non fame, presono la via di
verso la Puglia, e all’entrata di dicembre furono in Giulianese: le
terre trovarono afforzate e sgombro il paese, sicchè poco di preda vi
poterono avanzare, nondimeno gli Ungari e i soldati cassi nel paese di
là seguivano la compagnia sentendosi entrare nel Regno, e accrescevanle
forza.

CAP. XVIII.
_Come messer Cane Signore rimandò la moglie che fu di messer Cane
Grande al marchese di Brandisborgo._
Morto messer Gran Cane dal fratello, e tornato messer Cane Signore
in Verona, presa la signoria dopo il lamento fatto della morte del
marito, la donna che fu di messer Gran Cane sirocchia del marchese
di Brandisborgo con disonesta fama di messer Cane Signore lungamente
contro suo volere fu ritenuta in Verona. E in quei giorni addivenne,
ch’a un parlamento fatto dai principi d’Alamagna con l’imperadore, il
marchese di Brandisborgo si dolse dell’oltraggio fatto alla sirocchia
per messer Cane Signore; onde dall’imperadore e dagli altri principi
d’Alamagna fu confortato ch’attendesse a vendicare sua ingiuria,
promessogli fu in ciò loro aiuto. Come ciò pervenne agli orecchi
di messer Cane Signore cagione gli fu di rendere la donna, la quale
rimandò del mese di novembre detto anno con quello onore e con quella
compagnia ch’a lui piacque infino fuori de’ suoi confini, e quivi
trovato di sua gente che gli si faceano incontro la lasciarono, udendo
minacce grandi contro al signore loro. Il detto duca fece partire di
suo paese tutti i sudditi del signore di Verona, e a tutti vietare le
fiumane e’ passi come a suoi nimici.

CAP. XIX.
_Come la compagnia d’Anichino di Bongardo prese Castello san Martino._
Essendo di Giulianese entrata la compagnia nel distretto del duca
di Durazzo, avendo difetto di pane, e mostrandolo maggiore, quelli
di Castello san Martino essendo molto forniti di vittuaglia, per
ingordigia del prezzo i villani di quello cominciarono a vendere
il pane un gigliato. La gente d’arme maliziosa e cauta, veggendo i
villani allargarsi all’esca del danaio, mandavano a uno e a due nel
castello insieme con le mani piene di gigliati a comperare del pane, ed
eglino si stanziavano di fuori senza fare alcuna guerra al paese; onde
avvenne, che dimesticata la gente matta e avara, per potere vendere più
del pane lasciarono entrare nel castello degli uomini della compagnia,
i quali dato segno a quelli di fuori furono di subito alla porta, e
con quelli d’entro cominciarono la mischia, e cacciarono le guardie
dalla porta, e misono dentro la compagnia, facendo per ciò sussidio
grande al loro stremo bisogno, ch’erano nel dicembre, e per loro non
trovavano pane nè strame per i cavalli, e nel castello abbondantemente
ne trovarono, e pertanto gran parte del verno vi dimorarono sovente
cavalcando il paese, e riducendosi all’ostellagione senza costo loro
con le prede faceano nel paese.

CAP. XX.
_Come il re d’Araona diè per moglie la figliuola a don Federigo di
Cicilia._
Del mese di novembre detto anno, lo re d’Araona diliberò di dare per
moglie a don Federigo figliuolo di don Piero di Cicilia la figliuola,
e a dì 27 di dicembre seguente giunse nell’isola di Cicilia con
quattordici galee ben armate, e fatto porto a Cattania, dove il giovane
re facea suo dimoro, ricevuta la donna con quella festa che far le potè
secondo il suo povero stato la disposò; e pensandosi che le galee de’
Catalani facessono guerra a Messina e all’altre terre del re Luigi,
senza arresto alcuno fornita la festa delle nozze se ne ritornarono in
Catalogna.

CAP. XXI.
_Come messer Bernabò si provvedde per avere gente, nuova per
guerreggiare Bologna._
Messer Bernabò mostrò di non curarsi dell’avvenimento degli Ungheri
e de’ Tedeschi che alquanto del verno stettono sopra le terre sue,
anzi scrisse al legato parole di scherno, volendo mostrare, che quello
che fatto avea tornerebbe tosto in sua confusione. E a certi suoi
confidenti mostrò un grandissimo tesoro accolto di nuovo senza toccare
quello della camera sua, il quale passava il numero di secento migliaia
di fiorini, i quali affermava sè avere diputati per vincere la gara di
Bologna. E per ciò cominciare e con danari e con doni mandò il conte
di Lando in Alamagna a sommuovere baroni e cavalieri a sua provvisione
per averli al primo tempo; il quale trovando che per l’imperadore e per
lo doge d’Osteric, e per lo marchese di Brandisborgo, e per gli altri
principi d’Alamagna fatto era comandamento, che niuno arme prendesse
contro a santa Chiesa, del mese d’aprile seguente tornò con dieci
bandiere di ribaldi, i quali per non avere che perdere non curarono i
comandamenti de’ loro signori, golando il soldo di messer Bernabò. Ora
nel processo nostro per lo verno dando sosta all’altre fortune ci si
apparecchia a narrare cosa spiacevole alla nostra città di Firenze, e
all’altre città a lei vicine.

CAP. XXII.
_Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del Regno venne in
Firenze, e della novità che per sua venuta ne seguio._
Messer Niccola Acciaiuoli fatto per lo legato conte di Romagna e del
suo segreto consiglio, sollicitato dal re Luigi co’ comandamenti, e da’
Fiorentini e dagli altri comuni di Toscana procacciava aiuto contro
alla compagnia d’Anichino; onde egli fatto vececonte in Romagna, e
provveduto d’uficiali alle terre commesse al suo governo per santa
Chiesa, a dì 9 di dicembre venne a Firenze, dove da’ parenti e dagli
amici, e dagli altri cittadini discreti e da bene a grande onore
fu ricevuto. Lo suo dimoro e portamento nella città era onesto e di
bella maniera, mettendo ogni dì tavola cortesemente, e senza alcuna
burbanza, chiamando i cittadini, e i grandi, e i popolari alla mensa,
onorandoli successivamente: e così stando in Firenze, con ogni onesta
sollecitudine che potea procacciava di fornire il comandamento del
suo signore, e richiedeva sovente con riverenza i suoi signori priori
e collegi d’aiuto, e simile in spezialità gli altri cittadini che
in ciò gli prestassono favore. E in questo stante novità occorsono
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