Annali d'Italia, vol. 8 - 84

venne in sul convenire: Fresia si arrese il dì 18 aprile.
Bentinck, acquistata la possessione di Genova, faceva sorgere
speranze di franco stato nei Genovesi. Ordinava pertanto un governo
preparatorio, ed i motivi pubblicamente per lui detti suonavano che,
stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato
dalle terre di Genova i Franzesi, e che importava che alla quiete ed
al governo dello Stato si provvedesse, considerato ancora che a lui
pareva che universale desiderio della nazione genovese fosse il tornare
a quella antica forma alla quale era stata sì lungo spazio obbligata
della sua libertà, prosperità e indipendenza, voleva ed ordinava che
quello che i popoli genovesi desideravano, si risolvesse in atto e si
mandasse ad effetto.
Già tutta l'Italia era sottratta dallo imperio di Napoleone: solo
restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la
somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della
Senna che su quelle del Po. Infatti, come prima pervennero in Italia
le novelle della presa di Parigi e della rinunziazione di Napoleone,
pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti franzesi, nè
si conveniva che, poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche,
si trovavano reintegrati in Francia, i Franzesi combattessero contro
di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai
Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che
gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria.
A questo fine uscito di Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e
l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero
le offese per otto giorni; che intanto i soldati franzesi che
militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nelle antiche sedi
di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, la città
di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani
continuassero ad occupare quella parte del regno che ancora era in
poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a
trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia,
e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli
alleati e gli Italici non potessero ricominciare se prima non fossero
trascorsi quindici giorni da che i primi si fossero scoperti delle
intenzioni loro.
La convenzione di Schiarino Rizzino, che in questo luogo appunto si
concluse il dì 16 aprile, spegneva del tutto il regno italico. Perchè,
segregati i Franzesi dagli Italiani, nasceva una tale disproporzione
di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che quel patto, il quale dava
quindici giorni d'indugio alle ostilità, era indarno.
Il vicerè, acconce le cose sue, già faceva pensiero di ritirarsi negli
Stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel
patrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere
o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il
regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio
le liete speranze: fecersi brogli, cominciossi dall'esercito ridotto
in Mantova. L'intento parte ebbe effetto e parte no; ma l'importanza
consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno
diviso in tre sette; alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con
niuna o poca differenza dall'antica forma; gli altri pendevano per
l'independenza, ma chi ad un modo, chi ad un altro; conciossiachè chi
l'amava, con avere per re il principe Eugenio, e chi l'amava, con avere
per re un principe di altro sangue, specialmente austriaco; questa era
la parte più potente.
Dopo molti e caldissimi dibattimenti, decretava il senato che si
mandassero tre legati a' confederati, supplicandoli, ordinassero che
cessassero le offese; domandassero i legati che il regno d'Italia fosse
ammesso a godere dell'independenza promessa e garantita dai trattati;
testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè,
e quanta gratitudine del suo buon governo avesse.
Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva
dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali delle
armi, le case più eminenti di Milano; si aggiunsero i negozianti più
ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Domandavano
che si convocassero i collegi elettorali. Era il 20 aprile, quando,
essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di
gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva
leggiermente, un'apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli.
I commossi non ristavano. Eravi ogni generazione di uomini, plebe,
popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Le donne stesse, e
delle prime partecipavano in questo moto. Era tutta questa gente volta
a bene, ed il male, non che l'avesse fatto, non l'avrebbe neppure
pensato. Ma, come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e
dal contado uomini ribaldi che volevano tutt'altra cosa piuttostochè
l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la
Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Franzesi;
halle l'Italia ad imitare.» Tutti gridavano: «Noi vogliamo i collegi
elettorali: noi non vogliamo Eugenio.» Fuggirono i senatori partigiani
del principe; il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle
sue stanze, e tutto con estrema rabbia ruppero e lacerarono. Gridossi
da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo: «Melzi, Melzi,»
e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui
gridò «Prina:» era Prina più odiato di Melzi, ed ecco che corsero
a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero, con insultar
anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Meiean e di
Damay; non li trovarono. La folla frenetica, messe le mani nel sangue,
le voleva mettere nelle stanze. Già le case si notavano, già le porte
si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano
andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la
guardia nazionale, frenarono i facinorosi e preservarono la città.
Il vicerè, che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano
indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci. Partiva indi
per la Baviera, le italiche ricchezze seco portando.
I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono
che le potenze alleate si richiedessero dell'indipendenza del regno, di
una costituzione libera, e di un principe austriaco, ma indipendente.
Si appresentarono i legati a Francesco imperatore a Parigi. Esposte
le domande, rispose, anche lui esser Italiano, i suoi soldati avere
conquistata la Lombardia: udrebbero a Milano quanto loro avesse
a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì 28 aprile:
Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il 23 di
maggio. Così finì il regno italico.
Continuava Genova in potestà d'Inghilterra. Il congresso di Vienna
decretò, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.
Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di venti anni,
si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio
Emmanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio
in Roma; passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Gioacchino
il real seggio di Napoli, ma per non durare; le italiane repubbliche
ebbero fine; solo fu conservato l'umile San Marino. Cedè Venezia a
Francesco, Genova a Vittorio.


Anno di CRISTO MDCCCXV. Indizione III.
PIO VII papa 16.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 10.

Mentre Napoleone Buonaparte, evaso il dì 26 di febbraio dall'isola
d'Elba, che gli era stata data in sovranità, faceva il solenne suo
reingresso, addì 21 del seguente marzo, nella capitale della Francia,
Gioacchino di Napoli, prevedendo di non potersi a lungo sostenere
sul reale suo seggio col beneplacito delle potenze alleate, pensò di
muoversi con le sue schiere verso l'alta Italia, chiamando da per tutto
gl'Italiani ad unirsi a lui a fine di rendere la patria independente.
Oppose l'Austria imponentissime forze all'ardito tentativo del
Napoleonide, il quale, vinto dagli avversarli, abbandonato da'
suoi, perdette il regno, in cui fu redintegrata l'antica dinastia.
Gioacchino, la notte del 19 al 20 maggio, in compagnia di Manhes
generale e di qualche altro, imbarcatosi, andò in Francia, dove fu male
accolto. Si risolvette allora a passare in Corsica; e quivi ebbe avviso
delle condizioni sotto le quali l'imperatore Francesco gli concedeva
generosamente un asilo ne' suoi Stati. Ma correndogli intorno molti
fuorusciti che l'avevano servito a Napoli, egli s'imbarcò, la notte del
28 settembre, con essi ad Ajaccio, per irrompere nella Calabria. Ma il
dì 13 ottobre trovò a Pizzo la morte.
Intanto era, il dì 8 di agosto, caduta Gaeta, e con essa tutto il regno
tornò sotto il dominio dell'antico signore, il quale, sbarcato già
a Baia il dì 5 di giugno, fece in appresso il trionfale suo ingresso
nella esultante Napoli.
Ceduta nel congresso di Vienna l'isola dell'Elba al granduca di
Toscana, le armi sue costrinsero alla resa la fortezza di Portoferraio,
che ancor si teneva, e quindi dell'intera isola presero possessione il
dì 6 di settembre.
Napoleone, partito per l'isola di Sant'Elena il 26 luglio, vi giunse
nel dì 13 ottobre seguente.


Anno di CRISTO MDCCCXVI. Indizione IV.
PIO VII papa 17.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 11.

Due soli avvenimenti meritano di essere notati nel presente anno.
Francesco d'Austria venne nei primi mesi a visitare il nuovo suo regno
d'Italia, che aveva assunto il nome di Lombardo-Veneto per conoscere
da sè i bisogni dei popoli, cui voleva ammessi a godere dei frutti
d'una saggia amministrazione. All'ordine della Corona di ferro, già
instituito sotto il precedente regno, diede l'Augusto imperatore nuovi
statuti, fissando il numero dei cavalieri a cento; cioè venti della
prima, trenta della seconda e cinquanta della terza classe, in tal
numero non compresi i principi della casa imperiale.
L'altro fatto degno di ricordanza si è la restituzione alle italiane
città tutte degli oggetti d'arti e di scienze stati loro in varii tempi
rapiti. I trattati ultimi di Parigi avevano obbligata la Francia a
restituire una preda che senza il più grave insulto alla proprietà ed
all'onor nazionale, non dovea essere fatta all'Italia. Roma, Firenze,
Bologna, Venezia, Torino ebbero più delle altre a rallegrarsi dell'aver
ricuperato un numero prodigioso di produzioni dell'ingegno de' loro
figli, che le rendono superiori per questo conto a qualunque più ricca
città del mondo.


Anno di CRISTO MDCCCXVII. Indizione V.
PIO VII papa 18.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 12.

In mancanza di verun avvenimento politico da registrarsi in quest'anno,
diremo la morte del celebre medico Eusebio Giacinto Valli di Toscana.
La passione di più sapere e di rendersi utile all'umanità aveva indotto
quest'uomo singolare a disastrosi viaggi per le quattro parti del
mondo. Fatte in Egitto e a Costantinopoli varie sperienze sopra sè
stesso relativamente al veleno pestilenziale, recossi all'Avana, ove
infieriva la febbre gialla. Quivi, presa la camicia di un marinaio
morto di tal malore, se ne stropicciò il volto, il petto, le mani,
le braccia e le coscie, fiutandola indi come un fiore, e finalmente
ponendosi a contatto del cadavere. Era molto contento della sua
sperienza. A mensa si sentì spossato, per aver corso, diceva. Chiese
del vino, mezzo, secondo lui, per conoscere se avesse acquistato la
malattia. Manifestossi in fatti, e in tre giorni lo spense.


Anno di CRISTO MDCCCXVIII. Indiz. VI.
PIO VII papa 19.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 13.

Un trattato, stipulato a Parigi, nel decorso anno, precisamente il dì
10 giugno, fra le corti d'Austria, di Spagna, di Francia, della Gran
Bretagna, di Prussia e di Russia, e pubblicato nell'anno presente,
stabilisce i futuri destini dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla,
che alla morte dell'arciduchessa Maria Luigia, passeranno in tutta
sovranità all'infante di Spagna Maria Luisa, e sua discendenza
mascolina.


Anno di CRISTO MDCCCXIX. Indiz. VII.
PIO VII papa 20.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 14.

In mezzo alla profonda pace onde fruiva in quest'anno l'Europa, altro
avvenimento non ne occorre da notare fuor quello che l'imperatore
Francesco di Austria con la consorte e la figlia si recò a Milano e
quivi unitosi all'altra figliuola Maria Luigia, passò nella Toscana,
dove con grandiose feste lietamente lo accolse il suo fratello
granduca.


Anno di CRISTO MDCCCXX. Indiz. VIII.
PIO VII papa 21.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 15.

In molte contrade dell'Europa non lievi sciagure cagionò lo spirito
esaltato dei popoli. Ogni angolo ne fu commosso, e pe' due anni
successivi rimase turbata l'universale tranquillità. Nel dì primo
gennaio fu dato il segnale d'allarme in Cadice, dove la forza armata
promulgò la antica costituzione delle Cortes, mentre nello stesso
giorno il fatto medesimo si avverava nell'isola di Cuba. In poco
tempo l'incendio si apprese a tutta la Spagna, sicchè la costituzione
fu nel dì 10 marzo pubblicata in nome del re anche in Madrid. Grave
reazione ne venne per parte dei così detti assolutisti; e ad egual
sorte soggiacque il Portogallo che avea imitato l'esempio della nazione
vicina.
Ma in un'altra estremità d'Europa manifestossi col massimo calore
il genio costituzionale: nel regno di Napoli. La notte del primo al
2 del mese di luglio, la maggior parte del reggimento di cavalleria
Reale Borbone, di presidio a Nola, abbandonate le stanze, inalberò una
bandiera tricolore su cui leggevasi scritto: _Viva la costituzione_.
Imitarono il fatto le provincie vicine, non tanto per parte delle
truppe regolari, quanto delle milizie. Giunte di ciò le nuove a Napoli,
furono subito spediti in varie direzioni corpi di truppe capitanate dai
generali Carascosa e Nunziante; ma intanto molte squadre di paesani,
armati in varie guise, eransi alleate coi costituzionali, e le stesse
truppe reali, unitesi alle altre, eressero nuovo vessillo col moto:
_Viva il re, viva la costituzione_, e coi tre colori adottati dalla
setta dei carbonari.
Manifestandosi in appresso disposizioni consimili anche in altri
reggimenti, il re Ferdinando stimò prudenza il pubblicare, nel dì 6,
una grida, diretta agli abitanti del regno delle Due Sicilie, nella
quale annunziava, sarebbesi sollecitamente pubblicate le basi della
nuova costituzione. Trionfo tale fu preludio di colpo più decisivo:
pubblicarono la costituzione spagnuola, alla quale, nel giorno 13
prestò giuramento il re, unitamente al duca di Calabria, vicario
generale ed erede della corona, al principe di Salerno, alla giunta
provvisionale, ai ministri, ai pubblici impiegati ed alle truppe.
Dichiarata legge dello Stato, parve che l'espediente avesse reso la
calma a quella parte meridionale dell'Italia. Già sino dal giorno 7
avea Ferdinando, atteso lo stato di sua salute, eletto a suo vicario
generale il principe ereditario, il quale, assuntosi il carico, scese
ad appagare i voti della nazione, confermando la costituzione di
Spagna, salvo le modificazioni che la rappresentanza nazionale avesse
trovato d'introdurre per adattarla alle circostanze locali.
Le faville dell'incendio propagavansi in Sicilia, la quale mirava
a svincolarsi dalla soggezione a Napoli. Pertanto, il 16 di luglio,
gli ammutinati in Palermo, commessi molti disordini, s'impadronirono
dell'arsenale, armandosi quindi in massa. Ne sorse una mischia
sanguinosa colle truppe del presidio composto di quattro in cinque mila
soldati. Ma nel giorno seguente, facendo i campagnuoli causa comune co'
Palermitani, i regi rimasero vinti, mentre dalle finestre i cittadini
gli opprimevano, gettando loro addosso olio ed acqua bollente, pietre,
e qualunque cosa lor giungesse alle mani. Quattro mila vittime caddero
in questo fatto, per imperizia e imprevidenza del luogotenente generale
Naselli. Molti edifizii, in ispecie gli archivi e le carceri, furono
preda delle fiamme. Naselli si salvò sulla reale feluca il Tartaro,
di dove elesse una giunta provvisionale ad essa, con una grida del 17
luglio, commettendo il governo dell'isola.
Come pervenne la molesta notizia a Napoli, il duca di Calabria,
nella sua qualità di vicario generale del regno, imprese con gli
scritti e con l'armi a sedare la insurrezione, mandando in Sicilia
il generale Florestano Pepe, al quale, dopo grave e micidiale
combattere, riuscì, giovato dal potere del principe di Paternò sul
cuore del popolo palermitano, a stabilire, nel dì 5 ottobre, che le
truppe napolitane occupassero i forti, ed il dì 6 prendessero posto
al Molo ed intorno alla città. Contuttociò il popolo di Palermo
spiegava la sua inquietudine e l'odio contro gli occupatori. Il
generale in capo, d'accordo con la giunta, potè a poco a poco ridurre
tutti i male intenzionati al dovere, e avendo riconosciuto essere la
popolare sommossa stata tutta prodotta da non pochi oligarchi, che il
napolitano freno disdegnavano, procedette a disarmare i meno inquieti,
ad arrestare i facinorosi, e quindi a costringere i più fervidi che,
trovandosi isolati, si consigliarono a deporre le armi; e con tal modo
fu resa la pace all'isola che per molto tempo rammenterà questa breve
sì, ma funestissima insurrezione.
Contemporaneamente anche i Beneventani si ardirono di seguire l'esempio
dei confinanti: ma il governo di Napoli ordinò espressamente ai
popoli tutti di non prestare aiuto nè diretto nè indiretto a quella
popolazione, non volendo dare motivo di doglianze alla Santa Sede, in
cui potestà era Benevento tornata.
Il parlamento di Napoli in questo mentre teneva sue sessioni, e
spendeva il tempo a cambiare i nomi alle provincie del regno, quelli
volendo repristinare che portavano i loro abitatori al tempo della
repubblica romana. Non pensavano che le principali potenze non
avrebbero permesso che si dicesse che una nazione in Italia avea
imposto al suo re una costituzione. Infatti, congregatosi a Tropau un
congresso di ministri, ivi giunsero, nei primi giorni di novembre,
gl'imperadori d'Austria e di Russia ed il re di Prussia per meglio
discutere le cose di Napoli. L'imperadore Francesco d'Austria scrisse
al re di Napoli, sul finire del mese stesso, una lettera, con la quale
non solo gli dava contezza che il congresso si sarebbe trasferito a
Lubiana, ma lo invitava, a nome ancora degli altri potenti ed illustri
suoi alleati, e recarvisi in persona, per trattare degl'interessi più
cari del suo regno.
Partì di Napoli il re il 13 di dicembre sul vascello inglese il
Vendicatore, e giunse a Lubiana il 14 del successivo gennaio, avendo
già manifestato, con sue lettere da Livorno, ai sovrani riuniti in
congresso ed a quei di Francia ed Inghilterra i proprii sentimenti
sopra gli avvenimenti del napolitano regno.
È notabile il presente anno per l'eccessivo freddo che al suo terminare
regnò in tutta Europa; e più ancora per la morte di Giorgio III, re
d'Inghilterra, accaduta il dì 30 gennaio, e per l'assassinio del duca
di Berry commesso la notte del 13 al 14 febbraio dal sellaio Luigi
Pietro Louvel.


Anno di CRISTO MDCCCXXI. Indizione IX.
PIO VII papa 22.
FRANCESCO I imperad. d'Austria 16.

Quantunque numerose forze fossero dalla Germania calate in Italia
per essere pronte ad eseguire quanto sarebbesi dai sovrani accolti
in congresso a Lubiana risoluto, s'accrebbero nella penisola le
turbolenze. Decretavasi nella lubianese adunanza, numerosissima,
poichè, oltre ai monarchi già ricordati, tutti i principi d'Italia vi
si fecero rappresentare ed il duca di Modena vi assistette in persona,
di porre un termine al germe costituzionale di Napoli, per togliere
agli altri popoli l'esempio di costringere i sovrani a pattuire con
essi. Ma il governo di quella meridional parte d'Italia, preseduto
dal principe ereditario e vicario generale del re, poneasi in istato
di difesa, e minacciava di resistere a qualunque forza straniera che
si fosse presentata per distruggere l'opera che da essi medesimi si
fondava sopra non troppo solide basi, giacchè nulla di giovevole alla
nazione vi faceva quel partenopeo parlamento.
Fatte intanto palesi le risoluzioni delle potenze alleate, numeroso
esercito austriaco varcava il Po, e per varie strade si dirigeva alla
volta di Napoli, sotto il comando del feld-maresciallo Frimont. Con
grande circospezione marciavano le falangi, mentre una sorda voce
annunziava che, appena avessero attaccato i Napolitani, una pressochè
generale sollevazione in Italia, e specialmente negli Stati papali
e nel Piemonte, le avrebbe condotte a certa rovina. Il generale
Frimont, con suo manifesto dotato da Padova, fece conoscere per tutto
ove passava quali fosser le mire della sua spedizione. Una lettera
del re di Napoli, diretta a suo figlio reggente del regno, e fatta
pubblica, avvisò i Napolitani del quanto avessero a temere, se non si
rimettevano ciecamente nelle braccia del loro monarca, arrendendosi
alle forze tedesche. In una dichiarazione mandata fuori da Lubiana, e
resa pubblica in tutti i possibili modi, eransi espressi gli alleati
sovrani che «se, contro ogni calcolo ed a grave rammarico dei monarchi
alleati, questa bene intenzionata impresa, lontana da qualunque mira
ostile, avesse a degenerare in una guerra formale, o la resistenza
d'una implacabile fazione e delle compassionevoli vittime della sua
frenesia venisse prolungata per un tempo indeterminato, allora sua
maestà l'imperadore di Russia, inalterabilmente fedele a' suoi alti
principii, alla sua intima convinzione della necessità di reprimere
male sì grande, fedele a que' nobili e costanti sentimenti di amicizia
di cui ha dato nuovamente tante inestimabili ripruove, associerà i suoi
combattenti a quelli dell'Austria.»
O fosse il timore di vedersi piombare addosso la mole armata de' due
imperii, o che l'editto del re Ferdinando e le grida del generale
austriaco, che avevano già circolato pel regno, avessero diviso gli
animi e tolto il coraggio, o qual si voglia altra causa, forse propria
dall'incostante carattere di quella popolazione, che sel facesse,
piccola fu la resistenza che nel giorno 7 di marzo e ne' tre successivi
presentarono le truppe napolitane comandate dal generale Guglielmo
Pepe, meno ancor delle milizie, le quali, sole pugnarono; ma, vedutesi
abbandonate dai soldati stanziali, si dettero a vergognosa fuga.
In quei tre giorni gli Austriaci superarono le gole d'Antrodoco, si
resero padroni degli Abbruzzi e della strada che dall'Aquila conduce a
Sulmona, e quindi a Napoli. Inoperoso era stato il general Carascosa,
mentre la destra dell'esercito era alle prese con gl'imperiali; laonde
la truppa più disciplinata, più agguerrita, e quella che chiamavasi
scelta, tutta sotto gli ordini di lui, nemmeno si mosse dalle sue
stanze. Adunatosi, alla novella di tali fatti, il parlamento nel giorno
12, si deliberò a pregare il duca di Calabria, vicario generale del
regno, di spedire un messaggio al re, per presentare in suo nome,
un atto di rispetto e di sommissione al monarca. Infatti, fu a tanto
uffizio mandato il generale Fardella a Firenze, ove sino dal 9 marzo
era giunto da Lubiana il re Ferdinando.
Era Ferdinando a fatto di quanto accadeva, ed avea avuto notizia e dei
progressi degli Austriaci e della seguita occupazione di Capua. Accolto
pertanto il generale Fardella, lo rispediva a Napoli con sue lettere al
principe reggente, nelle quali rimproverava gli autori della resistenza
e della violazione del territorio papale, dov'eransi dalle truppe
del generale Pepe cominciate le ostilità. Ma mentre giungeva, era il
24 marzo, l'esercito austriaco entrava per convenzione in Napoli, e
metteasi in possesso di tutti i forti. Fu il principe di Salerno che
volò a recare la felice novella al re suo padre, il quale già aveva
antecipatamente chiamato un governo provvisionale che sino a nuova
sua disposizione assumesse la cura delle cose del regno. Così restò
sciolto il parlamento, incarcerati tutti i membri che lo componevano.
Un editto fulminante pubblicava in Napoli contro i settarii, a nome del
re, il marchese di Circello, presidente del provvisional governo, col
quale, innumerevoli essendo i proscritti, molti si diedero alla fuga,
e furono in contumacia condannati allo ultimo supplizio, ed altri vi
soggiacquero in fatto, mentre altri ancora od erano puniti di esilio o
di galera o di prigione: promessi, per ordine del tribunale di polizia,
mille ducati a chiunque avesse arrestato uno dei designati quali autori
principali della rivoluzione. Il dì 26 marzo anco la piazza di Gaeta si
arrese agli Austriaci, essendo stato il comandante Begani minacciato
d'essere trattato da ribelle in una co' suoi soldati, ove non cedesse
la fortezza. Questo infausto moto produsse adunque al napolitano popolo
soltanto spese enormi, proscrizioni e morti ignominiose. Il generale
Pepe potè sottrarsi a tanti guai, perchè il principe reggente, che
l'aveva in particolare affezione, lo fece allontanare dal regno.
Il re Ferdinando, rientrando nella sua capitale il dì 15 maggio, vi
fu ricevuto tra le acclamazioni d'una popolazione solita a festeggiar
l'ingresso di tutti coloro che destinati sono dalla Provvidenza a
governarla, e con sua notificazione si espresse di voler riformare gli
abusi e purificare tutti i dicasteri, perchè più non avesse nutrimento
l'idra rivoluzionaria. Infatti, molti e molti furono i generali ed
ufficiali dimessi, non pochi gli arrestati, ed in tutti i dipartimenti
non vedevansi che riforme, mutazioni e dimissioni.
Ma la Sicilia non avea dimostrato quella sommissione che gli stati
di qua del Faro, sì nel tempo del regime costituzionale e sì quando
presentaronsi gli Austriaci per entrare nel regno. I due partiti
erano sempre in fermento e fu d'uopo d'un grosso numero di soldatesche
forastiere, le quali, unite ai regi, poterono ricondurvi l'ordine. È
bensì vero che in quella isola minore fu la ricerca che si fece dei
perturbatori dell'ordine pubblico e dei fautori della costituzione,
onde più presto sedaronsi gli animi e più presto obbedienti si
piegarono agli ordini del comandante austriaco e de' regi magistrati.
Una convenzione fu finalmente conchiusa fra sua maestà l'imperadore
d'Austria e il re delle Due Sicilie, nel dì 18 ottobre, e ratificata
l'8 del gennaio susseguente nella quale, a ristabilimento dell'ordine
in tutto il regno, stipulavasi che un esercito austriaco in esso
stanzierebbe sino alla totale pacificazione e al riordinamento delle
cose, a tutto carico e spesa del napolitano erario.
Contemporaneamente ai primi passi sui confini napolitani, una sommossa
scoppiava, per parte delle truppe, nel Piemonte, e segnatamente in
Alessandria, nel dì 8 marzo. Questa voglia di novità si diffuse anco
in parte nella guernigione di Torino ed in altri reggimenti sparsi
in varie città degli Stati Sardi. Gli studenti, i quali, per avere
sino dal dì 11 di gennaio resistito alla truppa in un conflitto
nel quale erano rimasti feriti diciotto loro compagni, aveano avuto
severo gastigo, si unirono ai rivoltosi, e l'esempio loro fu da molta
gioventù seguitato, facendo per ogni dove udire le grida di _viva la
costituzione_. Tutti coloro che per delitti politici erano stati in
varie parti del regno, pochi giorni prima arrestati e tradotti nelle
carceri di Torino, furono posti in libertà. Il re Vittorio Emmanuele,
dal cui animo non era mai uscito il divisamento di sottrarsi alle gravi
cure dello Stato, dopo lungo consiglio, per non mancare agl'impegni
contratti con le alte potenze nel congresso di Vienna e di Tropau,
creò reggente del regno il principe di Carignano, che pubblicò un
editto, annunziando i poteri conferitigli dal re e l'abdicazione di
lui al trono in favore del fratello Carlo Felice, il quale da Modena,
ove in quel mentre si trovava, notificò ai popoli del regno, avere
lui assunto l'esercizio della regia podestà, e non riconoscere allora