Annali d'Italia, vol. 8 - 83

di fare. Tuttavia scese a nuovo abboccamento; ma non si potè venire
ad alcuna conclusione, per forma che l'ambasciatore disse per ultima
risposta: O costituzione o rivoluzione. Nè interponendo dilazione,
partì, andò a Londra, e in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma
i ministri d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero,
diedero a Bentinck podestà suprema sopra tutte le truppe inglesi
raccolte nell'isola, acciocchè quello che pei concilii non potesse,
colla forza il potesse. L'ambasciatore parlò, minacciò; la regina si
ritirava ad un suo casino poco distante dalla città. L'evento finale
si avvicinava, si rompevano le trame napoleoniche in Sicilia, la parte
inglese trionfava. Bentinck, recatosi in mano la somma dell'autorità,
operò primieramente che Ferdinando re, sotto colore di malattia,
rinunziasse alla potestà reale ed investisse di lei pienamente il
principe ereditario suo figliuolo con titolo di vicario generale del
regno. Bentinck fu eletto capitan generale della Sicilia, accoppiando
in tal modo in sè l'imperio militare e sopra i soldati del re Giorgio e
sopra quelli del re Ferdinando.
Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i
baroni carcerati, il licenziare i ministri del precedente governo,
l'abolire il dazio dell'un per centinaio, il chiamare ministri Belmonte
degli affari esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e
marina. Indi puniti pochi più in odio al popolo, mandavansi i rimanenti
in dimenticanza.
Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei
membri, provvedessero che la Sicilia avesse un buono e libero governo,
rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di costituzione. I
baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentinck era accesissimo
in questo, che promulgassero libertà e statuti generosi in ogni luogo.
Incominciossi dagli ordini supremi della costituzione. Statuirono che
la religione cattolica, apostolica, romana fosse la sola religione
del regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto;
la potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il
parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti approvati dal re avessero
forza di legge; l'approvare od il vietare del re in questa forma
si esprimesse: Piace al re, o: Vieta il re; la potestà esecutiva
fosse investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona;
i giudici avessero intiera indipendenza dal re e dal parlamento: i
ministri fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento
l'esaminarli, il processarli, il condannarli per crimenlese; due camere
componessero il parlamento, una dei comuni o dei rappresentanti del
popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti
dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fosse pari del regno
chiunque avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o chiunque
il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il convocare
il parlamento, ma fosse obbligato a convocarlo ogni anno; la nazione
desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona cedessero in
amministrazione della nazione; niun siciliano potesse essere turbato nè
nelle proprietà, nè nella persona, se non conforme alle leggi sancite
dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali peculiari pei pari del
regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i sussidii,
o vogliam dire i donativi, il parlamento vedesse quali e quante parti
della costituzione della Gran Bretagna convenissero alla Sicilia, ed
esse ad utilità comune si accettassero.
Questi furono i capitoli principali della costituzione siciliana circa
agli ordini primitivi dello Stato. A questi si aggiunse una maraviglia
non senza molta parte di gratitudine per certi capitoli aggiunti,
essendone posto il partito dei baroni: il fecero per generosità
d'animo, il fecero per conciliarsi i popoli. Offerirono spontaneamente,
e fu dal parlamento statuito che il sistema feudatario fosse e restasse
abolito in Sicilia, con tutte le sue conseguenze.
Giubilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei
baroni ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava che il
re, cioè il principe vicario, appruovasse. Fuvvi qualche soprastare.
Duro pareva a chi regnava lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto
operarono Bentinck, il parlamento ed i segni dell'impazienza popolare,
che il principe vicario dichiarò piacergli i capitoli. La regina si
ritirava a Castelvetrano, terra distante sessanta miglia da Palermo,
finchè nell'anno seguente, lasciando la Sicilia, portata dai venti e
dall'avversa fortuna in istrani e barbari lidi, potè infine con disagi
incredibili rivedere la sua Vienna, riabbracciare i parenti e respirare
l'aere natio, donde solo poteva sperar conforto. Ma non fu lungo il
sollievo, perchè, presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da
questa all'altra vita.
Mentre Guglielmo Bentinck dominava in Sicilia, Eduardo Pellew
signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano
ad un solo, il mare in mano ad un solo. Nacquero accidenti ora in
questo mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità
tanto notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra.
Predarono gl'Inglesi già sino dal 1811 molte onerarie al capo
Palinuro. Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi,
s'impadronirono, presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse
cariche di vettovaglie. Fatto di maggiore importanza è una battaglia
navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole
antemurali della Dalmazia. Vinse la fortuna britannica: le fregate
franzesi la Corona e la Bellona vennero in potere degl'Inglesi; la
Flora si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa
fazione Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma
ed un nido sicuro, dove e donde poteva ritirarsi ed uscire a dominar
l'Adriatico.
Già i fatti assalivano Napoleone; la ambizione, che mai non dormiva in
lui, gli toglieva l'intelletto. Come la Francia, la Germania, l'Italia
non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse.
La Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni, quella amica poco
sincera, questa nemica costantissima. Parevagli che due grandi imperii,
quali erano il suo e quel di Alessandro, non potessero sussistere
insieme nel mondo. Questi pensieri tanto più gli turbavano la mente,
quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima
non domasse la Russia. Per questo e per altri ancor più vasti disegni
ambiva di soggiogarla, confidando che il vincerla gli metterebbe in
seno l'imperio del mondo.
Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava
che il più presto sarebbe il meglio; mezzo mondo era vicino a marciare
in guerra contro mezzo mondo, i due imperii apprestavano le armi con
tutte le forze loro.
Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento delle armi
ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono,
come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro
piccoli fatti, certamente molto abbietti e molto indegni di tanta
mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo
sapeva; questo era la impossibilità del vivere insieme sulla vasta
terra. Napoleone, come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il
suo fato, assaltava primo il 23 e 24 giugno. Infierì la guerra in
regioni rimotissime: desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle
del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina
sulla Masewa: era fatale che sui confini dell'Asia perisse la fortuna
napoleonica: arse Mosca, immensa città, cagione e presagio di casi
funesti. Una rotta toccata a Murat avvertiva Napoleone che il nemico
si faceva vivo, e che quello non era più tempo di starsene in fondo
delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi.
Pensò di ridursi, passando per Calug e Tuia, a svernare nelle
provincie meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di
Malo-Yaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati
del regno italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si
cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù
di Kutusof, generalissimo di Alessandro. Napoleone, ributtato con
ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata
strada di Smolensco; il russo gelo spense l'esercito: pianse e piangerà
eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore
perduto.


Anno di CRISTO MDCCCXIII. Indizione I.
PIO VII papa 14.
FRANCESCO I imp. d'Austria 8.

Al suono delle rotte napoleoniche, la Prussia insorgeva e si vendicava
cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di
Parigi. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarii, abbandonato
l'esercito, se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè.
Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente
commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni
sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto ch'egli aveva negoziato
col siciliano governo di cose pregiudiziali al suo dominio napolitano.
Dall'altra parte gl'Inglesi si erano deliberati a pretendere ed a
mettere fuori certe voci: che oggimai, cioè, era venuto il tempo di
dare all'Italia l'essere independente. Bentinck, o tentativamente o
sicuramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole
incitatissime, e dimostrava la Gran Bretagna parata a secondarlo.
Conosceva Gioacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca,
passò dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderii si erano
accesi, e si mise a fare gran promesse. Bentinck, conosciuto l'uomo,
e volendo turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il
confortava ad assumere le insegne di campione dell'italica franchigia.
Insinuazioni consimili facevansi ad Eugenio, perchè da Napoleone si
distaccasse; e non senza frutto. Tanto poi si era fatto per l'attività
del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di
Franzesi raccolti dai presidii e dagli iscritti dell'Italia franzese,
parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere
queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere,
almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La
tempesta intanto di verso il mare e di verso il Tirolo e l'Illirio si
avvicinava.
Aveva l'imperadore Francesco, che in grandissima prontezza si era
allestito alla guerra, mandato un forte esercito in cui si noveravano
meglio di sessanta mila buoni soldati ai confini per modo che cingeva
tutto il regno italico da Carlsbad di Croazia insino al Tirolo.
Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande
sperienza per esser già molto oltre con gli anni e vecchio ancora di
milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra' quali
principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti
nelle italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto,
con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della
lega, esortava gl'Italiani «a levarsi contro il tiranno a generale
liberazione dell'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti
ed a cooperazione di poderosi eserciti che accorrevano in aiuto loro da
ogni banda.»
Questo era il nembo che minacciava il regno italico dai paesi di
settentrione e di oriente. Verso ostro i confini non gli erano sicuri,
perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei
popoli, si erano accordati, che mentre gli Austriaci l'assalterebbero
dalla parte loro, gl'Inglesi, o con soldati proprii, o con soldati
d'ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o
finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due litorali
dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto
da quella di Italia. Intendevano anche a percuotere nei lidi italiani,
entrando per le bocche del Po per far diversione in favore dello sforzo
principale che calava dalle Alpi Rezie, Giulie e Noriche. Avevano anche
speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Gioacchino
di Napoli si sarebbe congiunto a loro; e le forze del re di Napoli
erano di grande momento perchè andavano a ferire il regno italico a
fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa, perchè nissuno anche
previdentissimo, avrebbe potuto immaginare questo, che Gioacchino di
Napoli fosse un giorno per muovere l'armi contro l'italico regno.
Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè
gli Inglesi, essendo ormai certi delle intenzioni di Gioacchino, si
proponevano di far impeto con quei loro soldati multiformi e racimolati
da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano non senza ragione
avversa al nuovo Stato, e desiderosa di tornare all'antico. Venivano
con loro Bentinck e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà
e d'independenza. Avevano essi trovato non saprebbesi che bandiere
con suvvi scritto il motto _Indipendenza d'Italia_, e dipinte due mani
che si toccavano in segno di amicizia e di colleganza. A questo modo
suonava di ogn'intorno un forte nembo al regno italico.
Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila
soldati, nei quali erano i veterani italiani venuti di Spagna, i
soldati di nuova leva e la guardia reale italiana, bella e valorosa
gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Franzesi anch'essi,
o raccolti prestamente dai presidii, o chiamati dalla Spagna con
celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Li partiva in tre
principali schiere: la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue
stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonso, terre tante volte
ancora gloriosamente conquistate dai Franzesi; la seconda, retta da
Verdier, alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La
terza, quest'era la Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava
Pino. Una parte di essa, sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e
Bellotti, era mandata a custodire l'Illirio, la cavalleria stanziava
a Treviso; per vigilare intanto agli accidenti del Tirolo, parte
che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in
Montechiaro; quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata
sotto il governo di Giflenga a combattere in Tirolo contro un corpo di
Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo
dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel
piccol numero dei soldati, i presidii, la maggior parte italiani, di
Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più
imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il
campo principale ad Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra
della Sava, sulla strada per a Carlsbad di Croazia e per a Lubiana di
Carniola. Al tempo stesso, allargandosi sulla sinistra, mandava una
forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo
avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt,
minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti paesi, e sì
per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori
dell'affezionato Tirolo.
Gli Austriaci, cingendo con largo circuito tutta la fronte
dell'esercito italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed
all'occorrenza presente ed alla natura sempre circospetta molto bene si
conveniva. Sicura era la loro destra pei fatti succeduti in Germania,
ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi
uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i
Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, e la inclinazione
loro rendeva sicuro il loro paese alle forze austriache e dava sospetto
al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle.
Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro
sinistra, posciachè sapevano che le popolazioni dalmate e croate erano
pronte a sorgere contro i presenti dominatori.
Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i
presidii, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da
deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno
e tenendo infestato la campagna, cedettero facilmente. Una presa di
Croati, avvalorata da qualche battaglione di Austriaci, urtando contro
Carlsbad, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati, più
oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale
Janin, impotente a resistere. I Croati, ch'erano stati arrolati sotto
le insegne franzesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle
antiche insegne di Austria. Mentre a questo modo felicemente si
combatteva per gli Austriaci verso lo Adriatico, mandavano grossi
squadroni verso il Tirolo. Giunto a Brixen, scendevano per le rive
dell'Adige con intento di andar a battere nelle veronesi e nelle
bresciane regioni. Al tempo stesso veniva alle mani nel mezzo: fu
preso e ripreso Grinborgo con molto sangue da ambe le parti. Sorse un
gravissimo contrasto a Villaco, e dopo un feroce combattere, in cui la
città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera
dei Tedeschi, i Franzesi rimasero vincitori. Gli Austriaci, seguitando
il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso
più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva.
Dalla parte superiore, precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano
di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano
nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio
avevano passato la Sava a Grinborgo ed a Ramansdorf, per dove facevano
sembianza di condursi per Tulmino nelle regioni superiori del Friuli.
Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.
Non era più in potestà del vicerè il resistere. Avevano gli avversarii
maggior numero di soldati ed i popoli amici; erano al vicerè minori
le forze ed i popoli avversi. Ritirandosi adunque, fermossi prima
sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre
valorosamente, sempre inutilmente. Le stanze della Piave non si
potevano conservare. Già gli Austriaci, scesi a Bassano, vi avevano
fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle, davan timore di
estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Fu infatti
costretto a combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò
due giorni, il 31 ottobre ed il primo novembre. Vinse la fortuna
franzese ed italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella
sanguinosa città. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente
sull'Adige; marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza,
andando ad alloggiarsi a Verona ed a Legnago.
Sulle veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani
mali semi contro il vicerè, che, già insino in Prussia dopo le
disgrazie di Russia, si era lasciato uscir di bocca parole di cattivo
concetto verso gl'italiani generali. Nè il suo disprezzo nelle semplici
parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose
tenendosi eglino molto offesi, avevano appoco appoco sparso una mala
contentezza fra i soldati, dal che ne seguivano nel campo sinistre
mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe.
Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in
guerra. Corse in Tirolo, vi fece fazioni onorate, ma senza frutto;
liberò Brescia dal nemico, ma indarno; ruppelo in una grossa e bene
combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là dond'era
venuto: il nemico, che era stato rincacciato fin oltre all'Alpone,
venne fra breve a rinsultare San Michele di Verona. Appena la fronte
dell'Adige, fiume grosso e munito sotto dalla fortezza di Legnago,
sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere.
Ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, nè fia l'ultimo a
raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della tragedia. Aveva
il generale austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in
Istria contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma
quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata
di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si
erano arrese all'armi tedesche. Sola restava dell'antico austriaco o
veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual
cosa Nugent, messosi sulle navi a Trieste, era venuto a sbarcare a
Goro con una grossa mano di accogliticci; poi si spingeva tostamente
innanzi e s'impadroniva di Ferrara. Quivi correva il paese coi suoi
soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione.
L'importanza del fatto era che si congiungesse con le schiere d'Austria
che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova.
A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso
alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro
canto Bellegarde, generalissimo succeduto ad Hiller, per consentire
coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tre mila
soldati sotto la condotta del generale Marshall.
Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva
speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decomby
a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle
due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna,
assembrava quante genti poteva e le spingeva avanti alla guerra
ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno pegli accidenti che seguirono.
Aveva bene Decomby cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e
costretto a ritirarsi a Boara padovana. Ma gli Austriaci continuamente
ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavia era
in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi aiuti col
generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine
comune con Decomby. Uscirono i Tedeschi da Boara padovana; Decomby e
Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un ostinata zuffa: combatterono i
Franzesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra; si ritirarono
i Tedeschi nel loro sicuro nido di Boara padovana; ma colto il
destro che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano
i Franzesi, con un impeto improvviso li ruppero e li costrinsero
a ritirarsi prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnero.
Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione
di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione,
s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì.
Ora trovavasi Gioacchino di Napoli molto perplesso, e siccome
le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od
infauste, si appigliava a questa parte ed a quella, a questo partito
ed a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il
suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con
la sua naturale varietà, aveva negoziato ora coll'Austria, ora con
Bentinck, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè si
accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria
e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di sè medesimo, si avviava
verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche,
nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole di amicizia verso
il regno italico. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente
dai presidii franzesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia e
di Napoleone. Infine, veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle
dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la
Francia, ed aspettato Bentinck oramai vicino a tempestare in Toscana,
rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del
tutto ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare e di
che si perturbò più d'ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi
con l'Austria, stipulando con lei un trattato. Bellegarde annunziava
pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Gioacchino con la
lega. Gioacchino, scoprendosi nemico in quei paesi dov'era entrato e
stato accolto come amico, sforzava il generale Barbon, che custodiva
in nome di Francia la fortezza di Ancona, e Miollis che teneva
castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo Stato romano veniva
all'obbedienza dei Napolitani.


Anno di CRISTO MDCCCXIV. Indizione II.
PIO VII papa 15.
FRANCESCO I imp. d'Austria 9.

Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla
sponda destra del Po, l'accostamento del re di Napoli alla lega e la
presenza delle sue numerose schiere del Modenese toglievano al vicerè
ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti
pertanto gli apprestamenti necessarii, si tirava indietro, e andava
a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì 8 febbraio
usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale
battaglie Bellegarde. Ogni schiera, passato il fiume, correva ai luoghi
destinati, quando la fortuna, per un accidente improvviso, ridusse il
disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui
Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio,
si era Bellegarde risoluto ad andar a trovare Eugenio alla destra.
L'esito però fu che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra
del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a
ritirarsi con tutta la sua forza sulla destra.
Intanto Eugenio si accorgeva che non era più in sua facoltà d'indugiar
a soccorrere alle cose d'oltre Po, che, per la invasione dei Napolitani
diventavano ogni ora più difficili. Munita già di qualche maggiore
fortificazione Piacenza, vi mandava con qualche aiuto di nuove genti
Grenier. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi,
Istriotti ed Italiani; il retroguardo Gioacchino coi suoi Napolitani.
Come primo Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù
Nugent, e la sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Nugent
però, sperando di arrestarne l'impeto, si era fermato con tre mila
soldati a Parma. Il Franzese, urtando la città da ogni parte, vi
entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte
de' suoi soldati il Tedesco. Il re di Napoli, tornato più grosso, e
sforzato finalmente il passo del Taro, già si avvicinava a due miglia
da Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarii, ma più
alte e più strepitose sorti.
Pellew e Bentinck comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte
e grosse navi con sei mila soldati da sbarco, italiani, siciliani,
inglesi. Il governatore vuotò la città per patto; vi entrarono
gl'Inglesi il dì 8 marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole;
si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'italiana
independenza. Bentinck in questo si mostrava molto acceso, Wilson il
secondava.
Ma l'Inglese, siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto
giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno che Genova si
guardava solamente da due mila soldati; abbondava d'armi e di munizioni
navali; si accingeva ad espugnarla. Giunta a Sestri di Levante,
udiva che nuovo soccorso era entrato a custodir Genova per forma che
il presidio sommava a sei mila soldati: presidio insufficiente alla
vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura la
impresa; il reggeva Fresia. Dal modo onde si era questi apparecchiato
conseguitava che era a Bentinck necessità di insignorirsene per un
assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo
ardire ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse.
Succedevano i fatti a secondo de' suoi pensieri. Non volendo il
presidio dei forti Tecla e Richelieu aspettare l'ultimo cimento, si
arrese a patti. Gli assediati, vedendo che, per la perdita di quei
forti, correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso
di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori
in potere dei confederati. Già per opera di Bentinck si piantavano le
batterie per fulminare la città. In questo, ad accrescere il terrore,
arrivava sopra Genova Pellew con tutta la sua armata, attelandosi
a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentinck si aggiungevano i
grossi e le bombarde di Pellew per modo che allo assalto che si vedeva
imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si