Annali d'Italia, vol. 8 - 82
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peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al
suo fine, quattro mezzi mise in opera, notizia esatta del numero dei
facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni,
armamento dei buoni, giudizii inflessibili.
Chi si diletta di considerare le faccende di Stato ed i mezzi che
riescono, e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo
prudente e rigido Franzese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e
ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età.
Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose
le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare
i bestiami e i contadini a borghi più grossi, che erano guardati
da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori di agricoltura,
dichiarò caso di morte a chiunque che ai corpi armati, da lui non
essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori
a correrla i corpi dei proprietarii armati da lui, comune per comune,
intimando loro fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o
morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi,
che truppe urbane, che andavano a caccia di briganti, e briganti
che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato,
rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano,
e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con
crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre,
che ignara, degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo
che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata
una fanciulla, alla quale furono trovate lettere indiritte ad uomini
sospetti. Nè il sangue dei carboneri si risparmiava. Capobianco loro
capo, tratto per insidia, e sotto colore di amicizia nella forza, fu
ucciso. Un curato ed un suo nipote, entrati nella setta, furono dati a
morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, lo zio il secondo.
Rifugge l'animo a chi già tante orrende cose raccontò, dal raccontare
i modi barbari che contro di loro si usavano. I carbonari, spaventati
dalle uccisioni, perocchè molti di loro perirono nella persecuzione, si
ritirarono alla più aspra montagna.
I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e
privo di vettovaglie, perirono, o nei combattimenti, che contro gli
urbani ferocemente sostenevano, morivano, o, preferendo una morte
pronta alle lunghe angosce, o da sè medesimi si uccidevano, o si davano
volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi,
condotti innanzi a tribunali straordinarii composti d'intendenti delle
provincie, e di procuratori regi, erano partiti in varie classi, quindi
mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes.
Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni
orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà.
Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi li favoriva,
o poveri, o ricchi, o quali fossero o con qual nome si chiamassero;
perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure,
per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a
giuste pene fatti iniqui. Succedevano vendette che fanno raccapriccio a
raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano
mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico
di Cartopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del
nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo
ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Parafanti donna,
per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome,
arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo
supplizio, perì. Posti in fila del destinato giorno, l'infelice donna
la prima, i parenti dietro, preti e boia alla coda, marciavano in una
processione, che non si saprebbe con qual nome chiamare. Eransi poste
in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di
San-Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo
si accostavano al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una
commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizii coloro
che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani, spinti da rabbia e
da desiderio di vendetta, infierivano contra i malfattori; insultavano
con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani
togliendoli dei carnefici per ucciderli. Furono i Calabri facinorosi
sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizii, morì per
fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati
casali, ed anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor
minaccie, ferocia e furore; la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni
ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari
angusta e malsana videne perire nell'insopportabile tanfo gran
moltitudine.
La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi;
i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi
si brancolavano per isfinimento o per angoscia sui morti, i
sani sui moribondi; e sè stessi, come cani, con le unghie e coi
denti laceravano. Infame pozza di putrefatti cadaveri diventò la
costrovillarese torre; sparsesi la puzza intorno, e durò lunga
stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di
luogo in luogo rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggi a
Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi; biancheggiarono
e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa.
Così un terrore maggiore sopravanzò un terror grande. Diventò la
Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che
ai viandanti; si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori
all'agricoltura, vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli
era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie; Manhes la fece;
il suo nome saravvi e maledetto e benedetto per sempre.
Anno di CRISTO MDCCCXI. Indizione XIV.
PIO VII papa 12.
FRANCESCO I imp. d'Austria 6.
Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza, sì
soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo con l'imperio degli
ecclesiastici in freno la parte contraria alla quale non piaceva quella
sua immoderata cupidigia di dominare. Restava che la religione romana
stessa domasse con la depressione dell'autorità pontificia: aveva in
ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di
ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate
le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto
colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli
attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la romana città,
e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione
certamente indegna di tanti benefizii.
Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì 15 agosto del 1809, se
per caso o pensatamente, perchè quello era giorno festivo di Napoleone,
ognuno giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di
un Sansoni sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli
per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano che, o
fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa,
e minore il fanatismo, così il chiamavano, mostravasi verso il sovrano
pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non
alterava punto la obbedienza verso il governo.
Sino a che si comandasse altrimenti, erano vietate le udienze al
papa, ed a nessuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti
le guardie; su quanto facesse nelle interiori stanze, diligentemente
si vigilava e sopravvigilava; le lettere che scriveva e quelle che a
lui si scrivevano, copiavansi e si mandavano a Parigi. Se ne viveva
il pontefice nel suo savonese carcere con molta semplicità, nè mai si
mostrava sdegnato, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi.
Desiderava Napoleone che il senatoconsulto dell'unione dello Stato
romano al suo impero sortisse il suo effetto anche per consentimento
del papa. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con
esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse
al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo
arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a que' tempi la potenza
di Napoleone inconquassabile; le paci di Tilsit e di Vienna, il nuovo
matrimonio, l'esercito invitto, vincitore, innumerabile la fondavano.
Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere, il sapeva, il
credeva, il diceva; ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali
proposte.
Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo in cui la sua virtù doveva essere
messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi
soldati, di osservarlo con le spie, di sgomentarlo con la segregazione,
di scuoterlo con le minaccie, si faceva passaggio ad assalirlo con le
dottrine e con le persuasioni di coloro che, o per antica amicizia o
pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta
autorità nelle sue deliberazioni. In questo mezzo tempo, per intimorire
il papa e farlo consentire a quanto si desiderava con dargli sospetto
che, se non consentisse, tuttavia si farebbe, erasi convocato un
concilio ecclesiastico a Parigi, a cui furono proposti certi quesiti,
acciocchè li dichiarasse.
Intanto Napoleone, costretto dalla necessità, perchè la vacanza
delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò
consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende
ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio che poteva dargli,
secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo e conclusione definitiva
delle differenze nate con la santa Sede. Voleva dunque che i capitoli
delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore; ma
per questo era d'uopo che i vicarii, già eletti dai capitoli stessi
all'atto della vacanza, rinunziassero: però che non vi potessero essere
due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo; dal che
nacquero accidenti di non poca importanza, come quelli del cardinale
Maury nominato alla Sede di Parigi, e quello del vescovo Osmond eletto
a quello di Firenze.
Dalle opposizioni del papa provennero nuove minaccie, e alle minaccie
seguitavano i fatti, poichè dall'abitazione pontificia fu sbandito ogni
apparato esteriore, tolte le carrozze, tolti i servitori, soppresso
ogni segno di rispetto, interdetti penna ed inchiostro; usate tutte le
cautele per mutare il papa, e per fare che nissuno sapesse o dicesse o
facesse altro che quello che piaceva al governo.
L'imperatore, veduto che le persuasioni, nè le minaccie, nè gli
spaventi, nè le strettezze non avevano potuto piegare l'animo del
pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da sè
e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa
gravissima mutazione che i vescovi di Francia e di tutti i paesi
sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica dalla Sede
apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del
concilio ecclesiastico adunato in Parigi. Inoltre, a ciò consigliato
e stimolato principalmente dal concilio stesso, si era deliberato a
convocare un concilio nazionale a Parigi, acciocchè considerasse la
necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Il concilio
decideva i quesiti secondo le mire del governo, i romani teologi
contraddicevano a quelle decisioni, e le discussioni erano infinite.
Già il disegno ordito contro un papa carcerato era pronto a colorirsi:
i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati si
accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali o arcivescovi
o vescovi. Comandava il governo che mandassero una deputazione a
muovere il papa a Savona. Il concilio nazionale convocato a Parigi
pel dì 9 giugno del presente anno, parte ancor egli della macchina per
intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti
dal governo.
Il papa, assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua
risoluzione di non voler trattare se prima non fosse libero, incominciò
a manifestare le sue intenzioni; ed insomma, tentato in tutte le guise,
e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo,
il cui importare fosse questo: che sua santità, considerati i bisogni
ed i voti delle chiese di Francia e l'Italia a lui rappresentati dai
deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna
affezione verso le chiese medesime; darebbe l'instituzione canonica ai
soggetti nominati da sua maestà con le forme convenute nei concordati
di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere
con un nuovo concordato le medesime disposizioni colle chiese di
Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse
nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le
bolle d'instituzione ai vescovi nominati da sua maestà in un certo
determinato tempo, che egli stimava non poter esser minore di sei
mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi per altri motivi
che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe,
spirati i sei mesi, della facoltà di dare in suo nome le bolle il
metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più
anziano delle provincie ecclesiastiche. Aggiunse, che sua santità a
queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei
colloqui avuti coi vescovi deputati, che elleno fossero per appianar
la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della
Chiesa, e restituirebbe alla santa Sede la libertà, la independenza e
la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente
queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di
lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini:
Che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa ed
all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbe materia di un trattato
particolare che sua santità era disposta a negoziare tostochè a lei
fossero restituiti i suoi consiglieri e la sua libertà. Ma il pontefice
protestò il giorno appresso contro questa giunta, che i vescovi
deputati consentirono facilmente a cassarla dallo scritto che da Torino
mandarono al ministro.
Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice,
negl'imperiali palazzi, in cui si stava aspettando con molto desiderio
quello che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona.
L'imperadore, domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo
del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo che quanto
nelle istruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto
per modo che nessuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa
rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, e se
ne andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio. A
questo fine si deliberava di usare il concilio. Mandò primieramente al
pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi nè
anco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondare le
sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento
poi faceva principalmente sul cardinal Baiana, siccome quello che
era molto entrante e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel
concistoro consigliatore di deliberazioni quieto verso lo imperatore.
Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus di Edessa,
timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col
pontefice ed in grandissima fede e favore appresso di lui.
Così Napoleone minacciava, Baiana parlava risolutamente, Bertazzoli
persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti
comandava che nessuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarii,
il prefetto e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Intanto il
concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse
del santo padre; portasse a Savona una deputazione del concilio,
acciocchè il papa ratificasse e desse un breve conforme. Vide i
deputati umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì
20 settembre, il breve che approvava il decreto conciliare: le sedie
arcivescovili e vescovili più di un anno non potessero vacare; lo
imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse
instituito, il metropolitano od il più anziano instituissero essi. Solo
ai notati capitoli aggiunse il seguente: Che se, spirati i sei mesi,
e se alcuno impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano o il
più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere
le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione
di fede e tutto che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente
che instituissero, in nome suo espresso, e in nome di colui che suo
successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli
atti autentici della fedele esecuzione di queste forme.
Se non che quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice,
tanto più si domandava, e tutti si serrarono addosso al prigioniero,
acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperadore. A tutta
la tempesta che gli faceva intorno, domandava primieramente il papa
la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliari, ch'egli era
libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare
a Roma o dello andar ad Avignone in qualità di suddito, con fermezza
grandissima negava. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla,
volle pruovare se una solenne e subita minaccia potesse far effetto,
e comandato ai deputati di farla, quelli la facevano. Ma i prelati
partirono disconclusi. Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del
ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gli
fece gravemente nuove rimostranze ed ammonizioni. Indarno.
Anno di CRISTO MDCCCXII. Indizione XV.
PIO VII papa 13.
FRANCESCO I imp. d'Austria 7.
Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far
pruova se da vicino fossero più fruttuose. Deliberossi l'imperatore a
tirarlo in Francia, dove potesse vederlo e stringerlo egli medesimo.
La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del
giorno. Diessi voce che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva
accompagnar il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia
dell'imperatore, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per
udire da lui gl'imperiali comandamenti. La notte del 9 giugno 1812 era
scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messosi addosso
una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile
in petto, lui non ripugnante, anzi serbando serenità, spingevano il
capo della cristianità nella carrozza apprestata e l'incamminavano alla
volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo di Albenga che
andasse a Novi. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben
quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo
pontificale per far visita al pontefice come se fosse presente; i
domestici preparavano le stanze, apparecchiavano la mensa, andavano
al mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in
vita se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo; i gendarmi
attestavano a chi il voleva udire e a chi nol voleva, avere testè
veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o nel terrazzo, o
in cappella: Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del
maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto la grazia
dell'imperadore. Chi non sapeva parlava; chi sapeva non parlava:
ma si voleva che niuno parlasse. Insomma già era il pontefice a
dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano
perfettamente orditi i disegni! Arrivava il pontefice il dì 20 giugno a
Fontainebleau: poco dopo vi arrivava anche Napoleone.
Regnava in Napoli Gioacchino, in Sicilia Carolina. Molto operava
Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto
gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza: molti e varii
furono effetti ed in chi regnava di nome ed in chi regnava di fatto.
Era Gioacchino tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle
dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni e con le spie. Carolina
dal canto suo, in ciò aiutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata
a questo disegno che la dominazione dei napoleonidi nel regno di
terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Tentavano principalmente
i napoleonidi Messina per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi
avevano segrete intelligenze con alcuni uomini d'umile condizione, il
cui fine era di operare moti contrarii al governo. I congiurati, come
gente di basso Stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza; ma
si temeva ch'essi fossero gli agenti di uomini più potenti. Per la qual
cosa, per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava
da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a
fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la
giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora.
Gridarono i Messinesi; venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart,
generale dei soldati britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le
segrete dolorose; gli diede per compagni parecchi chirurghi per sanare
le vestigia impresse dal furore del carnefici. Seppesi queste cose il
governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Se non
dei tormenti, bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo
siciliano e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola.
Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia sì per
sè medesima come pel sito opportuno a difendere Malta ed a percuotere
nel cuore del regno di Napoli. Pensarono ai rimedii. I Siciliani, che
con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel 1798
ora, mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Incominciavano
gl'Inglesi ad accorgersi che avevano a fare con un alleato, il quale,
dopo di aver procurato odio a sè, il procurava anche a loro. Già se
ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso
pensava ai rimedii. Il fine era questo, che si togliesse la autorità
ai ministri che se l'erano arrogata, e che la parte popolare si
accarezzasse si conciliasse, si fortificasse.
Ma prima che gl'Inglesi comandassero si sperava in un rimedio
domestico: quest'era il parlamento siciliano. Lo aveva il re convocato
nel 1810. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come
se fosse per essere molto liberale di sussidii, donativi li chiamano in
Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframettente, nè mancava
di ardimento: perciò, sempre confidente in quanto imprendesse a fare,
sperava di volgere a suo grado il parlamento. Ma nelle sue pratiche
errò in due modi: perchè, credendosi sicuro de' due bracci demaniale ed
ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti,
ed, oltre a questo, usò l'opera di certe persone, le quali, avvegnachè
fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio
ai popoli, perchè nel parlamento del 1806 si erano adoperate con molto
calore, acciocchè si aumentassero i dazi. I baroni, con alla testa il
principe di Belmonte, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare
i disegni al ministro. L'esito fu che il parlamento concedesse un
piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla
distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigerli.
I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal
volontieri, e peggio, quando sono entrati in opinione che chi maneggia
il denaro loro lo sperge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a
favor dei baroni: pel contrario, con discorsi acerrimi laceravano il
nome di Medici e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.
Fu molto memorabile il parlamento siciliano del 1810, perchè i baroni
volontieri e con singolar lode consentirono ad una riforma nei feudi,
che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio; perchè
fu ordinato un censo o catasto delle terre che, sebbene imperfetto,
diede non pertanto qualche utile norma nella faccenda intricatissima
della distribuzione dei dazi, e perchè si migliorarono anche gli ordini
giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità per la frequenza
intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine.
Ma intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina.
Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diede maggiore
agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni
promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono
piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte di onori; lo
Stato periva, ei bisognava uscirne. Trovaronsi due rimedi: pagassesi
una tassa dell'un per centinaio sul valsente di tutti i contratti,
stromenti e carte private che si facessero dai particolari; si
vendessero alcuni beni appartenenti a luoghi pii. Non fu consentaneo
alle speranze l'effetto dei due decreti, perchè, secondo gli umori
mossi e l'opinione avversa, i rimedii si cambiavano in veleni.
Questa condizione non era tale che lungo tempo potesse durare senza
variazione. Il governo non rimetteva dal solito procedere; i baroni
instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo; gl'Inglesi ci
mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva
precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione
dei popoli, e giacchè avevano pruovato che i consigli dati al governo
non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della
nuova inclinazione di animi che era sorta. Tutti volevano comandare,
chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate
leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua
origine il cambiamento delle siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni,
e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della
rivocazione de' due decreti come contrarii alla costituzione siciliana
fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono
la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale, dal
parlamento eletta, sedeva, secondo i siciliani ordini, tra l'una
tornata e l'altra del parlamento. Il governo non solamente non si piegò
a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re che li facesse
arrestare e condurre in luogo dove fosse loro mestieri di pensar ad
altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie
isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei
primarii baroni del regno. Parlossi anche nelle più segrete consulte
che si uccidessero; ma Medici contraddisse, allegando che un fatto
tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.
Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si
potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nel
governo. Adunque, non potendo più comandare col governo, nè fidandosi
del popolo, si vollero pruovare, ristringendosi coi baroni, di
comandare per mezzo loro.
A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore
d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece
lord Bentinck, uomo di natura molto risoluta; pretendeva parole
di libertà. Non così tosto pervenne in Palermo, che si mise a
negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che
correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e
proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione
e nella costituzione del regno. Insisteva principalmente affinchè
si rivocassero i due decreti e si richiamassero dalle carceri e
dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva che se non si uniformasse ai
desiderii dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. Risentissi
la regina a quel parlare, e gli disse apertamente di non voler farsi
serva di chi era mandato a farle riverenza non a comandarle. Sentissi
Bentinck toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio
potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava
indietro, e con pertinacia contrastando, disse che se non aveva mandato
a ciò, lo andrebbe a cercare; e come disse, così si metteva in punto
suo fine, quattro mezzi mise in opera, notizia esatta del numero dei
facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni,
armamento dei buoni, giudizii inflessibili.
Chi si diletta di considerare le faccende di Stato ed i mezzi che
riescono, e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo
prudente e rigido Franzese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e
ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età.
Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose
le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare
i bestiami e i contadini a borghi più grossi, che erano guardati
da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori di agricoltura,
dichiarò caso di morte a chiunque che ai corpi armati, da lui non
essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori
a correrla i corpi dei proprietarii armati da lui, comune per comune,
intimando loro fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o
morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi,
che truppe urbane, che andavano a caccia di briganti, e briganti
che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato,
rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano,
e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con
crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre,
che ignara, degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo
che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata
una fanciulla, alla quale furono trovate lettere indiritte ad uomini
sospetti. Nè il sangue dei carboneri si risparmiava. Capobianco loro
capo, tratto per insidia, e sotto colore di amicizia nella forza, fu
ucciso. Un curato ed un suo nipote, entrati nella setta, furono dati a
morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, lo zio il secondo.
Rifugge l'animo a chi già tante orrende cose raccontò, dal raccontare
i modi barbari che contro di loro si usavano. I carbonari, spaventati
dalle uccisioni, perocchè molti di loro perirono nella persecuzione, si
ritirarono alla più aspra montagna.
I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e
privo di vettovaglie, perirono, o nei combattimenti, che contro gli
urbani ferocemente sostenevano, morivano, o, preferendo una morte
pronta alle lunghe angosce, o da sè medesimi si uccidevano, o si davano
volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi,
condotti innanzi a tribunali straordinarii composti d'intendenti delle
provincie, e di procuratori regi, erano partiti in varie classi, quindi
mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes.
Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni
orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà.
Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi li favoriva,
o poveri, o ricchi, o quali fossero o con qual nome si chiamassero;
perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure,
per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a
giuste pene fatti iniqui. Succedevano vendette che fanno raccapriccio a
raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano
mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico
di Cartopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del
nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo
ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Parafanti donna,
per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome,
arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo
supplizio, perì. Posti in fila del destinato giorno, l'infelice donna
la prima, i parenti dietro, preti e boia alla coda, marciavano in una
processione, che non si saprebbe con qual nome chiamare. Eransi poste
in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di
San-Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo
si accostavano al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una
commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizii coloro
che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani, spinti da rabbia e
da desiderio di vendetta, infierivano contra i malfattori; insultavano
con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani
togliendoli dei carnefici per ucciderli. Furono i Calabri facinorosi
sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizii, morì per
fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati
casali, ed anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor
minaccie, ferocia e furore; la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni
ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari
angusta e malsana videne perire nell'insopportabile tanfo gran
moltitudine.
La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi;
i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi
si brancolavano per isfinimento o per angoscia sui morti, i
sani sui moribondi; e sè stessi, come cani, con le unghie e coi
denti laceravano. Infame pozza di putrefatti cadaveri diventò la
costrovillarese torre; sparsesi la puzza intorno, e durò lunga
stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di
luogo in luogo rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggi a
Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi; biancheggiarono
e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa.
Così un terrore maggiore sopravanzò un terror grande. Diventò la
Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che
ai viandanti; si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori
all'agricoltura, vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli
era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie; Manhes la fece;
il suo nome saravvi e maledetto e benedetto per sempre.
Anno di CRISTO MDCCCXI. Indizione XIV.
PIO VII papa 12.
FRANCESCO I imp. d'Austria 6.
Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza, sì
soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo con l'imperio degli
ecclesiastici in freno la parte contraria alla quale non piaceva quella
sua immoderata cupidigia di dominare. Restava che la religione romana
stessa domasse con la depressione dell'autorità pontificia: aveva in
ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di
ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate
le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto
colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli
attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la romana città,
e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione
certamente indegna di tanti benefizii.
Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì 15 agosto del 1809, se
per caso o pensatamente, perchè quello era giorno festivo di Napoleone,
ognuno giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di
un Sansoni sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli
per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano che, o
fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa,
e minore il fanatismo, così il chiamavano, mostravasi verso il sovrano
pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non
alterava punto la obbedienza verso il governo.
Sino a che si comandasse altrimenti, erano vietate le udienze al
papa, ed a nessuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti
le guardie; su quanto facesse nelle interiori stanze, diligentemente
si vigilava e sopravvigilava; le lettere che scriveva e quelle che a
lui si scrivevano, copiavansi e si mandavano a Parigi. Se ne viveva
il pontefice nel suo savonese carcere con molta semplicità, nè mai si
mostrava sdegnato, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi.
Desiderava Napoleone che il senatoconsulto dell'unione dello Stato
romano al suo impero sortisse il suo effetto anche per consentimento
del papa. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con
esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse
al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo
arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a que' tempi la potenza
di Napoleone inconquassabile; le paci di Tilsit e di Vienna, il nuovo
matrimonio, l'esercito invitto, vincitore, innumerabile la fondavano.
Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere, il sapeva, il
credeva, il diceva; ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali
proposte.
Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo in cui la sua virtù doveva essere
messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi
soldati, di osservarlo con le spie, di sgomentarlo con la segregazione,
di scuoterlo con le minaccie, si faceva passaggio ad assalirlo con le
dottrine e con le persuasioni di coloro che, o per antica amicizia o
pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta
autorità nelle sue deliberazioni. In questo mezzo tempo, per intimorire
il papa e farlo consentire a quanto si desiderava con dargli sospetto
che, se non consentisse, tuttavia si farebbe, erasi convocato un
concilio ecclesiastico a Parigi, a cui furono proposti certi quesiti,
acciocchè li dichiarasse.
Intanto Napoleone, costretto dalla necessità, perchè la vacanza
delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò
consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende
ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio che poteva dargli,
secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo e conclusione definitiva
delle differenze nate con la santa Sede. Voleva dunque che i capitoli
delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore; ma
per questo era d'uopo che i vicarii, già eletti dai capitoli stessi
all'atto della vacanza, rinunziassero: però che non vi potessero essere
due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo; dal che
nacquero accidenti di non poca importanza, come quelli del cardinale
Maury nominato alla Sede di Parigi, e quello del vescovo Osmond eletto
a quello di Firenze.
Dalle opposizioni del papa provennero nuove minaccie, e alle minaccie
seguitavano i fatti, poichè dall'abitazione pontificia fu sbandito ogni
apparato esteriore, tolte le carrozze, tolti i servitori, soppresso
ogni segno di rispetto, interdetti penna ed inchiostro; usate tutte le
cautele per mutare il papa, e per fare che nissuno sapesse o dicesse o
facesse altro che quello che piaceva al governo.
L'imperatore, veduto che le persuasioni, nè le minaccie, nè gli
spaventi, nè le strettezze non avevano potuto piegare l'animo del
pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da sè
e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa
gravissima mutazione che i vescovi di Francia e di tutti i paesi
sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica dalla Sede
apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del
concilio ecclesiastico adunato in Parigi. Inoltre, a ciò consigliato
e stimolato principalmente dal concilio stesso, si era deliberato a
convocare un concilio nazionale a Parigi, acciocchè considerasse la
necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Il concilio
decideva i quesiti secondo le mire del governo, i romani teologi
contraddicevano a quelle decisioni, e le discussioni erano infinite.
Già il disegno ordito contro un papa carcerato era pronto a colorirsi:
i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati si
accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali o arcivescovi
o vescovi. Comandava il governo che mandassero una deputazione a
muovere il papa a Savona. Il concilio nazionale convocato a Parigi
pel dì 9 giugno del presente anno, parte ancor egli della macchina per
intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti
dal governo.
Il papa, assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua
risoluzione di non voler trattare se prima non fosse libero, incominciò
a manifestare le sue intenzioni; ed insomma, tentato in tutte le guise,
e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo,
il cui importare fosse questo: che sua santità, considerati i bisogni
ed i voti delle chiese di Francia e l'Italia a lui rappresentati dai
deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna
affezione verso le chiese medesime; darebbe l'instituzione canonica ai
soggetti nominati da sua maestà con le forme convenute nei concordati
di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere
con un nuovo concordato le medesime disposizioni colle chiese di
Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse
nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le
bolle d'instituzione ai vescovi nominati da sua maestà in un certo
determinato tempo, che egli stimava non poter esser minore di sei
mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi per altri motivi
che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe,
spirati i sei mesi, della facoltà di dare in suo nome le bolle il
metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più
anziano delle provincie ecclesiastiche. Aggiunse, che sua santità a
queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei
colloqui avuti coi vescovi deputati, che elleno fossero per appianar
la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della
Chiesa, e restituirebbe alla santa Sede la libertà, la independenza e
la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente
queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di
lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini:
Che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa ed
all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbe materia di un trattato
particolare che sua santità era disposta a negoziare tostochè a lei
fossero restituiti i suoi consiglieri e la sua libertà. Ma il pontefice
protestò il giorno appresso contro questa giunta, che i vescovi
deputati consentirono facilmente a cassarla dallo scritto che da Torino
mandarono al ministro.
Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice,
negl'imperiali palazzi, in cui si stava aspettando con molto desiderio
quello che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona.
L'imperadore, domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo
del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo che quanto
nelle istruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto
per modo che nessuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa
rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, e se
ne andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio. A
questo fine si deliberava di usare il concilio. Mandò primieramente al
pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi nè
anco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondare le
sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento
poi faceva principalmente sul cardinal Baiana, siccome quello che
era molto entrante e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel
concistoro consigliatore di deliberazioni quieto verso lo imperatore.
Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus di Edessa,
timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col
pontefice ed in grandissima fede e favore appresso di lui.
Così Napoleone minacciava, Baiana parlava risolutamente, Bertazzoli
persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti
comandava che nessuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarii,
il prefetto e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Intanto il
concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse
del santo padre; portasse a Savona una deputazione del concilio,
acciocchè il papa ratificasse e desse un breve conforme. Vide i
deputati umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì
20 settembre, il breve che approvava il decreto conciliare: le sedie
arcivescovili e vescovili più di un anno non potessero vacare; lo
imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse
instituito, il metropolitano od il più anziano instituissero essi. Solo
ai notati capitoli aggiunse il seguente: Che se, spirati i sei mesi,
e se alcuno impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano o il
più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere
le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione
di fede e tutto che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente
che instituissero, in nome suo espresso, e in nome di colui che suo
successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli
atti autentici della fedele esecuzione di queste forme.
Se non che quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice,
tanto più si domandava, e tutti si serrarono addosso al prigioniero,
acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperadore. A tutta
la tempesta che gli faceva intorno, domandava primieramente il papa
la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliari, ch'egli era
libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare
a Roma o dello andar ad Avignone in qualità di suddito, con fermezza
grandissima negava. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla,
volle pruovare se una solenne e subita minaccia potesse far effetto,
e comandato ai deputati di farla, quelli la facevano. Ma i prelati
partirono disconclusi. Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del
ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gli
fece gravemente nuove rimostranze ed ammonizioni. Indarno.
Anno di CRISTO MDCCCXII. Indizione XV.
PIO VII papa 13.
FRANCESCO I imp. d'Austria 7.
Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far
pruova se da vicino fossero più fruttuose. Deliberossi l'imperatore a
tirarlo in Francia, dove potesse vederlo e stringerlo egli medesimo.
La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del
giorno. Diessi voce che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva
accompagnar il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia
dell'imperatore, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per
udire da lui gl'imperiali comandamenti. La notte del 9 giugno 1812 era
scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messosi addosso
una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile
in petto, lui non ripugnante, anzi serbando serenità, spingevano il
capo della cristianità nella carrozza apprestata e l'incamminavano alla
volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo di Albenga che
andasse a Novi. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben
quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo
pontificale per far visita al pontefice come se fosse presente; i
domestici preparavano le stanze, apparecchiavano la mensa, andavano
al mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in
vita se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo; i gendarmi
attestavano a chi il voleva udire e a chi nol voleva, avere testè
veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o nel terrazzo, o
in cappella: Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del
maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto la grazia
dell'imperadore. Chi non sapeva parlava; chi sapeva non parlava:
ma si voleva che niuno parlasse. Insomma già era il pontefice a
dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano
perfettamente orditi i disegni! Arrivava il pontefice il dì 20 giugno a
Fontainebleau: poco dopo vi arrivava anche Napoleone.
Regnava in Napoli Gioacchino, in Sicilia Carolina. Molto operava
Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto
gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza: molti e varii
furono effetti ed in chi regnava di nome ed in chi regnava di fatto.
Era Gioacchino tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle
dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni e con le spie. Carolina
dal canto suo, in ciò aiutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata
a questo disegno che la dominazione dei napoleonidi nel regno di
terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Tentavano principalmente
i napoleonidi Messina per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi
avevano segrete intelligenze con alcuni uomini d'umile condizione, il
cui fine era di operare moti contrarii al governo. I congiurati, come
gente di basso Stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza; ma
si temeva ch'essi fossero gli agenti di uomini più potenti. Per la qual
cosa, per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava
da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a
fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la
giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora.
Gridarono i Messinesi; venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart,
generale dei soldati britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le
segrete dolorose; gli diede per compagni parecchi chirurghi per sanare
le vestigia impresse dal furore del carnefici. Seppesi queste cose il
governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Se non
dei tormenti, bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo
siciliano e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola.
Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia sì per
sè medesima come pel sito opportuno a difendere Malta ed a percuotere
nel cuore del regno di Napoli. Pensarono ai rimedii. I Siciliani, che
con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel 1798
ora, mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Incominciavano
gl'Inglesi ad accorgersi che avevano a fare con un alleato, il quale,
dopo di aver procurato odio a sè, il procurava anche a loro. Già se
ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso
pensava ai rimedii. Il fine era questo, che si togliesse la autorità
ai ministri che se l'erano arrogata, e che la parte popolare si
accarezzasse si conciliasse, si fortificasse.
Ma prima che gl'Inglesi comandassero si sperava in un rimedio
domestico: quest'era il parlamento siciliano. Lo aveva il re convocato
nel 1810. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come
se fosse per essere molto liberale di sussidii, donativi li chiamano in
Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframettente, nè mancava
di ardimento: perciò, sempre confidente in quanto imprendesse a fare,
sperava di volgere a suo grado il parlamento. Ma nelle sue pratiche
errò in due modi: perchè, credendosi sicuro de' due bracci demaniale ed
ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti,
ed, oltre a questo, usò l'opera di certe persone, le quali, avvegnachè
fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio
ai popoli, perchè nel parlamento del 1806 si erano adoperate con molto
calore, acciocchè si aumentassero i dazi. I baroni, con alla testa il
principe di Belmonte, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare
i disegni al ministro. L'esito fu che il parlamento concedesse un
piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla
distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigerli.
I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal
volontieri, e peggio, quando sono entrati in opinione che chi maneggia
il denaro loro lo sperge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a
favor dei baroni: pel contrario, con discorsi acerrimi laceravano il
nome di Medici e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.
Fu molto memorabile il parlamento siciliano del 1810, perchè i baroni
volontieri e con singolar lode consentirono ad una riforma nei feudi,
che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio; perchè
fu ordinato un censo o catasto delle terre che, sebbene imperfetto,
diede non pertanto qualche utile norma nella faccenda intricatissima
della distribuzione dei dazi, e perchè si migliorarono anche gli ordini
giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità per la frequenza
intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine.
Ma intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina.
Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diede maggiore
agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni
promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono
piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte di onori; lo
Stato periva, ei bisognava uscirne. Trovaronsi due rimedi: pagassesi
una tassa dell'un per centinaio sul valsente di tutti i contratti,
stromenti e carte private che si facessero dai particolari; si
vendessero alcuni beni appartenenti a luoghi pii. Non fu consentaneo
alle speranze l'effetto dei due decreti, perchè, secondo gli umori
mossi e l'opinione avversa, i rimedii si cambiavano in veleni.
Questa condizione non era tale che lungo tempo potesse durare senza
variazione. Il governo non rimetteva dal solito procedere; i baroni
instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo; gl'Inglesi ci
mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva
precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione
dei popoli, e giacchè avevano pruovato che i consigli dati al governo
non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della
nuova inclinazione di animi che era sorta. Tutti volevano comandare,
chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate
leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua
origine il cambiamento delle siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni,
e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della
rivocazione de' due decreti come contrarii alla costituzione siciliana
fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono
la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale, dal
parlamento eletta, sedeva, secondo i siciliani ordini, tra l'una
tornata e l'altra del parlamento. Il governo non solamente non si piegò
a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re che li facesse
arrestare e condurre in luogo dove fosse loro mestieri di pensar ad
altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie
isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei
primarii baroni del regno. Parlossi anche nelle più segrete consulte
che si uccidessero; ma Medici contraddisse, allegando che un fatto
tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.
Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si
potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nel
governo. Adunque, non potendo più comandare col governo, nè fidandosi
del popolo, si vollero pruovare, ristringendosi coi baroni, di
comandare per mezzo loro.
A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore
d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece
lord Bentinck, uomo di natura molto risoluta; pretendeva parole
di libertà. Non così tosto pervenne in Palermo, che si mise a
negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che
correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e
proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione
e nella costituzione del regno. Insisteva principalmente affinchè
si rivocassero i due decreti e si richiamassero dalle carceri e
dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva che se non si uniformasse ai
desiderii dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. Risentissi
la regina a quel parlare, e gli disse apertamente di non voler farsi
serva di chi era mandato a farle riverenza non a comandarle. Sentissi
Bentinck toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio
potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava
indietro, e con pertinacia contrastando, disse che se non aveva mandato
a ciò, lo andrebbe a cercare; e come disse, così si metteva in punto
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