Annali d'Italia, vol. 8 - 81
ecco arrivare i soldati, atterrate o fracassate tutte le porte, alla
stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta
degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio il mondo
della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo
grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il
generale di gendarmeria Radet, cui accompagnava un certo Diana, che
per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato
in una congiura contro di Napoleone. Radet, pensando agli ordini
dell'imperadore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due
milioni, rivocasse la scomunica, altrimenti sarebbe preso e condotto
in Francia. Ricusò non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior
forza, il pontefice la proferta. Poi disse perdonare a lui, esecutore
degli ordini; bene maravigliarsi che un Diana, suo suddito, si ardisse
di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio;
ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il
rifiuto, trapassava a protestare, dichiarando nullo e di niun valore
essere quanto contro di lui, contro lo Stato della Chiesa e contro la
romana Sede aveva il governo franzese fatto e faceva; poi disse essere
parato; di lui facessero ciò che volessero; dessergli pure supplizio e
morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo
passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò
solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori
del suo palazzo ed ai soldati che non avevano abborrito dal mescolarsi
con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva
Radet desse il nome dei più fidi cui desiderasse aver compagni al suo
viaggio. Diedelo; nessuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal
grembo Bartolommeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto, condotto
assiepandosegli d'ogni intorno le armi soldatesche, nella carrozza che
a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato
alla volta di Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti
notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis, sorto
a vegliare la impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni
momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile passeggiando.
Stupore ed orrore occuparono Roma quando, nato il giorno, vi si sparse
la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice
molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama.
Trasmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il
captivo e potente Pio. Quel di Genova temendo qualche moto in Riviera
di levante, l'imbarcava sur un debole schifo che veniva da Toscana.
Addomandò il pontefice al carceratore se fosse intento del governo di
Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava
nelle apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni
non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per
le soldatesche, a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità
di volo. A Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli
per partire con maggiore celerità che non era venuto. Lasso dall'età,
dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone
il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio: Adunque starommi
questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il
Cenisio: gl'italiani popoli, non avendo potuto per la velocità venerare
il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i
luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri li chiamavano
per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Pacca fedele fu
mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pierrechateau presso
a Bolley. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno a Grenoble, poi
messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non ci fosse, fu fatto
passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio VI, atto tanto
più incivile quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza
di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia
a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro
che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere
dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove
andasse. I Franzesi con la medesima riverente osservanza l'onoravano,
con cui lo avevano onorato gl'Italiani: il trattarono i prefetti dei
dipartimenti con sentimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.
Napoleone vincitore tornava in Francia nella imperial sede di
Fontainebleau. I deputati italiani già l'aspettavano per le adulazioni.
Moscati, orando pel regno italico, ringraziò delle date leggi;
Zondadari cardinale, per la Toscana, della data Elisa. Per Roma vi fu
maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli,
favellò degli Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere.
Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro
antenati; passerebbe le Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso
loro; gl'imperatori franzesi suoi predecessori avergli scorporati
dall'impero e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi
popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi,
sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia; del resto,
aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio,
e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere che
alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo
primogenito della Chiesa, non voler uscire dal suo grembo; non avere
mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità
temporale: la romana sede essere la prima della cristianità, essere il
vescovo di Roma capo spirituale della Chiesa, lui esserne l'imperadore:
voler dare a Dio ciò ch'è di Dio, a Cesare ciò ch'è di Cesare.
Intanto in Roma francese, la romana consulta, come prima prese il
magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo Stato, sapendo quanti mali
umori e quante avverse opinioni covassero: parve bene spiare sul bel
principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia:
creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico.
Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti; quanto agli scritti, anche
segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e
data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome;
perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere
che s'indirizzavano a Savona dov'era il papa. Si usava in questo un
rigore eccessivo. Importava che, a confermazione della quiete, si
unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in
ogni luogo, si crearono le guardie, urbane in Roma, provinciali nelle
provincie, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il
conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi uomini furono
buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal
affare, che infestavano l'agro romano e le vicinanze stesse di Roma.
Trapassossi a partire il territorio, con fare due dipartimenti, di cui
chiamarono l'uno del Tevere e l'altro del Trasimeno; nominaronsene
a tempo i due prefetti, un Giacone ed un Olivetti. Trassersi gli
ufficiali municipali; furono le elezioni di gente buona e savia;
faceva la consulta presto, ma faceva anche bene. Ostava alla nuova
amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale, creato
da Sisto V ed attuato da Clemente VIII, aveva l'ufficio di amministrar
i comuni, nè senza grande utilità loro. La consulta l'abolì,
sostituivvi le forme franzesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò
senato; elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani,
Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi,
Cesarini, Fiano. Braschi fu nominato maire, o vogliam dire sindaco
di Roma. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere,
anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e
criminali di Francia si omettevano; che anzi, per ordinazione della
consulta, si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose,
sì quanto ai diritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato
presidente della corte di appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e
profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizii e di stato molto
intendente. Chiamato consigliere di Stato a Parigi, vi diede saggi di
quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.
Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano; Janet ne aveva cura.
Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo
di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad
un milione, ed il dazio della mulenda, che si estimava ad una valuta
circa di cinquecento mila franchi. Tra il lusso dei primi magistrati,
la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non
poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Pure buon uso faceva
la consulta di una parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone,
e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro
alla duchessa di Borbone parmense ed a Carlo Emmanuele re di Sardegna,
che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della
religione; nobile atto e da non tralasciarsi negli annali.
La parte più malagevole del romano governo era l'ecclesiastica: aveva
il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno italico,
proibito i giuramenti; confermò questa proibizione per lo Stato romano
nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone
del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una
disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare
la fedeltà; dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola
di fedeltà, perchè credevano che importasse di riconoscer l'imperador
Napoleone come loro sovrano legittimo: al che giudicavano di non poter
consentire, non avendo il papa rinunziato. Imprendeva a giustificare
i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di
maggior ingegno. Sani ed irrefregabili erano i principii del Dalpozzo
quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano
di giurarla al nuovo Stato, e di più di giurare di non partecipare
mai in nessuna congiura e trama qualunque contro di lui, così un
governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone
esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal
giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal
modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e
gl'intimati, sì perchè voleva fare scoprire i renitenti, per avere un
pretesto di allontanarli da Roma, dove li credeva pericolosi. Vi era
in questo troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra:
la materia aveva in sè molta difficoltà. La romana consulta procedeva
cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Altri
giurarono, altri ricusarono. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma
pentitosi, fece pubblicamente la sua ritrattazione: i gendarmi se lo
pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i
non giurati, suonando loro d'ogni intorno le armi dei gendarmi, chi
in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono
condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo
devoto al papa, un Bacolo veneziano, vescovo di Famagosta, uomo
molto nuovo e di natura facetissima, che dava una gran molestia alla
polizia. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti
i canonici. Molti giurarono, molti ancora non giurarono; i gendarmi
si affacendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in sè i giuramenti
dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita e di
evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidii spirituali,
ma ancora pei temporali.
Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che
s'indugiasse. Napoleone mandò loro dicendo che voleva i giuramenti da
tutti, ed obbedissero. Delle province la maggior parte ricusarono: i
gendarmi se li portarono. Dei Romani, i più si astennero: i renitenti
portati via, e se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San
Callisto.
A questo tempo furono soppressi nello Stato romano i conventi sì di
religiosi che di religiose, i forestieri mandati al loro paese, i
paesani sforzati a depor l'abito.
Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di
fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non
convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze,
alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò che
con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessarii
alla specola del collegio romano; condusse a fine i parafulmini della
basilica di San Pietro, stati principiati da papa Pio; ebbe speciale
cura delle allumiere della Tolfa e delle miniere di ferro di Monteleone
nell'Umbria. Gente perita, denaro a posta addomandava; due artieri
Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria,
due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze
nell'ecclesiastica Roma.
Temevasi che la presenza dei Franzesi in Italia, massimamente in
Toscana e nello Stato romano, giunta a quella loro lingua tanto snella
e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza
ed al candore dall'italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè
quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia
Napoleone, il quale, unendo Toscana e Roma alla Francia, vi aveva
introdotto negli atti pubblici l'uso della lingua franzese, aveva già
fin dall'anno ultimo decretato premii a chi meglio avesse scritto in
lingua toscana. La consulta di Roma, a fine di cooperare con quello
che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva
che la lingua italiana si potesse in uno con la franzese usare negli
atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì
che l'accademia degli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura
italiana promuovesse e la lingua pura ed incorrotta conservasse, con
premii a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi; Arcadia
sedesse sul Gianicolo, nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento
conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura
degli uomini, alle romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca,
chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta
le dava più cospicui sussidii, l'imperator più convenienti stanze, e
dote di cento mila franchi.
La ruina universale aveva addotto la ruina della Propaganda, con avere
o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione
delle sussistenze: si aggiunse la rovina del palazzo devastato nel
1800. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto quando
Napoleone s'impadronì di Roma; poi i frutti dei monti non si pagavano,
la computisteria, per comandamento imperiale, sotto sigilli, gli
archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che
si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato
per senatoconsulto, volere la sua conservazione, e doterebbela
coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri
delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non
potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere a
propagazione degl'interessi politici quello zelo che per amore della
religione, per le esortazioni dei papi e per la lunga consuetudine era
sorto nei membri della congregazione ai tempi pontificii. Così sotto
Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione nè per
la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico
edifizio e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto.
Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei
danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per
le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura che
serviva di norma alle altre era attinente a San Pietro, e si sostentava
con le rendite della sua fabbrica: per le necessità dei tempi, mancando
la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse,
pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario
imperiale; ma perchè Napoleone non si tirasse indietro, fu d'uopo
alla consulta d'inorpellare le cose con dire che il musaico pagato
dall'imperatore non servirebbe più solamente ad obbedire San Pietro,
ma che protetto dal più grande dei monarchi adornerebbe il palazzo
del principe ed i monumenti dell'imperial Parigi. A questi suoni
Napoleone si calava e pagava. Restava che, poichè s'era provveduto
all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavoreria loro
addossata al colle del Vaticano ed in parte sotterranea, e perciò molto
malsana, troppo spesso infermavano e sovente il vedere perdevano.
Oltre a ciò, gli armadii e gli scaffali, in cui si conservavano gli
smalti, infracidivano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi,
dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con
rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camucini. Decretò la
consulta trasportassersi gli opificii nelle stanze del santo Ufficio.
Concedutosi dall'imperatore un premio di duecento mila franchi ai
manifattori di Roma, volle la consulta che fossero spartiti a chi
meglio filasse o tessesse la tela o la lana, a chi meglio conducesse
le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio
conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquavite, a chi meglio
lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi
più e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più
ulivi, a chi ponesse più semenza di piante utili.
I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i
preziosi capi d'arte che adornavano i conventi, ed erano molti e
belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione
loro dalla consulta una congregazione di uomini intendenti e giusti
estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond,
l'abbate Fea e Toffanelli, conservatore del Campidoglio.
Conservando Roma odierna si poneva mente a scoprire l'antica: almeno
così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca poteva fare. Si
ordinarono le spese del cavare nei luoghi promettenti. Sarebbesi anche,
come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero
guastato l'intenzione.
Discorreva Napoleone di volere visitar Roma sua. Se, di fatto, non
voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta
pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore.
Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna, il Quirinale per
la città, il Quirinale grande e magnifico per sè, sano per sito e con
bella apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperiale costume
si accomodava. Nè la bellezza o la salubrità si pretermettevano.
Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate,
specialmente alla piazza del Popolo da riuscire a Trinità del monte,
di trasportare i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le
pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Franzese,
Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome e di scienza pari al nome,
le visitavano e fra loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione
dei tempi contrarii; e, se le pontine non peggiorarono sotto il dominio
franzese, certo non migliorarono.
Così vivevasi a Roma; con un sovrano prigioniero a Savona, con un
sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze
avvenire, diventata provincia di Francia, non poteva nè conservare
le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie
parti, lagrimava e si doleva; nè poteva la consulta, quantunque vi si
affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.
Anno di CRISTO MDCCCX. Indizione XIII.
PIO VII papa 11.
FRANCESCO I imp. d'Austria 5.
Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva a giusta ragione
comandare da sè, il dominio degl'Inglesi; nè sperando di riconquistare
il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di
quello che le restava. Napoleone aveva penetrato il suo desiderio,
e per mezzo di pratiche le persuase ch'era pronto a secondare le sue
intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il
fine del quale era che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati
di Napoleone, e permettesse che gli occupassero, sì veramente che
l'imperatore aiutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre
questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar
la Sicilia, sperando che la durezza di quel governo, procurandogli
aderenze negli scontenti, gli aprirebbe la occasione di far frutto
con le spalle loro. Già le troppe franzesi si erano condotte nella
Calabria Ulteriore: al che aveva consentito Napoleone per dar gelosia
agli Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse
si erano accostati i Napolitani; la costa di Calabria da Scilla a
Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del
regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi
d'Inghilterra, che, per vietar loro il passo, le avevano assaltate
nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano e sulle spiaggie di Bagnara. Si
ingiungeva a tutti i comuni posti pel litorale del Mediterraneo che
somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat
spesso imbarcava e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle.
Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe. Ma siccome il nerbo
principale della spedizione consisteva nei Franzesi, così aveva anche
Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero
co' suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo
negoziava con la regina, rispose nè approvando nè disdicendo, contento
al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nessun ordine mandò
a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Gioacchino,
acceso per sè stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e
persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar
la fazione da sè e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani,
fra i quali era il reggimento reale corso, partivano di nottetempo
dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e si avviavano alla volta
di Sicilia con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo
stesso Murat, standosene sulla reale scialuppa riccamente addobbata,
dava opera ad imbarcare le genti franzesi, come se anch'elleno
dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed esse meglio
di lui, che non si attenterebbero. Ma avevano consentito ad aiutar
l'impresa con un poco di romore e con quelle vane dimostrazioni.
Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale
Cavagnac; ma non così tosto posero piede sulle terre siciliane, che
invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per
vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie,
accorsero con le armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli
uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto fu preso; alcuni dei
presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore
dalle stanze di Messina, ma arrivarono quando già la vittoria era
compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della
riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la
speranza concepita, ritirava Gioacchino i soldati verso Napoli, e
con pubblico scritto annunziava essere terminata la spedizione di
Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'Ulteriore Calabria
miserabili vestigia del furore delle soldatesche. Tra il guasto fatto
per accampare e quello degli scorazzamenti per le campagne, ne furono
guastate vaste tenute di ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese
si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di
qua desolato.
Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar
segreti che non venissero a cognizione degl'Inglesi: ne intrapresero
anche le lettere certissime. Ciò fu cagione che Carolina a loro, e
principalmente a lord Bentinck, mandato in Sicilia a confermarvi
il dominio della gran Bretagna, tanto venisse in odio, che, per
allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa
lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo la obbligarono anche
a partir di Sicilia, accidente molto singolare e strano che sarà
raccontato a suo luogo.
Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria, di nuovo uscendo dai
loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a
sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun
casale riposto erano più sicuri. Divisi in bande, e sottomessi a capi,
si erano spartite le provincie. Carmine Antonio e Mescio infestavano
coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nievello,
Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali Cosenza; Boia,
Giacinto Antonio ed il Ticiolo, la Serra stretta ed i borghi Catanzaro;
Pannese, Massotta e il Bizzarro le rive dei due mari e l'estremità
dell'Ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzaro specialmente e lungo
tempo la selva di Golano e le strade di Seminara a Scilla. Questi
erano gli effetti delle antiche consuetudini e delle guerre civili
presenti. Si temeva che alle prima occasione i capi politici contrarii
al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo
prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre
nemici dei Franzesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano
non le ruberie e gli assassinii, che anzi cercavano di frenarli, ma
la incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro
quella nazione che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte
necessario a Murat l'estirpar del tutto quella parte dei facinorosi di
Calabria, e lo spegnere, se possibile fosse, la setta tanto importuna
dei carbonari. Varii per questo fine erano stati i tentativi ai tempi
di Giuseppe, varii altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi,
non tanto per la forza della parte contraria e per la difficoltà dei
luoghi, quanto pei consigli spartiti e la mollezza delle risoluzioni.
A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi, ed
un'autorità piena per punirli. Un Manhes generale, aiutante di campo
di Murat, che già aveva con singolare energia pacificati gli Abbruzzi,
parve al re uomo capace di condurre a buon fine l'opera più difficile
delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse.
Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito,
ma di natura rigida ed inflessibile, nè strumento più conveniente
di lui poteva scegliere Gioacchino per conseguire il fine che si
proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che
le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ei fosse, non si curava:
ciò si pose in pensiero di fare e fece, ferocia a ferocia, crudeltà a
crudeltà, invidia ad invidia opponendo. Primieramente considerò Manhes
che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perocchè i
facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in
cui si procedeva più rimessamente: così, cacciati e tornati a vicenda
da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente, andò
pensando che i proprietarii, anche i più ricchi, ed i baroni stessi,
che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e
morti, questi uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava
modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato
per ispegnerli. Si aggiungeva, che la gente sparsa per le campagne,
per non essere manomessa da loro, dava ad essi, non che ricovero,
vettovaglie, e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare, era
impossibile il sopraggiugnerli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche
mezzo straordinario, giacchè gli ordinarii erano stati indarno, si
assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò
ne cavava quest'altro frutto, che i giudizii sarebbero stati severi,
operando contro i delinquenti l'antica paura ed i danni sopportati.
Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta
stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta
degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio il mondo
della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo
grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il
generale di gendarmeria Radet, cui accompagnava un certo Diana, che
per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato
in una congiura contro di Napoleone. Radet, pensando agli ordini
dell'imperadore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due
milioni, rivocasse la scomunica, altrimenti sarebbe preso e condotto
in Francia. Ricusò non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior
forza, il pontefice la proferta. Poi disse perdonare a lui, esecutore
degli ordini; bene maravigliarsi che un Diana, suo suddito, si ardisse
di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio;
ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il
rifiuto, trapassava a protestare, dichiarando nullo e di niun valore
essere quanto contro di lui, contro lo Stato della Chiesa e contro la
romana Sede aveva il governo franzese fatto e faceva; poi disse essere
parato; di lui facessero ciò che volessero; dessergli pure supplizio e
morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo
passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò
solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori
del suo palazzo ed ai soldati che non avevano abborrito dal mescolarsi
con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva
Radet desse il nome dei più fidi cui desiderasse aver compagni al suo
viaggio. Diedelo; nessuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal
grembo Bartolommeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto, condotto
assiepandosegli d'ogni intorno le armi soldatesche, nella carrozza che
a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato
alla volta di Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti
notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis, sorto
a vegliare la impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni
momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile passeggiando.
Stupore ed orrore occuparono Roma quando, nato il giorno, vi si sparse
la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice
molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama.
Trasmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il
captivo e potente Pio. Quel di Genova temendo qualche moto in Riviera
di levante, l'imbarcava sur un debole schifo che veniva da Toscana.
Addomandò il pontefice al carceratore se fosse intento del governo di
Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava
nelle apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni
non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per
le soldatesche, a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità
di volo. A Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli
per partire con maggiore celerità che non era venuto. Lasso dall'età,
dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone
il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio: Adunque starommi
questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il
Cenisio: gl'italiani popoli, non avendo potuto per la velocità venerare
il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i
luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri li chiamavano
per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Pacca fedele fu
mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pierrechateau presso
a Bolley. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno a Grenoble, poi
messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non ci fosse, fu fatto
passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio VI, atto tanto
più incivile quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza
di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia
a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro
che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere
dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove
andasse. I Franzesi con la medesima riverente osservanza l'onoravano,
con cui lo avevano onorato gl'Italiani: il trattarono i prefetti dei
dipartimenti con sentimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.
Napoleone vincitore tornava in Francia nella imperial sede di
Fontainebleau. I deputati italiani già l'aspettavano per le adulazioni.
Moscati, orando pel regno italico, ringraziò delle date leggi;
Zondadari cardinale, per la Toscana, della data Elisa. Per Roma vi fu
maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli,
favellò degli Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere.
Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro
antenati; passerebbe le Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso
loro; gl'imperatori franzesi suoi predecessori avergli scorporati
dall'impero e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi
popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi,
sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia; del resto,
aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio,
e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere che
alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo
primogenito della Chiesa, non voler uscire dal suo grembo; non avere
mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità
temporale: la romana sede essere la prima della cristianità, essere il
vescovo di Roma capo spirituale della Chiesa, lui esserne l'imperadore:
voler dare a Dio ciò ch'è di Dio, a Cesare ciò ch'è di Cesare.
Intanto in Roma francese, la romana consulta, come prima prese il
magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo Stato, sapendo quanti mali
umori e quante avverse opinioni covassero: parve bene spiare sul bel
principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia:
creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico.
Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti; quanto agli scritti, anche
segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e
data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome;
perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere
che s'indirizzavano a Savona dov'era il papa. Si usava in questo un
rigore eccessivo. Importava che, a confermazione della quiete, si
unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in
ogni luogo, si crearono le guardie, urbane in Roma, provinciali nelle
provincie, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il
conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi uomini furono
buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal
affare, che infestavano l'agro romano e le vicinanze stesse di Roma.
Trapassossi a partire il territorio, con fare due dipartimenti, di cui
chiamarono l'uno del Tevere e l'altro del Trasimeno; nominaronsene
a tempo i due prefetti, un Giacone ed un Olivetti. Trassersi gli
ufficiali municipali; furono le elezioni di gente buona e savia;
faceva la consulta presto, ma faceva anche bene. Ostava alla nuova
amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale, creato
da Sisto V ed attuato da Clemente VIII, aveva l'ufficio di amministrar
i comuni, nè senza grande utilità loro. La consulta l'abolì,
sostituivvi le forme franzesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò
senato; elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani,
Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi,
Cesarini, Fiano. Braschi fu nominato maire, o vogliam dire sindaco
di Roma. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere,
anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e
criminali di Francia si omettevano; che anzi, per ordinazione della
consulta, si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose,
sì quanto ai diritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato
presidente della corte di appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e
profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizii e di stato molto
intendente. Chiamato consigliere di Stato a Parigi, vi diede saggi di
quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.
Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano; Janet ne aveva cura.
Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo
di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad
un milione, ed il dazio della mulenda, che si estimava ad una valuta
circa di cinquecento mila franchi. Tra il lusso dei primi magistrati,
la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non
poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Pure buon uso faceva
la consulta di una parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone,
e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro
alla duchessa di Borbone parmense ed a Carlo Emmanuele re di Sardegna,
che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della
religione; nobile atto e da non tralasciarsi negli annali.
La parte più malagevole del romano governo era l'ecclesiastica: aveva
il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno italico,
proibito i giuramenti; confermò questa proibizione per lo Stato romano
nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone
del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una
disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare
la fedeltà; dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola
di fedeltà, perchè credevano che importasse di riconoscer l'imperador
Napoleone come loro sovrano legittimo: al che giudicavano di non poter
consentire, non avendo il papa rinunziato. Imprendeva a giustificare
i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di
maggior ingegno. Sani ed irrefregabili erano i principii del Dalpozzo
quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano
di giurarla al nuovo Stato, e di più di giurare di non partecipare
mai in nessuna congiura e trama qualunque contro di lui, così un
governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone
esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal
giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal
modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e
gl'intimati, sì perchè voleva fare scoprire i renitenti, per avere un
pretesto di allontanarli da Roma, dove li credeva pericolosi. Vi era
in questo troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra:
la materia aveva in sè molta difficoltà. La romana consulta procedeva
cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Altri
giurarono, altri ricusarono. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma
pentitosi, fece pubblicamente la sua ritrattazione: i gendarmi se lo
pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i
non giurati, suonando loro d'ogni intorno le armi dei gendarmi, chi
in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono
condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo
devoto al papa, un Bacolo veneziano, vescovo di Famagosta, uomo
molto nuovo e di natura facetissima, che dava una gran molestia alla
polizia. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti
i canonici. Molti giurarono, molti ancora non giurarono; i gendarmi
si affacendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in sè i giuramenti
dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita e di
evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidii spirituali,
ma ancora pei temporali.
Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che
s'indugiasse. Napoleone mandò loro dicendo che voleva i giuramenti da
tutti, ed obbedissero. Delle province la maggior parte ricusarono: i
gendarmi se li portarono. Dei Romani, i più si astennero: i renitenti
portati via, e se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San
Callisto.
A questo tempo furono soppressi nello Stato romano i conventi sì di
religiosi che di religiose, i forestieri mandati al loro paese, i
paesani sforzati a depor l'abito.
Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di
fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non
convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze,
alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò che
con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessarii
alla specola del collegio romano; condusse a fine i parafulmini della
basilica di San Pietro, stati principiati da papa Pio; ebbe speciale
cura delle allumiere della Tolfa e delle miniere di ferro di Monteleone
nell'Umbria. Gente perita, denaro a posta addomandava; due artieri
Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria,
due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze
nell'ecclesiastica Roma.
Temevasi che la presenza dei Franzesi in Italia, massimamente in
Toscana e nello Stato romano, giunta a quella loro lingua tanto snella
e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza
ed al candore dall'italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè
quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia
Napoleone, il quale, unendo Toscana e Roma alla Francia, vi aveva
introdotto negli atti pubblici l'uso della lingua franzese, aveva già
fin dall'anno ultimo decretato premii a chi meglio avesse scritto in
lingua toscana. La consulta di Roma, a fine di cooperare con quello
che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva
che la lingua italiana si potesse in uno con la franzese usare negli
atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì
che l'accademia degli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura
italiana promuovesse e la lingua pura ed incorrotta conservasse, con
premii a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi; Arcadia
sedesse sul Gianicolo, nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento
conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura
degli uomini, alle romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca,
chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta
le dava più cospicui sussidii, l'imperator più convenienti stanze, e
dote di cento mila franchi.
La ruina universale aveva addotto la ruina della Propaganda, con avere
o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione
delle sussistenze: si aggiunse la rovina del palazzo devastato nel
1800. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto quando
Napoleone s'impadronì di Roma; poi i frutti dei monti non si pagavano,
la computisteria, per comandamento imperiale, sotto sigilli, gli
archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che
si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato
per senatoconsulto, volere la sua conservazione, e doterebbela
coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri
delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non
potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere a
propagazione degl'interessi politici quello zelo che per amore della
religione, per le esortazioni dei papi e per la lunga consuetudine era
sorto nei membri della congregazione ai tempi pontificii. Così sotto
Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione nè per
la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico
edifizio e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto.
Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei
danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per
le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura che
serviva di norma alle altre era attinente a San Pietro, e si sostentava
con le rendite della sua fabbrica: per le necessità dei tempi, mancando
la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse,
pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario
imperiale; ma perchè Napoleone non si tirasse indietro, fu d'uopo
alla consulta d'inorpellare le cose con dire che il musaico pagato
dall'imperatore non servirebbe più solamente ad obbedire San Pietro,
ma che protetto dal più grande dei monarchi adornerebbe il palazzo
del principe ed i monumenti dell'imperial Parigi. A questi suoni
Napoleone si calava e pagava. Restava che, poichè s'era provveduto
all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavoreria loro
addossata al colle del Vaticano ed in parte sotterranea, e perciò molto
malsana, troppo spesso infermavano e sovente il vedere perdevano.
Oltre a ciò, gli armadii e gli scaffali, in cui si conservavano gli
smalti, infracidivano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi,
dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con
rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camucini. Decretò la
consulta trasportassersi gli opificii nelle stanze del santo Ufficio.
Concedutosi dall'imperatore un premio di duecento mila franchi ai
manifattori di Roma, volle la consulta che fossero spartiti a chi
meglio filasse o tessesse la tela o la lana, a chi meglio conducesse
le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio
conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquavite, a chi meglio
lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi
più e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più
ulivi, a chi ponesse più semenza di piante utili.
I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i
preziosi capi d'arte che adornavano i conventi, ed erano molti e
belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione
loro dalla consulta una congregazione di uomini intendenti e giusti
estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond,
l'abbate Fea e Toffanelli, conservatore del Campidoglio.
Conservando Roma odierna si poneva mente a scoprire l'antica: almeno
così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca poteva fare. Si
ordinarono le spese del cavare nei luoghi promettenti. Sarebbesi anche,
come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero
guastato l'intenzione.
Discorreva Napoleone di volere visitar Roma sua. Se, di fatto, non
voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta
pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore.
Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna, il Quirinale per
la città, il Quirinale grande e magnifico per sè, sano per sito e con
bella apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperiale costume
si accomodava. Nè la bellezza o la salubrità si pretermettevano.
Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate,
specialmente alla piazza del Popolo da riuscire a Trinità del monte,
di trasportare i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le
pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Franzese,
Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome e di scienza pari al nome,
le visitavano e fra loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione
dei tempi contrarii; e, se le pontine non peggiorarono sotto il dominio
franzese, certo non migliorarono.
Così vivevasi a Roma; con un sovrano prigioniero a Savona, con un
sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze
avvenire, diventata provincia di Francia, non poteva nè conservare
le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie
parti, lagrimava e si doleva; nè poteva la consulta, quantunque vi si
affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.
Anno di CRISTO MDCCCX. Indizione XIII.
PIO VII papa 11.
FRANCESCO I imp. d'Austria 5.
Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva a giusta ragione
comandare da sè, il dominio degl'Inglesi; nè sperando di riconquistare
il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di
quello che le restava. Napoleone aveva penetrato il suo desiderio,
e per mezzo di pratiche le persuase ch'era pronto a secondare le sue
intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il
fine del quale era che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati
di Napoleone, e permettesse che gli occupassero, sì veramente che
l'imperatore aiutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre
questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar
la Sicilia, sperando che la durezza di quel governo, procurandogli
aderenze negli scontenti, gli aprirebbe la occasione di far frutto
con le spalle loro. Già le troppe franzesi si erano condotte nella
Calabria Ulteriore: al che aveva consentito Napoleone per dar gelosia
agli Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse
si erano accostati i Napolitani; la costa di Calabria da Scilla a
Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del
regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi
d'Inghilterra, che, per vietar loro il passo, le avevano assaltate
nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano e sulle spiaggie di Bagnara. Si
ingiungeva a tutti i comuni posti pel litorale del Mediterraneo che
somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat
spesso imbarcava e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle.
Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe. Ma siccome il nerbo
principale della spedizione consisteva nei Franzesi, così aveva anche
Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero
co' suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo
negoziava con la regina, rispose nè approvando nè disdicendo, contento
al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nessun ordine mandò
a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Gioacchino,
acceso per sè stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e
persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar
la fazione da sè e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani,
fra i quali era il reggimento reale corso, partivano di nottetempo
dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e si avviavano alla volta
di Sicilia con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo
stesso Murat, standosene sulla reale scialuppa riccamente addobbata,
dava opera ad imbarcare le genti franzesi, come se anch'elleno
dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed esse meglio
di lui, che non si attenterebbero. Ma avevano consentito ad aiutar
l'impresa con un poco di romore e con quelle vane dimostrazioni.
Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale
Cavagnac; ma non così tosto posero piede sulle terre siciliane, che
invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per
vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie,
accorsero con le armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli
uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto fu preso; alcuni dei
presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore
dalle stanze di Messina, ma arrivarono quando già la vittoria era
compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della
riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la
speranza concepita, ritirava Gioacchino i soldati verso Napoli, e
con pubblico scritto annunziava essere terminata la spedizione di
Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'Ulteriore Calabria
miserabili vestigia del furore delle soldatesche. Tra il guasto fatto
per accampare e quello degli scorazzamenti per le campagne, ne furono
guastate vaste tenute di ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese
si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di
qua desolato.
Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar
segreti che non venissero a cognizione degl'Inglesi: ne intrapresero
anche le lettere certissime. Ciò fu cagione che Carolina a loro, e
principalmente a lord Bentinck, mandato in Sicilia a confermarvi
il dominio della gran Bretagna, tanto venisse in odio, che, per
allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa
lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo la obbligarono anche
a partir di Sicilia, accidente molto singolare e strano che sarà
raccontato a suo luogo.
Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria, di nuovo uscendo dai
loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a
sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun
casale riposto erano più sicuri. Divisi in bande, e sottomessi a capi,
si erano spartite le provincie. Carmine Antonio e Mescio infestavano
coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nievello,
Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali Cosenza; Boia,
Giacinto Antonio ed il Ticiolo, la Serra stretta ed i borghi Catanzaro;
Pannese, Massotta e il Bizzarro le rive dei due mari e l'estremità
dell'Ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzaro specialmente e lungo
tempo la selva di Golano e le strade di Seminara a Scilla. Questi
erano gli effetti delle antiche consuetudini e delle guerre civili
presenti. Si temeva che alle prima occasione i capi politici contrarii
al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo
prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre
nemici dei Franzesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano
non le ruberie e gli assassinii, che anzi cercavano di frenarli, ma
la incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro
quella nazione che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte
necessario a Murat l'estirpar del tutto quella parte dei facinorosi di
Calabria, e lo spegnere, se possibile fosse, la setta tanto importuna
dei carbonari. Varii per questo fine erano stati i tentativi ai tempi
di Giuseppe, varii altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi,
non tanto per la forza della parte contraria e per la difficoltà dei
luoghi, quanto pei consigli spartiti e la mollezza delle risoluzioni.
A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi, ed
un'autorità piena per punirli. Un Manhes generale, aiutante di campo
di Murat, che già aveva con singolare energia pacificati gli Abbruzzi,
parve al re uomo capace di condurre a buon fine l'opera più difficile
delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse.
Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito,
ma di natura rigida ed inflessibile, nè strumento più conveniente
di lui poteva scegliere Gioacchino per conseguire il fine che si
proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che
le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ei fosse, non si curava:
ciò si pose in pensiero di fare e fece, ferocia a ferocia, crudeltà a
crudeltà, invidia ad invidia opponendo. Primieramente considerò Manhes
che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perocchè i
facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in
cui si procedeva più rimessamente: così, cacciati e tornati a vicenda
da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente, andò
pensando che i proprietarii, anche i più ricchi, ed i baroni stessi,
che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e
morti, questi uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava
modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato
per ispegnerli. Si aggiungeva, che la gente sparsa per le campagne,
per non essere manomessa da loro, dava ad essi, non che ricovero,
vettovaglie, e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare, era
impossibile il sopraggiugnerli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche
mezzo straordinario, giacchè gli ordinarii erano stati indarno, si
assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò
ne cavava quest'altro frutto, che i giudizii sarebbero stati severi,
operando contro i delinquenti l'antica paura ed i danni sopportati.
Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta
- Parts
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 08
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 13
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