Annali d'Italia, vol. 8 - 80
protestava. Così ancora Napoleone, dopo di aver carcerato i reali di
Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna,
usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto
lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene
a visitarlo in Erfurt; Francesco d'Austria vi mandava il generale
Saint-Vincent (27 settembre 1808).
Ma era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità, e
già l'Austria, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e
dall'abbracciar sola la guerra, si mise in sull'armare. Si doleva
Napoleone dei romorosi apparecchi, affermando non pretendere
coll'imperatore d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco
essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli austriaci
ministri, e non so quale viennese setta, bramosa di guerra, come la
chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a
Francesco l'avere conservato la monarchia austriaca quando la poteva
distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dalle
armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui
che aveva incarcerato i reali di Spagna. La confederazione renana, la
distruzione dell'impero germanico, Vienna senza propugnacolo per la
servitù della Baviera, Ferdinando cacciato di Napoli, il suo trono dato
ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta,
la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata
cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno
esser capace che a lei altro partito restasse che armi o servitù. Solo
le mancava l'occasione: la offerse la guerra di Spagna, all'impresa
della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che
quello era l'ultimo cimento, faceva apparati potentissimi.
Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca
Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale
perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse
favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare
la Selva Nera e di andar a tentare le renane cose. Per aiutare questo
sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo,
stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccar nella
Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima
speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei
Tirolesi, sempre affezionati al suo nome e desiderosi di riscuotersi
dalla signoria dei Bavari. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di
questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con
un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni,
giovane di natura temperata e di buon nome presso agl'Italiani.
A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore.
Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà
della quiete. Ma, da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non
ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato
della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si
preparava alla guerra, con mandar in Germania ed in Italia quanti
soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò
nondimeno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva,
stava meglio armato e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar
egli medesimo alla guerra germanica, perchè vedeva che sulle sponde
del Danubio erano per volgersi le difinitive sorti, e che nessun altro
nome, fuorichè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo.
Quanto all'Italia, diede il governo della guerra in questa parte
importante al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald.
L'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino. L'arciduca
Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi
resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì 9 aprile
del presente anno al medesimo modo intimò la guerra Broussier che colle
prime guardie custodiva i passi della valle di Fella. Preparate le
armi, pubblicavansi i discorsi.
Addì 10 di aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca,
varcata la sommità dei monti al passo di Tarvasio, e superato, non però
senza qualche difficoltà per la resistenza dei Franzesi, quello della
Chiusa, si avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante
corredo di artiglierie e di cavalleria passava l'Isonzo, e minacciava
con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei napoleoniani. Fuvvi un
feroce incontro ai ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè
molto valorosamente. Ma, ingrossando vieppiù nelle parti più basse
gli Austriaci che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò, per
ordine del vicerè, sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò
il principe a piantare il suo alloggiamento a Sacile sulla Livenza,
attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere,
sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano
dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le
fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi,
eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico
e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico innanzi ch'egli
avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si
avvicinavano.
Erano i Franzesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras
e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo,
Broussier a sinistra: le fanterie e le cavallerie del regno Italico
formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i
Tedeschi; correva il dì 16 aprile: destossi una gravissima contesa nel
villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte
cacciati e rincacciati: i soldati italiani combatterono egregiamente.
Pure restò Palsi in potere dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi
colla loro sinistra fornitissima di cavalleria insistevano; la destra
de' Franzesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con
urto grandissimo ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti
a mal partito, se Barbon dal mezzo non avesse mandato gente fresca in
loro aiuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo,
spinse avanti con tanta gagliarda, che, pigliando del campo, scacciò
il nemico non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il
suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo delle
fronte franzese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi
dava dentro per guisa che per poco stette non lo rompesse intieramente.
Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier,
e riconfortava i suoi che già manifestamente declinavano. Barbou
eziandio si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti
i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la
fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di
numero e di costanza, i Franzesi d'impeto e di ardire. Intento sommo
degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma, contuttochè molto vi si
sforzassero, non poterono mai venirne a capo.
Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava.
Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi aiuti la
fronte, costrinse i napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato
in parte le loro schiere e ucciso loro di molta gente. E se la notte,
che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico,
avrebbero i Franzesi e gl'Italiani provato qualche pregiudizio molto
notabile.
Dopo l'infelice fatto, non erano più le stanze di Sacile sicure al
principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente
dai Tedeschi, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con
lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre veronesi, e
quelli che sotto Durante dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione
di dare novelli spiriti ai napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu
egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che
stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata.
Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano,
il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo
mentre Palmanova, ma con poco frutto; tentò con un grosso sforzo il
sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di
Venezia, ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a
trovare il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella
superiore Lombardia, dominio antico de' suoi maggiori. Non trovò
nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche
moto in Padova, ma di poca importanza: si levarono anche in arme gli
abitatori di Crespino, terra del Polesine, e fu per loro in mal punto,
perchè Napoleone, tornato superiore per le vittorie di Germania,
fortemente sdegnatosi, li suggellò all'imperio militare ed alla pena
del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose,
perdonare, ma a prezzo di sangue: dessero, per esser immolati, quattro
di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare
l'animo dell'imperadore, fu ridotto il numero a due; questi comprarono
coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.
Intanto l'arciduca Carlo aveva occupato la Baviera, e col suo grosso
esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei
primi principii dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma
parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi.
Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Inn, e
l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi, mossi da una
sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in
armi, e diedero addosso alle truppe bavare e franzesi che nelle terre
loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer,
albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna
qualità eminente, di quelle, cioè, alle quali il secolo va preso:
bensì era uomo di retta mente e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre
nelle solitudini dei tirolesi monti, ignorava il vizio ed i suoi
allettamenti. Allignano d'ordinario in questa sorte di uomini due doti
molto notabili: l'amore di Dio e l'amore della patria: l'uno e l'altro
rispondevano in Andrea. Per questo la tirolese gente aveva in lui posto
singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò
richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai
veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contentò al
servire od al principe od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide
incendii di pacifici tugurii, vide lo strazio e la strage de' suoi; nè
per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle
battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere
sorti avevano dato in sua podestà, fosse messo a morte; anzi i feriti
dava in cura alle tirolesi donne, che e per sè e per rispetto di Hofer
gli accomodavano d'ogni più ospitale sentimento.
Adunque la nazione tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo
a schifo la signoria nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da
Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde
valli e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso
contro i Bavari ed i Franzesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i
Bavari in più luoghi, non poterono resistere, e perduti molti soldati
tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa dieci mila, in
potestà del vincitore rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un
corpo di tre mila napoleoniani, franzesi e bavari, che in soccorso
degli altri arrivava sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre
comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano
sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro nè ora vi erano
per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di
giorno i Tirolesi, uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando
per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il
paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti napoleoniani. Fu questa
una guerra singolare e spaventosa; conciossiachè al romore dell'armi
si mescolava il rimbombo delle campane che continuamente suonavano a
martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa: In nome di Dio!
In nome della santissima Trinità! Tutti questi strepiti uniti insieme,
e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno d'orrore,
di terrore e di religione. Camminavano i vinti, erano una moltitudine
considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria.
I Tirolesi vincitori sulle terre germaniche, passate le altezze
del Breuver, vennero nelle italiane, e mossero a rumore le regioni
superiori a Trento. Propagavasi il rumore da valle in valle, da monte
in monte, e la trentina città stessa era in pericolo. Certo era che
quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige,
la massa tirolese sarebbe calata a fargli spalla, il che avrebbe
partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: questo
era il disegno dei generali austriaci. L'imperatore Francesco, sì
per aiutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non
aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate,
mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra'
primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse
Hofer. Mandava altresì, come s'è notato, un capo di regolari, usi
alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano
esperto e conoscitore del paese. — Come prima le insegne ed i
soldati dell'Austria comparvero, sentirono i Tirolesi una contentezza
incredibile. Entrarono gli imperiali a guisa di trionfo; tante erano
le dimostrazioni di allegrezza che i popoli facevano loro intorno.
Le campane suonavano a gloria le artiglierie e le archibuserie
tiravano a festa; i vincitori popoli applaudivano, abbracciavano, si
abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più
gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.
Ma qui finirono le prosperità dell'Austria; poichè nel colmo più alto
delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale, giunto sulle terre
germaniche, recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi
giorni tre grandissime battaglie a Taun, ad Abensberga, ad Eckmül.
Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi
sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai
napoleoniani per Vienna.
Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del
fratello, si accorse, e vi ebbe anche comandamento da Vienna, che
quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era
mestiero accorrere in aiuto della parte più vitale della monarchia.
Ordinava dunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza,
alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi
forti per poter condurre in salvo le artiglierie, le munizioni e
le bagaglie, opera difficile in vero, e pericolosa con un nemico
tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo
Eugenio. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti.
Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono
a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte. Si apprestavano
i Franzesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che
è il principale. Nonostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero
con le artiglierie poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo
dell'intento. Poi passò il vicerè sopra e sotto a Lovadina con la
maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il
bersaglio stesso dei nemici, che con palle e cariche continue di
cavalleria l'infestavano. Pareggiossi la battaglia che continuava
con grandissimo furore da ambe le parti, perchè i Franzesi volevano
sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar
i Franzesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca
in questa terribile mischia a fatica od a pericolo, ora come capitani
comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la
Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte tedesca. Diedero
dentro i Franzesi. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca
furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva in favore del
principe. Si ritirarono gli Austriaci non senza disordine nelle
ordinanze, a Conegliano. Poi, pressando vieppiù il nemico, cercavano
salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi
patirono i Tedeschi; dei napoleoniani mancarono tra morti e feriti
circa tre mila.
Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò
il Franzese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento.
Inondando i napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli,
scioglievano l'assedio di Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i
suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio
verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso
la Carniola. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine che il
capitano di Francia si era con ciò proposto, imperocchè alla sinistra
Serras si congiungeva con le prime scolte dell'esercito germanico, e
Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino,
Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per
impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, che a
gran passi veniva dalla Dalmazia, e quindi, per la strada maestra che
da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di
essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo
teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro
intoppo in Prevaldo, ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando
ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte d'accennare ai fianchi
ed alle spalle constringeva alla dedizione quattro mila Austriaci che
difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata tale vittoria,
se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi
fermossi aspettando che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia.
Questi, vinta una fiera battaglia a Gospitz, si aprì con tale vittoria
facile le strade, perchè, da un incontro in fuori ch'egli ebbe col
retroguardo nemico ad Octopsch non gli fu più oltre contrastato il
passo. Occupò successivamente Segna e Fiume, e trovati i compagni in
Istria, si incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto
l'antico Illirio venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte
le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più
opportuni, passava i monti di Somering, e per la valle della Raab verso
il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre.
Il giorno 14 di giugno, anniversario della vittoria di Marengo,
vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Raab una grandissima
battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del
Danubio in aiuto del suo fratello Carlo. Il dì 7 di luglio periva la
mole austriaca nei campi di Vagram. Quivi fu poi prostrato l'arciduca
Carlo, e Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchia.
Si trovò facilmente forma di concordia per la situazione d'una delle
parti: consentì l'imperadore Francesco a condizioni durissime di
pace. Il dì 14 ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento
delle cose comuni, dal signor di Champagny per parte di Napoleone, e
dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di
pace. Cedeva lo imperadore Francesco all'imperadore franzese, oltre
molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il
territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato
di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di
Villaco nella Carintia con tutti i paesi situati sulla riva destra
della Sava dal punto in cui questo fiume esce dalla Croazia fin
dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della
Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume ed
il litorale ungherese, l'Istria austriaca col distretto di Casina,
Piccino, Buccari, Buccarizza, Porto re, Segna e le isole dipendenti
dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati
sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire
di limite fra i due Stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco
ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione con l'Inghilterra.
Napoleone fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si
obbligava a cedere all'imperadore Alessandro di Russia nella parte più
orientale dell'antica Galizia un territorio che contenesse quattrocento
mila anime, non inclusa però la città di Brodi.
L'Austria, percossa da tanto infortunio, quietava por la pace, ma
era dolorosa la sua quiete. Oltre la scaduta potenza, l'infestava
l'insolenza del vincitore, e la aggravavano le grossissime imposizioni.
Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano
continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte per forza le
sue, aveva per forza dato molte nobili parti del suo dominio e loro
stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze
di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai
Franzesi, dai Sassoni e dai Baveri, più volte batterono, e più volte
anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve
impenetrabili, ai monti inaccessibili; vincitori, inondavano le valli,
e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente
dai napoleoniani: vincitori, trattavano i napoleoniani umanamente; e
siccome gente religiosa, vinti, con grandissima divozione pregavano
dal cielo miglior fortuna alla patria; vincitori, coi medesimi segni il
ringraziavano. E' furono visti, dopo di avere superato con incredibile
valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro che si
erano arresi, scorrente ancora il sangue e presenti i cadaveri dei
compatriotti e dei nemici, gettarsi tutti al punto stesso, dato il
segnale di Hofer, coi ginocchi a terra ed in tale pietosa attitudine
tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria.
Eccheggiavano i monti intorno dei divoti e allegri suoni mandati fuori
dai religiosi e santi petti. Infine, sottentrando continuamente genti
fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi
tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non
dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricovratisi,
aspettavano occasione in cui più potesse la virtù che la forza. Il
bavaro dominio si restituiva nel Tirolo tedesco: cedè l'italiano in
possessione del regno italico.
Sul finire del presente anno 1809 Andrea Hofer si ritirava con tutta la
sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente
per la patria, tranquillo per sè. Ma i Franzesi erano sitibondi del
suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare,
riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i
soldati; era la notte del 27 gennaio del 1810. L'aperse Hofer: veduto
ch'era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile:
«Son io, disse, Andrea Hofer; sono in poter di Francia: fate di me
ciò che vi aggrada: ma vi piaccia risparmiare la mia donna ed i miei
figliuoli; sono eglino innocenti, nè dei fatti miei obbligati.» Così
dicendo, diessi in potestà loro. Condotto a Bolzano, ultimo destino gli
soprastava. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto di
Andrea, lui, non che intrepido, quieto in quell'estrema fine.
Acquistata tanta vittoria dall'Austria, veniva a Napoleone in mente
l'antica cupidigia di Roma. Decretava, il dì 17 maggio di quest'anno
in Vienna stessa queste cose: Considerato che quando Carlo Magno
imperadore dei Franzesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai
vescovi di Roma parecchi paesi, glie li cedesse loro a titolo di feudo
col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per
questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero considerato
ancora che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale
e temporale era stata, ed era ancora fonte e principio di continue
discordie; che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti
dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e che per questo
le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si
trovarono confuse con le temporali sempre mutabili a seconda de' tempi;
considerato finalmente, che quanto egli aveva proposto a conciliazione
della sicurezza de' suoi soldati, della quiete e della felicità
de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero
colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto
indarno, intendeva voleva ed ordinava che gli Stati del papa fossero
e restassero uniti all'impero franzese; che la città di Roma, prima
sede della cristianità e tanto piena d'illustri memorie, fosse città
imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali;
che i segni della romana grandezza, che ancora in piè sussistevano,
a spesa del suo imperial tesoro fossero conservati e mantenuti; che
il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del
papa si amplificassero fino a due milioni di franchi, e fossero esenti
da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo
padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse e a nessuna
giurisdizione o visita, ed, oltre a questo, godessero d'immunità
speciali; che finalmente una consulta straordinaria il 1.º di giugno
prendesse possessione a suo nome degli Stati del papa, ed operasse che
il governo, secondo gli ordini della costituzione, vi fosse recato in
atto il primo giorno del 1810; nè mettendo tempo in mezzo, chiamava,
il giorno stesso del 17 maggio, alla consulta Miollis, creato anche
governator generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo,
e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.
A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed
i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del
dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e
con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava. E il giorno
appresso, in cui mandava fuori le sue lamentazioni, fulminava la
scomunica contro l'imperator Napoleone e contro tutti coloro che con
lui avessero cooperato all'occupazione degli Stati della Chiesa,
e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto
contro tutti i vescovi e prelati sì secolari che regolari, i quali
non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti e le
dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.
Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo
a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare
di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte e murare gli aditi del
Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino
alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio.
Informarono i napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa e
della fulminata sentenza; pregarono, ordinasse che avessero a fargli.
Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni:
quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro
comando trovò duri esecutori. Andarono la notte del 5 luglio sbirri,
manasdieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali e soldati
alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri
ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera, dov'era più basso,
ed entrati, aprirono la porta ai soldati, parte genti d'armi, parte
di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i
cardini, rompevansi i muri: il notturno rumore di stanza in stanza
dell'assaltato Quirinale si propagava; le facelle accese accrescevano
terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso,
tremavano i servitori del papa; solo Pio imperterrito si mostrava.
Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello
del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede
al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed
Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna,
usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto
lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene
a visitarlo in Erfurt; Francesco d'Austria vi mandava il generale
Saint-Vincent (27 settembre 1808).
Ma era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità, e
già l'Austria, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e
dall'abbracciar sola la guerra, si mise in sull'armare. Si doleva
Napoleone dei romorosi apparecchi, affermando non pretendere
coll'imperatore d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco
essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli austriaci
ministri, e non so quale viennese setta, bramosa di guerra, come la
chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a
Francesco l'avere conservato la monarchia austriaca quando la poteva
distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dalle
armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui
che aveva incarcerato i reali di Spagna. La confederazione renana, la
distruzione dell'impero germanico, Vienna senza propugnacolo per la
servitù della Baviera, Ferdinando cacciato di Napoli, il suo trono dato
ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta,
la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata
cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno
esser capace che a lei altro partito restasse che armi o servitù. Solo
le mancava l'occasione: la offerse la guerra di Spagna, all'impresa
della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che
quello era l'ultimo cimento, faceva apparati potentissimi.
Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca
Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale
perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse
favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare
la Selva Nera e di andar a tentare le renane cose. Per aiutare questo
sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo,
stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccar nella
Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima
speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei
Tirolesi, sempre affezionati al suo nome e desiderosi di riscuotersi
dalla signoria dei Bavari. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di
questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con
un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni,
giovane di natura temperata e di buon nome presso agl'Italiani.
A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore.
Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà
della quiete. Ma, da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non
ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato
della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si
preparava alla guerra, con mandar in Germania ed in Italia quanti
soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò
nondimeno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva,
stava meglio armato e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar
egli medesimo alla guerra germanica, perchè vedeva che sulle sponde
del Danubio erano per volgersi le difinitive sorti, e che nessun altro
nome, fuorichè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo.
Quanto all'Italia, diede il governo della guerra in questa parte
importante al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald.
L'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino. L'arciduca
Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi
resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì 9 aprile
del presente anno al medesimo modo intimò la guerra Broussier che colle
prime guardie custodiva i passi della valle di Fella. Preparate le
armi, pubblicavansi i discorsi.
Addì 10 di aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca,
varcata la sommità dei monti al passo di Tarvasio, e superato, non però
senza qualche difficoltà per la resistenza dei Franzesi, quello della
Chiusa, si avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante
corredo di artiglierie e di cavalleria passava l'Isonzo, e minacciava
con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei napoleoniani. Fuvvi un
feroce incontro ai ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè
molto valorosamente. Ma, ingrossando vieppiù nelle parti più basse
gli Austriaci che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò, per
ordine del vicerè, sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò
il principe a piantare il suo alloggiamento a Sacile sulla Livenza,
attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere,
sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano
dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le
fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi,
eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico
e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico innanzi ch'egli
avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si
avvicinavano.
Erano i Franzesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras
e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo,
Broussier a sinistra: le fanterie e le cavallerie del regno Italico
formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i
Tedeschi; correva il dì 16 aprile: destossi una gravissima contesa nel
villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte
cacciati e rincacciati: i soldati italiani combatterono egregiamente.
Pure restò Palsi in potere dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi
colla loro sinistra fornitissima di cavalleria insistevano; la destra
de' Franzesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con
urto grandissimo ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti
a mal partito, se Barbon dal mezzo non avesse mandato gente fresca in
loro aiuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo,
spinse avanti con tanta gagliarda, che, pigliando del campo, scacciò
il nemico non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il
suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo delle
fronte franzese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi
dava dentro per guisa che per poco stette non lo rompesse intieramente.
Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier,
e riconfortava i suoi che già manifestamente declinavano. Barbou
eziandio si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti
i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la
fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di
numero e di costanza, i Franzesi d'impeto e di ardire. Intento sommo
degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma, contuttochè molto vi si
sforzassero, non poterono mai venirne a capo.
Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava.
Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi aiuti la
fronte, costrinse i napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato
in parte le loro schiere e ucciso loro di molta gente. E se la notte,
che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico,
avrebbero i Franzesi e gl'Italiani provato qualche pregiudizio molto
notabile.
Dopo l'infelice fatto, non erano più le stanze di Sacile sicure al
principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente
dai Tedeschi, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con
lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre veronesi, e
quelli che sotto Durante dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione
di dare novelli spiriti ai napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu
egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che
stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata.
Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano,
il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo
mentre Palmanova, ma con poco frutto; tentò con un grosso sforzo il
sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di
Venezia, ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a
trovare il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella
superiore Lombardia, dominio antico de' suoi maggiori. Non trovò
nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche
moto in Padova, ma di poca importanza: si levarono anche in arme gli
abitatori di Crespino, terra del Polesine, e fu per loro in mal punto,
perchè Napoleone, tornato superiore per le vittorie di Germania,
fortemente sdegnatosi, li suggellò all'imperio militare ed alla pena
del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose,
perdonare, ma a prezzo di sangue: dessero, per esser immolati, quattro
di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare
l'animo dell'imperadore, fu ridotto il numero a due; questi comprarono
coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.
Intanto l'arciduca Carlo aveva occupato la Baviera, e col suo grosso
esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei
primi principii dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma
parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi.
Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Inn, e
l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi, mossi da una
sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in
armi, e diedero addosso alle truppe bavare e franzesi che nelle terre
loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer,
albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna
qualità eminente, di quelle, cioè, alle quali il secolo va preso:
bensì era uomo di retta mente e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre
nelle solitudini dei tirolesi monti, ignorava il vizio ed i suoi
allettamenti. Allignano d'ordinario in questa sorte di uomini due doti
molto notabili: l'amore di Dio e l'amore della patria: l'uno e l'altro
rispondevano in Andrea. Per questo la tirolese gente aveva in lui posto
singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò
richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai
veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contentò al
servire od al principe od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide
incendii di pacifici tugurii, vide lo strazio e la strage de' suoi; nè
per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle
battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere
sorti avevano dato in sua podestà, fosse messo a morte; anzi i feriti
dava in cura alle tirolesi donne, che e per sè e per rispetto di Hofer
gli accomodavano d'ogni più ospitale sentimento.
Adunque la nazione tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo
a schifo la signoria nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da
Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde
valli e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso
contro i Bavari ed i Franzesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i
Bavari in più luoghi, non poterono resistere, e perduti molti soldati
tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa dieci mila, in
potestà del vincitore rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un
corpo di tre mila napoleoniani, franzesi e bavari, che in soccorso
degli altri arrivava sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre
comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano
sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro nè ora vi erano
per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di
giorno i Tirolesi, uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando
per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il
paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti napoleoniani. Fu questa
una guerra singolare e spaventosa; conciossiachè al romore dell'armi
si mescolava il rimbombo delle campane che continuamente suonavano a
martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa: In nome di Dio!
In nome della santissima Trinità! Tutti questi strepiti uniti insieme,
e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno d'orrore,
di terrore e di religione. Camminavano i vinti, erano una moltitudine
considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria.
I Tirolesi vincitori sulle terre germaniche, passate le altezze
del Breuver, vennero nelle italiane, e mossero a rumore le regioni
superiori a Trento. Propagavasi il rumore da valle in valle, da monte
in monte, e la trentina città stessa era in pericolo. Certo era che
quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige,
la massa tirolese sarebbe calata a fargli spalla, il che avrebbe
partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: questo
era il disegno dei generali austriaci. L'imperatore Francesco, sì
per aiutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non
aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate,
mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra'
primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse
Hofer. Mandava altresì, come s'è notato, un capo di regolari, usi
alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano
esperto e conoscitore del paese. — Come prima le insegne ed i
soldati dell'Austria comparvero, sentirono i Tirolesi una contentezza
incredibile. Entrarono gli imperiali a guisa di trionfo; tante erano
le dimostrazioni di allegrezza che i popoli facevano loro intorno.
Le campane suonavano a gloria le artiglierie e le archibuserie
tiravano a festa; i vincitori popoli applaudivano, abbracciavano, si
abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più
gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.
Ma qui finirono le prosperità dell'Austria; poichè nel colmo più alto
delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale, giunto sulle terre
germaniche, recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi
giorni tre grandissime battaglie a Taun, ad Abensberga, ad Eckmül.
Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi
sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai
napoleoniani per Vienna.
Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del
fratello, si accorse, e vi ebbe anche comandamento da Vienna, che
quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era
mestiero accorrere in aiuto della parte più vitale della monarchia.
Ordinava dunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza,
alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi
forti per poter condurre in salvo le artiglierie, le munizioni e
le bagaglie, opera difficile in vero, e pericolosa con un nemico
tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo
Eugenio. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti.
Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono
a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte. Si apprestavano
i Franzesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che
è il principale. Nonostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero
con le artiglierie poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo
dell'intento. Poi passò il vicerè sopra e sotto a Lovadina con la
maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il
bersaglio stesso dei nemici, che con palle e cariche continue di
cavalleria l'infestavano. Pareggiossi la battaglia che continuava
con grandissimo furore da ambe le parti, perchè i Franzesi volevano
sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar
i Franzesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca
in questa terribile mischia a fatica od a pericolo, ora come capitani
comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la
Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte tedesca. Diedero
dentro i Franzesi. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca
furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva in favore del
principe. Si ritirarono gli Austriaci non senza disordine nelle
ordinanze, a Conegliano. Poi, pressando vieppiù il nemico, cercavano
salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi
patirono i Tedeschi; dei napoleoniani mancarono tra morti e feriti
circa tre mila.
Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò
il Franzese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento.
Inondando i napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli,
scioglievano l'assedio di Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i
suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio
verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso
la Carniola. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine che il
capitano di Francia si era con ciò proposto, imperocchè alla sinistra
Serras si congiungeva con le prime scolte dell'esercito germanico, e
Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino,
Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per
impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, che a
gran passi veniva dalla Dalmazia, e quindi, per la strada maestra che
da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di
essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo
teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro
intoppo in Prevaldo, ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando
ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte d'accennare ai fianchi
ed alle spalle constringeva alla dedizione quattro mila Austriaci che
difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata tale vittoria,
se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi
fermossi aspettando che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia.
Questi, vinta una fiera battaglia a Gospitz, si aprì con tale vittoria
facile le strade, perchè, da un incontro in fuori ch'egli ebbe col
retroguardo nemico ad Octopsch non gli fu più oltre contrastato il
passo. Occupò successivamente Segna e Fiume, e trovati i compagni in
Istria, si incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto
l'antico Illirio venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte
le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più
opportuni, passava i monti di Somering, e per la valle della Raab verso
il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre.
Il giorno 14 di giugno, anniversario della vittoria di Marengo,
vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Raab una grandissima
battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del
Danubio in aiuto del suo fratello Carlo. Il dì 7 di luglio periva la
mole austriaca nei campi di Vagram. Quivi fu poi prostrato l'arciduca
Carlo, e Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchia.
Si trovò facilmente forma di concordia per la situazione d'una delle
parti: consentì l'imperadore Francesco a condizioni durissime di
pace. Il dì 14 ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento
delle cose comuni, dal signor di Champagny per parte di Napoleone, e
dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di
pace. Cedeva lo imperadore Francesco all'imperadore franzese, oltre
molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il
territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato
di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di
Villaco nella Carintia con tutti i paesi situati sulla riva destra
della Sava dal punto in cui questo fiume esce dalla Croazia fin
dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della
Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume ed
il litorale ungherese, l'Istria austriaca col distretto di Casina,
Piccino, Buccari, Buccarizza, Porto re, Segna e le isole dipendenti
dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati
sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire
di limite fra i due Stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco
ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione con l'Inghilterra.
Napoleone fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si
obbligava a cedere all'imperadore Alessandro di Russia nella parte più
orientale dell'antica Galizia un territorio che contenesse quattrocento
mila anime, non inclusa però la città di Brodi.
L'Austria, percossa da tanto infortunio, quietava por la pace, ma
era dolorosa la sua quiete. Oltre la scaduta potenza, l'infestava
l'insolenza del vincitore, e la aggravavano le grossissime imposizioni.
Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano
continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte per forza le
sue, aveva per forza dato molte nobili parti del suo dominio e loro
stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze
di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai
Franzesi, dai Sassoni e dai Baveri, più volte batterono, e più volte
anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve
impenetrabili, ai monti inaccessibili; vincitori, inondavano le valli,
e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente
dai napoleoniani: vincitori, trattavano i napoleoniani umanamente; e
siccome gente religiosa, vinti, con grandissima divozione pregavano
dal cielo miglior fortuna alla patria; vincitori, coi medesimi segni il
ringraziavano. E' furono visti, dopo di avere superato con incredibile
valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro che si
erano arresi, scorrente ancora il sangue e presenti i cadaveri dei
compatriotti e dei nemici, gettarsi tutti al punto stesso, dato il
segnale di Hofer, coi ginocchi a terra ed in tale pietosa attitudine
tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria.
Eccheggiavano i monti intorno dei divoti e allegri suoni mandati fuori
dai religiosi e santi petti. Infine, sottentrando continuamente genti
fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi
tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non
dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricovratisi,
aspettavano occasione in cui più potesse la virtù che la forza. Il
bavaro dominio si restituiva nel Tirolo tedesco: cedè l'italiano in
possessione del regno italico.
Sul finire del presente anno 1809 Andrea Hofer si ritirava con tutta la
sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente
per la patria, tranquillo per sè. Ma i Franzesi erano sitibondi del
suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare,
riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i
soldati; era la notte del 27 gennaio del 1810. L'aperse Hofer: veduto
ch'era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile:
«Son io, disse, Andrea Hofer; sono in poter di Francia: fate di me
ciò che vi aggrada: ma vi piaccia risparmiare la mia donna ed i miei
figliuoli; sono eglino innocenti, nè dei fatti miei obbligati.» Così
dicendo, diessi in potestà loro. Condotto a Bolzano, ultimo destino gli
soprastava. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto di
Andrea, lui, non che intrepido, quieto in quell'estrema fine.
Acquistata tanta vittoria dall'Austria, veniva a Napoleone in mente
l'antica cupidigia di Roma. Decretava, il dì 17 maggio di quest'anno
in Vienna stessa queste cose: Considerato che quando Carlo Magno
imperadore dei Franzesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai
vescovi di Roma parecchi paesi, glie li cedesse loro a titolo di feudo
col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per
questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero considerato
ancora che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale
e temporale era stata, ed era ancora fonte e principio di continue
discordie; che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti
dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e che per questo
le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si
trovarono confuse con le temporali sempre mutabili a seconda de' tempi;
considerato finalmente, che quanto egli aveva proposto a conciliazione
della sicurezza de' suoi soldati, della quiete e della felicità
de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero
colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto
indarno, intendeva voleva ed ordinava che gli Stati del papa fossero
e restassero uniti all'impero franzese; che la città di Roma, prima
sede della cristianità e tanto piena d'illustri memorie, fosse città
imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali;
che i segni della romana grandezza, che ancora in piè sussistevano,
a spesa del suo imperial tesoro fossero conservati e mantenuti; che
il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del
papa si amplificassero fino a due milioni di franchi, e fossero esenti
da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo
padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse e a nessuna
giurisdizione o visita, ed, oltre a questo, godessero d'immunità
speciali; che finalmente una consulta straordinaria il 1.º di giugno
prendesse possessione a suo nome degli Stati del papa, ed operasse che
il governo, secondo gli ordini della costituzione, vi fosse recato in
atto il primo giorno del 1810; nè mettendo tempo in mezzo, chiamava,
il giorno stesso del 17 maggio, alla consulta Miollis, creato anche
governator generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo,
e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.
A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed
i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del
dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e
con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava. E il giorno
appresso, in cui mandava fuori le sue lamentazioni, fulminava la
scomunica contro l'imperator Napoleone e contro tutti coloro che con
lui avessero cooperato all'occupazione degli Stati della Chiesa,
e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto
contro tutti i vescovi e prelati sì secolari che regolari, i quali
non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti e le
dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.
Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo
a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare
di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte e murare gli aditi del
Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino
alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio.
Informarono i napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa e
della fulminata sentenza; pregarono, ordinasse che avessero a fargli.
Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni:
quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro
comando trovò duri esecutori. Andarono la notte del 5 luglio sbirri,
manasdieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali e soldati
alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri
ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera, dov'era più basso,
ed entrati, aprirono la porta ai soldati, parte genti d'armi, parte
di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i
cardini, rompevansi i muri: il notturno rumore di stanza in stanza
dell'assaltato Quirinale si propagava; le facelle accese accrescevano
terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso,
tremavano i servitori del papa; solo Pio imperterrito si mostrava.
Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello
del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede
al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 8 - 01
- Annali d'Italia, vol. 8 - 02
- Annali d'Italia, vol. 8 - 03
- Annali d'Italia, vol. 8 - 04
- Annali d'Italia, vol. 8 - 05
- Annali d'Italia, vol. 8 - 06
- Annali d'Italia, vol. 8 - 07
- Annali d'Italia, vol. 8 - 08
- Annali d'Italia, vol. 8 - 09
- Annali d'Italia, vol. 8 - 10
- Annali d'Italia, vol. 8 - 11
- Annali d'Italia, vol. 8 - 12
- Annali d'Italia, vol. 8 - 13
- Annali d'Italia, vol. 8 - 14
- Annali d'Italia, vol. 8 - 15
- Annali d'Italia, vol. 8 - 16
- Annali d'Italia, vol. 8 - 17
- Annali d'Italia, vol. 8 - 18
- Annali d'Italia, vol. 8 - 19
- Annali d'Italia, vol. 8 - 20
- Annali d'Italia, vol. 8 - 21
- Annali d'Italia, vol. 8 - 22
- Annali d'Italia, vol. 8 - 23
- Annali d'Italia, vol. 8 - 24
- Annali d'Italia, vol. 8 - 25
- Annali d'Italia, vol. 8 - 26
- Annali d'Italia, vol. 8 - 27
- Annali d'Italia, vol. 8 - 28
- Annali d'Italia, vol. 8 - 29
- Annali d'Italia, vol. 8 - 30
- Annali d'Italia, vol. 8 - 31
- Annali d'Italia, vol. 8 - 32
- Annali d'Italia, vol. 8 - 33
- Annali d'Italia, vol. 8 - 34
- Annali d'Italia, vol. 8 - 35
- Annali d'Italia, vol. 8 - 36
- Annali d'Italia, vol. 8 - 37
- Annali d'Italia, vol. 8 - 38
- Annali d'Italia, vol. 8 - 39
- Annali d'Italia, vol. 8 - 40
- Annali d'Italia, vol. 8 - 41
- Annali d'Italia, vol. 8 - 42
- Annali d'Italia, vol. 8 - 43
- Annali d'Italia, vol. 8 - 44
- Annali d'Italia, vol. 8 - 45
- Annali d'Italia, vol. 8 - 46
- Annali d'Italia, vol. 8 - 47
- Annali d'Italia, vol. 8 - 48
- Annali d'Italia, vol. 8 - 49
- Annali d'Italia, vol. 8 - 50
- Annali d'Italia, vol. 8 - 51
- Annali d'Italia, vol. 8 - 52
- Annali d'Italia, vol. 8 - 53
- Annali d'Italia, vol. 8 - 54
- Annali d'Italia, vol. 8 - 55
- Annali d'Italia, vol. 8 - 56
- Annali d'Italia, vol. 8 - 57
- Annali d'Italia, vol. 8 - 58
- Annali d'Italia, vol. 8 - 59
- Annali d'Italia, vol. 8 - 60
- Annali d'Italia, vol. 8 - 61
- Annali d'Italia, vol. 8 - 62
- Annali d'Italia, vol. 8 - 63
- Annali d'Italia, vol. 8 - 64
- Annali d'Italia, vol. 8 - 65
- Annali d'Italia, vol. 8 - 66
- Annali d'Italia, vol. 8 - 67
- Annali d'Italia, vol. 8 - 68
- Annali d'Italia, vol. 8 - 69
- Annali d'Italia, vol. 8 - 70
- Annali d'Italia, vol. 8 - 71
- Annali d'Italia, vol. 8 - 72
- Annali d'Italia, vol. 8 - 73
- Annali d'Italia, vol. 8 - 74
- Annali d'Italia, vol. 8 - 75
- Annali d'Italia, vol. 8 - 76
- Annali d'Italia, vol. 8 - 77
- Annali d'Italia, vol. 8 - 78
- Annali d'Italia, vol. 8 - 79
- Annali d'Italia, vol. 8 - 80
- Annali d'Italia, vol. 8 - 81
- Annali d'Italia, vol. 8 - 82
- Annali d'Italia, vol. 8 - 83
- Annali d'Italia, vol. 8 - 84
- Annali d'Italia, vol. 8 - 85