Annali d'Italia, vol. 8 - 79

scompigli cagionò nell'italiana penisola ed a sì gran repentaglio pose
la sicurezza degl'individui, l'ordine e la quiete degli stati. Alcuni
dei repubblicani più vivi, ritiratisi, durante le procedure usate
contro di loro, nelle montagne più aspre e nei più reconditi recessi
dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con sè un odio estremo
contro il re, non solamente perchè loro avverso era stato, ma ancora
perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Franzesi,
sì perchè avevano disfatto la repubblica propria e quelle d'altrui,
sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro
pazientemente tollerare che in cospetto loro, nonchè di Ferdinando,
di Giovacchino, nonchè di Giovacchino, di regno si favellasse. Così
tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odii loro contro
i re tutti e contro i Franzesi fra immense solitudini continuamente
infiammavano. Ma sulle prime isolati ed alla spartita vivendo, nessun
comune vincolo li congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi
che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero
notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare
il regno contro i Franzesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra
di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni
e creassero nuovi seguaci. Per accenderli promettevano gl'Inglesi
qualche forma di costituzione. Sorse allora la setta dei carbonari,
la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine e si mostrò
la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie dove si
fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarii
sapevano ed esercevano veramente l'arte del carbonaio. Siccome poi non
ignoravano che, a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace
che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti
maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di
sorprendente facoltà persuasiva che per nome si chiamava Capobianco.
Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi Muratori, che gli
ammessi passavano successivamente per varii gradi fino al quarto; che
celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni
si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai diversi
erano i carbonari dai liberi muratori: conciossiachè siccome il fine
che questi ostentano è di beneficare altrui, di banchettare sè stessi,
così il fine di quelli era tutto politico. Avevano i carbonari nel
loro procedere assai maggiore severità dei liberi muratori, poichè non
mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il
loro principal rito in ciò consisteva: che facessero vendetta, come
dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano
Gesù Cristo, e pel lupo i re che con niun altro nome chiamavano se non
con quello di tiranni. Sè stessi poi nel gergo loro chiamavano col
vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca sotto il
quale vivevano. Opinavano altresì costoro che Gesù Cristo sia stato la
prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo
vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i Liberi muratori
intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a
vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente
uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente
operavano, con vivi colori rappresentando la passione e la morte di
Cristo; e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano
presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di
Gesù Cristo. Quale effetto in quelle napolitane fantasie sì terribili
forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro
per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni
altri, il toccarsi la mano, ed in tale atto col pollice segnavano una
croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello che i liberi
muratori chiamavano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee
loro col nume di vendite distinguevano, ai carbonari alludendo, i
quali, scendendo dalle montagne, andavano a vendere il carbone loro pei
mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di
repubblica: niun altro modo di reggimento volevano che il repubblicano,
ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di
Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco che abbiamo sopra
nominato. Odiavano acerbamente i Franzesi, acerbissimamente Murat per
esser Franzese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando;
perchè piuttosto non volevano re. Nata prima nell'Abruzzo e nelle
Calabrie, questa peste propagata si era nelle altre parti del regno;
e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro e creato
consettarii. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni
della segreta lega micidiale erano consapevoli e partecipi.
Vedendo Ferdinando che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza,
si deliberava, a ciò massimamente stimolato dagl'Inglesi, di fare
qualche pratica, acciocchè, se possibil fosse, concorressero co'
suoi proprii aderenti al medesimo fine, ch'era quello di cacciar i
Franzesi e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste
pratiche era il principe di Moliterno, che tornato d'Inghilterra,
dove si era condotto per proporre a quel governo che dichiarasse
l'unione e l'indipendenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto
contro i Franzesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire,
non fidandosi del principe per essere stato repubblicano, si era
in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal
Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava
efficacemente. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi
coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente
della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla
corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati
dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e
sì finalmente perchè molto si soddisfacevano di quella condizione
d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe.
Ciò, nonostante, stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad
un accordo con gli agenti regi. Per vincere una tale ostinazione, il
governo di Palermo dava speranza ai carbonari che avrebbe loro dato una
costituzione libera a seconda dai desiderii loro. Per questi motivi, e
massimamente per questa promessa, quanto assurda ed impossibile ognun
sel vede, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione
del regno dai Franzesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte
dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da
ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio,
continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella che
ordinò quella repubblica di Catanzaro che abbiamo sopra nominato.
L'unione dei carbonari coi regi diede maggior forza alla parte di
Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la
medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle
terre murate, cooperando alla difesa i soldati franzesi guidati da
Partonneaux, i soldati napolitani e le legioni provinciali. Ogni cosa
in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando, nè del re
Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte
ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra
disordinata e civile; incendii, ruine, saccheggi, stupri, e, non che
uccisioni, assassinii. I fatti orribili tanto, più si moltiplicavano
quanto più, per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal
affare d'ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava
nè di repubblica nè di regno, nè di Ferdinando nè di Giovacchino, nè di
Franzesi nè d'Inglesi, nè di papa nè di Turco, ma solo al sacco ed al
sangue intenti, dai più segreti rispostigli loro uscendo, commettevano
di quei fatti dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più
ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento
in poi e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente
sparso finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le
ridusse a più tollerabile condizione.


Anno di CRISTO MDCCCIX. Indizione XII.
PIO VII papa 10.
FRANCESCO I imp. d'Austria 4.

Le ruine si moltiplicavano: la Spagna ardeva, l'Italia e la meridional
parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria
perplessa, la Prussia serva, la Russia devota, la Turchia aderente,
la terraferma europea tutta obbediente a Napoleone o per forza o per
condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuor dell'Italia, debole
per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà.
Napoleone, spinto dalla ambizione e acciecato dalla prosperità, aveva
messo fuori certe parole sull'imperio di Carlo Magno, suo successore
nei diritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia,
che da lui traevano gli stipendii, avessero potuto, imperadore
dei Franzesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva
possessione, non che della Francia, di tutta la Italia, di tutta la
Germania, di quanto insomma componeva l'imperio di Occidente ai tempi
di quel glorioso imperadore.
Adunque con quell'insegna di Carlo Magno in fronte si avventava contro
il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome
tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà, e gli pesava che
ancora in Italia una piccola parte fosse che a lui non obbedisse. Dal
canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in
quella condizione servile, nella quale erano caduti, chi per debolezza
e chi per necessità, quasi tutti i principi di Europa. Così chi aveva
armi, cedeva, chi non ne aveva, resisteva. Pio VII, non che resistesse,
fortemente rimostrava al Signore della Francia, acerbamente dolendosi
che per gli articoli organici e pel decreto di Melzi fossero stati
due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche
a violazione manifesta dei concilii e del santo Vangelo stesso. Si
lamentava che nel Codice civile di Francia, introdotto anche per
ordine dell'imperadore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto
contrario alle massime della Chiesa ed ai precetti divini. Rimproverava
che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la
Francia con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica e le
dissidenti, non esclusa anche l'ebraica, nemica tanto irreconciliabile
della religione di Cristo.
Di tutte queste cose ammoniva l'imperadore, dell'esecuzione delle sue
promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone
vincitore delle maggiori potenze, non era più quel Napoleone ancor
tenero ne' suoi principii. Per la qual cosa, volendo ad ogni modo
venir a capo del suo disegno di farsi padrone di Roma, o che il papa
vi fosse o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo
egli il successore di Carlo Magno, gli stati pontifizii, siccome quelli
che erano stati parte dell'impero di esso Carlo Magno, appartenevano
all'impero franzese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli
ne era l'imperadore, e che a lui, come a successore di Carlo Magno,
il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al
pontefice la doveva nelle spirituali; che uno dei diritti inerenti alla
sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma
a fare con lui e co' suoi successori una lega difensiva ed offensiva
per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo
soggetto all'imperio di Carlo Magno, non si poteva esimere dall'entrare
in questa lega e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui
Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da
lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la
donazione di Carlo Magno, di spartire gli Stati pontifizii e di dargli
a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe
l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore
con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice
qualità di vescovo di Roma.
Queste estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato
a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta
l'autorità sua l'aveva aiutato a salire sul suo seggio imperiale,
dimostravano in chi le faceva una risoluzione irrevocabile. Rispondeva
il pontefice, e troppo seriamente rispondeva alle allegazioni di
Napoleone, perchè niuno meno le stimava che Napoleone stesso. Instava
adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella
confederazione italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse
i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente
ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice
facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente
tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no,
lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma
conquisterebbe.
Allora, esposto il papa Pio con gravissime querele l'animo suo a
Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio
l'imperatore volesse consumare le sue minaccie, impossessandosi degli
Stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua Santità a
tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione
violenta ed iniqua. L'imperatore perseverò nel dire che a questo
principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del
sovrano, sotto il dominio del quale son nati, e che intenzion sua era
che tutta l'Italia, Roma Napoli e Milano, facessero una lega offensiva
e difensiva per allontanare dalla penisola i disordini della guerra.
Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione
non doveva e non poteva essere interrotta per uno Stato intermedio
che a lui non si appartenesse tra i suoi Stati di Napoli e di Milano.
Inoltre voleva e comandava che i porti dello Stato pontificio fossero e
restassero serrati agli Inglesi. Rimostrò nuovamente il papa; e quanto
al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non
potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano
l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della
concordia, all'imperatore.
Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse
monca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello
che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e di Italia e
del mondo. Perchè poi la forza fosse aiutata dall'arte, accompagnava
le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà
per la potestà secolare. Quindi instantemente richiedeva, anche
con la solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non
consentisse, il papa che riconoscesse in lui il diritto d'indicare
alla santa Sede tanti cardinali franzesi, quanti bastassero perchè il
terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali franzesi.
Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità
nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi; se ricusava,
avrebbe punito alla nazione franzese che egli le negasse ciò che per la
sua grandezza credeva meritarsi, punto questo che all'imperatore molto
caleva. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda
che vulnerava la libertà della Chiesa ed offendeva la sua più intima
costituzione, e ciò dimostrava con sane e sante ragioni.
Non si rimaneva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo
dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali o si piglierebbe
Roma. Tentato di render Pio odioso ai Franzesi, il volle far
disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse
da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli
non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di
Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per
consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro che a Roma
il rappresentavano.
L'appetita Roma veniva in mano di lui. Se vi fu ingiustizia nei
motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. Si avvicinavano i napoleoniani
all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei.
Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano sei
mila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per un papa:
Alquier, ambasciatore di Napoleone presso la santa Sede, anch'egli
vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato. Era
giunto il mese di gennaio 1808 al suo fine, quando Alquier mandava
dicendo a Filippo Casoni, cardinale segretario di Stato, che sei
mila napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo Stato
romano: che Miollis prometteva che passerebbero senza offesa del paese,
e che il generale era uomo di tal fama che la sua promessa doveva
stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario
de' soldati, dal quale appariva che veramente indirizzava verso il
regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città.
Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi che andassero a
Napoli, quelli che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava
formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e
dichiarasse, apertamente e senza simulazione alcuna, il motivo del
marciare di questi soldati, acciocchè Sua Santità potesse fare quelle
risoluzioni che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, aver mandato
la norma del viaggio dei soldati, e sperare che ciò basterebbe per
soddisfare i ministri di Sua Santità. Il tempo stringeva: i comandanti
napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti,
sul papa e sui soldati del papa, minacciavano che entrerebbero in
Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle
mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe
per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto
vicini erano i napoleoniani, che vedevano le mura della romana città.
Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre,
affermando con osservazione grandissima che erano soltanto di passo
e non avevano, nessuna intenzione ostile. I napoleoniani intanto,
arrivati più presso, assaltarono armata mano, il dì 2 febbraio, la
porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del
castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e
tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierie
loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione questa
del pontefice. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi
schifosi accidenti, Miollis domandava, per mezzo di Alquier, udienza al
santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire che non per suo
comando le bocche dei cannoni erano state volte contro il quirinale
palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma ed al capo della
cristianità consistesse in questa sola violenza che certamente era
molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, ch'era
pure l'importanza del fatto, non fece parola.
Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusavano dell'aver dato
asilo nei suoi Stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori
contro lo Stato di Murat; per questo, affermavano, aversi occupata
Roma; il papa stesso accagionarono di connivenza. Alquier già ne fece
querele; del rimanente voleva, non so se per pazzia o per ischerno,
che il papa avesse e trattasse ancora come amiche le truppe che
violentemente avevano occupato la sua capitale e la sede del suo
governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello che
contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto
non potè più contenere sè medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse
all'ambasciatore napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati
che, rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano
violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la
città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione,
e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario
e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva che, essendo privato della
sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più
nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle
faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e
sicura libertà.
Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante
napoleonico intimava ai cardinali napolitani, nel termine di
ventiquattr'ore partissero da Roma, tornassero a Napoli. Se nol
facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima,
termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali
del regno italico. Risposero stare ai comandamenti del pontefice;
farebbero quanto ordinasse. A tanto oltraggio il pontefice, quantunque
in potestà di altrui già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse
ai cardinali, non potere Sua Santità permettere che partissero:
proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a
lui giurato avevano.
La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si
disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati
napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le
guardie pontifizie, ogni cosa recarono in poter loro. Al medesimo fine
invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto
permettevano essi, stampare si potesse.
Tolta al papa la forza civile, si faceva passo di togliergli la
militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le
napoleoniche glorie e la felicità degli imperiali soldati magnificando.
Pochi cessero, i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni,
toccossi il rimedio della forza. I soldati furono costretti alle
insegne napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno
italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.
Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie,
piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Franzesi che quest'ultimo
suo ricetto fosse turbato dalle armi forastiere, non contenti se
non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto.
Andavano, il dì 7 aprile, all'impresa del prendere il pontificale
palazzo; si appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi
stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrare gente armata,
ma solamente l'ufficiale che le comandava. Parve soddisfarsene
il capitano napoleonico: fatti fermar i soldati, entrava solo; ma
non così tosto fu lo sportello aperto, e l'ufficiale entrato, che,
aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero.
Entrarono; volte le baionette contro lo Svizzero, occuparono l'adito.
Si impadronirono, atterrando romorosamente le porte delle armi delle
papali guardie, i più intimi penetrali invasero.
Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis;
ma le sue querele non muovevano il generale, che anzi, negli eccessi
moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidebono
Cavalchini governator di Roma, ordinando che fosse condotto a
Fenestrelle, fortezza alle fauci delle Alpi sopra Pinerolo.
A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di sè medesimo, in istile
grave e profetico, a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le
viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio che è
cagione che il sole levante venne dall'alto a ritirarsi, esortiamo,
preghiamo, scongiuriamo te, imperadore e re Napoleone, a cambiar
consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno
manifestasti; sovvengati che Dio è re sopra di te; sovvengati ch'ei non
rispetterà la grandezza di uomo che sia; sovvengati ed abbi sempre alla
mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile;
perchè quelli che comandano agli altri saranno da lui con estremo
rigore giudicati.»
Napoleone, cieco, e dal suo inevitabile destino tratto, non attendeva
alle spaventevoli o fatidiche voci del pontefice. Decretava, il dì
2 aprile dello scorso anno, che, stantechè il sovrano attuale di
Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di
collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola;
stantechè l'interesse de' due reami e dell'esercito d'Italia e di
Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una
potenza nemica; stantechè la donazione di Carlo Magno, suo illustre
predecessore, degli Stati pontifizii, era stata fatta a benefizio della
cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione:
stante finalmente che l'ambasciatore della corte di Roma appresso a
lui aveva domandato i suoi passaporti; le provincie d'Urbino, Ancona,
Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al
suo regno d'Italia; il regno italico, il dì 11 maggio, prendesse
possessione delle quattro provincie, vi si pubblicasse ed eseguisse il
codice Napoleone: fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per
l'esecuzione del decreto.
Il giorno stesso del 2 di aprile, l'imperatore, conoscendo quanti
prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del
pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti
servitori ed amici, decretava che tutti i cardinali, prelati, ufficiali
ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte, di Roma, nati nel
regno d'Italia, fossero tenuti, passato il dì 25 di maggio, di ridursi
nel regno; chi nol facesse avesse i suoi beni posti al fisco; i beni
già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì 5 di giugno.
Nè solo la violenza del voler torre i servidori al papa si usò contro
coloro ch'erano nati nel regno italico, ma ancora contro quelli che,
sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano ufficii spirituali in quel
regno.
Eugenio vicerè, con solenne decreto del 20 maggio spartiva, le quattro
provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone e del Tronto
chiamandoli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata,
il terzo Fermo. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi
territorii un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente: due
consiglieri di Stato.
Si esigevano nelle provincie unite i giuramenti di fedeltà
all'imperatore, di obbedienza alle leggi e costituzioni. Il pontefice,
che non aveva riconosciuto l'usurpazione, non consentiva ai giuramenti
pieni. Da questo conflitto tra armi ed opinioni sorse nelle Marche,
una volta sì prospere e felici, un disordine ed una infelicità
dolorosissima.
Pubblicava Pio una solenne protesta, la quale così terminava:
«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro
e manifesto che per forza di un attentato enorme i diritti della
romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e
che una ferita ancor più profonda è stata a noi ed alla santa Sede
fatta, acciocchè tacendo non paia ai posteri che noi l'iniquissimo
delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e
dell'onore, quanto pure merita, non abbiamo, il che sarebbe perpetua
vergogna nostra, a sdegno e ad abborrimento avuto, di nostro proprio
moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e
solennemente e in miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre
che sono nella marca d'Ancona, e l'unione loro al reame d'Italia,
senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperatore
Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle. Dichiariamo altresì
e protestiamo nullo essere e di niun valore quanto fino ad oggi si è
fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora
in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso:
vogliamo inoltre e dichiariamo che anche dopo mille anni, e tanto
quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto e quanto sarà per farvisi,
a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di
dominio che di possessione sulle medesime terre, perchè sono e debbono
essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica.»
Così Pio, venuto in forza altrui, parlava a Napoleone, e contro di lui