Annali d'Italia, vol. 8 - 78

senza appello in ventiquattro ore; i soldati vivessero a carico dei
paesi sollevati; i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si
ponessero al fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero;
chi, non essendo ascritto alla guardia provinciale, fosse trovato con
armi, si desse a morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi
complici si sopprimessero. Andava Massena alla spedizione: seguitarono
dalle due parti crudeltà inusitate. Durò lunga pezza la carnificina;
pure i napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati disegni
prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono la
provincia; semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo ora in
quell'altro ripullulavano, e facevano segno che più potevano l'odio
e la rabbia che i supplizii; nè mai potè Giuseppe venir a capo dei
sollevamenti calabresi, ancorchè osasse rimedii asprissimi, e qualche
volta anche dolcezza coi perdoni. Vedremo poi che se la dolcezza
mescolata con la crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie,
una crudeltà pura il fece: feroce razza di Calabria che non potè
costringersi alla quiete, se non con lo sterminio.
Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano
una costa dell'Adriatico; simili accidenti insanguinavano l'altra.
Erano le Bocche di Cattaro il più sicuro ricovero che si avessero
i naviganti nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato
di Campo Formio, con tempo di sei settimane ad esserne messo in
possessione. Spirato il termine, e non comparsi gli ufficiali
di Francia a prenderne possessione, un agente di Russia, col
quale concordavano, siccome Greci, gran parte dei Bocchesi e dei
Montenegrini, selvaggi abitatori delle vicine montagne, sollevò
il paese, predicando che, poichè il tempo buono della consegna
era trascorso, i Franzesi erano scaduti, ed il paese padrone di sè
stesso. I comandanti austriaci di Castel Nuovo e degli altri forti la
intendevano ad un altro modo, e volevano serbare la fede. Arrivava in
questo mentre il marchese Ghisilieri, commissario d'Austria, per fare
la consegnazione; ma non che il suo mandato eseguisse perchè già i
Franzesi si approssimavano, consentì a sgombrar il paese, lasciandolo
in potere de' natii, dei Montenegrini e dei Russi. Sgombrarono di
malavoglia i comandanti austriaci, e sdegnosamente anche protestarono
della violazione dei patti. Nè meno sdegnosamente udì Vienna il
fatto: fu il marchese condannato a carcere perpetuo in una fortezza di
Transilvania.
La fede violata a Cattaro die' occasione a fede violata in Ragusi.
I napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di
Ragusi, nessuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica
allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerie
dei Montenegrini. Certo i soldati napoleonici difesero Ragusi, dicesi
la città, perciocchè i Montenegrini saccheggiavano il territorio; ma
Napoleone spense la repubblica, congiungendola all'italico regno:
singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston,
tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini, era soccorso da Molitor,
che li vinceva, risospingendoli ai loro nidi delle montagne. Pure
stavano ancora minacciosi ed infestavano con ispesse correrie il
paese, quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venire
al piano, con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro.
Guerra orribile fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni e
gittavano le lor teste tronche fra le file dei compagni inorriditi; i
napoleoniani perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non
li potevano avere, per essersi nascosti nelle tane, ne li cacciavano
con fuoco e fumo, come se fiere fossero, per uccidersi.
Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura
sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della
Dalmazia.
Il re Federico sentiva i frutti della tenuta condotta. Vinta l'Austria
per avere la Prussia imprudentemente serbata la neutralità, insorgeva
Napoleone a vincere la Prussia dopo l'Austria. Usò le insidie, le
insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi
assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla.
Invase l'Annover, ed operò ch'ella lo accettasse in proprietà,
dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la
Germania nel caso del duca d'Enghien: non risentissi la Prussia. Portò
pazientemente il re l'incoronazione italica, l'unione di Genova, il
fatto di Lucca, le non attenute promesse al re di Sardegna: portò
pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorii
germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni
delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore
Napoleone per la confederazione del Reno. Non ci allungheremo in altri
fatti; ma nuovi soldati napoleonici marciavano in Germania. Conobbe il
re con quale amico avesse a fare, e corse alle armi; corse altresì al
ferro Napoleone.
Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Jena, fu
prostrata a Maddeborgo ed a Perenslavia. Berlino, capitale del regno,
le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo,
vennero in poter del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente
mosse dal re Federico per istimolo proprio e per quelli di Alessandro
di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in aiuto
del vinto amico; ma Napoleone soprastava di ardire, di forza e d'arte.
Fu asprissima la battaglia di Eylau e di esito incerto. Incrudelita la
stagione, ritiraronsi i Franzesi di qua della Vistola, i Russi di là
della Pregel.


Anno di CRISTO MDCCCVII. Indizione X.
PIO VII papa 8.
FRANCESCO I imp. d'Austria 2.

Intiepiditosi il tempo, si avventavano gli uni contro gli altri
Franzesi e Russi: varii furono i combattimenti; sanguinosi tutti.
Infine sui campi di Friedland conflissero con ordinanza piena i due
nemici (14 giugno). Quivi cadde la fortuna russa. Napoleone vincitore
ai confini di Alessandro sovrastava; addomandava Alessandro i patti.
Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete fra di loro
si spartissero il mondo. Quale di questo sia la verità, convennero
sulle sponde del Niemen in trattato, il dì 7 di luglio; riconobbe
Alessandro il nome e l'autorità regia in Giuseppe Napoleone come re di
Napoli, ed in Luigi Napoleone come re d'Olanda; consentì che un regno
di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di
Napoleone, s'investisse; accordò che un ducato di Varsavia si creasse,
e duca ne fosse Federico Augusto di Sassonia; riconobbe la renana
confederazione; stipulò per articolo segreto che le Bocche di Cattaro
si sgombrassero dai Russi e si consegnassero in potestà di Napoleone.
Convenne infine che sette isole ioniche cedessero in possessione del
medesimo.
I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti siano
stati mandati alla memoria dei posteri, e già lui temeva ed adorava
il mondo. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per
ismisurate che fossero, parevano minori del vero; nè i poeti più
celebri, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano
arrivare a tanta altezza. Un mezzo solo gli restava per accrescere la
gloria acquistata; questa era di usarne moderatamente; ma amò meglio
dilettarsi, provando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli
uomini. Lasciando le adulazioni franzesi e d'altre nazioni, solo si
dica delle italiane. A questo fine erano stati chiamati a Parigi i
deputati del regno italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava,
introdotto all'udienza nell'imperial sede di Saint-Cloud, con
servilissimo discorso al signore.
Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia; con piacere
averli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo; sperare
che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo
venne in sul dire che le donne italiane dovevano allontanare da
sè stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero
negl'interni recessi, e comparissero al cospetto loro se non quando
portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia
volentieri; sapere quanto i Veneziani l'amassero.
Accarezzato dai monaci del Cenisio, festeggiato dai Torinesi testè
liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale,
il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella
reale ed accetta Milano. Le feste furono molte: i soldati armeggiavano,
i poeti cantavano, i magistrati lusingavano. Trattò Melzi molto
rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio
rintanato, il creò duca di Lodi.
Ed ecco che Napoleone arrivava a Venezia (29 novembre). Luminaria
per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno;
la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri,
plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto e contento in volto. Tornato
a Milano il dì 6 dicembre udiva i collegi, ed i collegi parlava. Accusò
gli antenati, parlò di patria degenere dalla antica, affermò molto
aver fatto per gli Italiani, molto più voler fare; ammonilli, stessero
congiunti con Francia; ricordò loro che da quella ferrea corona si
ripromettessero l'independenza.
Corsa trionfalmente la Lombardia, nuovi italici pensieri gli
venivano in mente e li mandava ad esecuzione. Aveva, a cagione che
il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare
contro gl'Inglesi, per un trattato sottoscritto a Fontanablò ai 27 di
ottobre con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi
signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi.
Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del
Portogallo tra Mino e Duero colla città di Porto cedessero in proprietà
e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della
Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della
Pace con titolo di principe dell'Algarve; che il Beira ed il Tramonti e
l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace;
che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Franzesi;
che un esercito napoleonico entrasse in Ispagna, e congiunto con lo
spagnuolo occupasse il Portogallo. I Braganzesi, avuto notizia del
fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono per Brasile sopra
navi proprie ed inglesi.
Il dì 22 novembre i ministri di Francia e di Spagna, nelle stanze di
Maria Luisa regina reggente di Toscana entrando, le intimarono essere
finito e ceduto a Napoleone il suo toscano regno, e che in compenso
le erano assegnati altri Stati da goderseli col suo figliuolo Carlo
Lodovico. Significava la regina ai suoi popoli essere la Toscana ceduta
all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi
con diletto del toscano amore, rammaricherebbesi della separazione,
consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il
fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù,
fra le quali, per usare le stesse parole che usò la regina, dette così
com'erano alla segreteriesca, fra le quali campeggiava singolarmente la
premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei
popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina in Toscana le vestigie
leopoldiane, anzi era andata riducendo lo Stato a governo più stretto.
Arrivò il generale Reille, il dì 11 dicembre, a pigliar possesso
in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza;
cassaronsi gli stemmi di Toscana; rizzaronsi i napoleonici: arrivava
Menou egiziaco a scuotere le toscane genti; Napoleone trionfatore,
tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa
e di Carlo Lodovico.
La natura rotta e precipitosa di Menon mitigava in Toscana una
giunta creata dal nuovo sovrano e composta di uomini giusti e buoni,
fra i quali era Degerando, solito sempre a sperare, a supporre e
a voler bene. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a
forma franzese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili,
alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali,
amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia
senza modificazione; degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace,
parendo loro cosa enorme che dovessero andare alle guerre dell'estrema
Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. Si
adoperava la giunta, non senza frutto, a fare che la nuova signoria
meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò
molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse
più del quinto nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la
giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio, volle tirarvi
la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane, diede favore al
far venire pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia
sienese. Delle berrette di Prato, dei cappelli di paglia, degli
alabastri e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali
del toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze e con premii
particolar cura aveva. Domandò a Napoleone che permettesse le tratte
delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile,
per tener in fiore le manifature dei drappi e la coltivazione dei
gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore che concedesse
una camera di commercio a Livorno a guisa di quella di Marsiglia,
acciocchè i Livornesi potessero regolare da sè, e non per mezzo dei
Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma
sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava
contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo
il commercio del Levante con Livorno.
I comodi di terra pressavano nei consigli della giunta come quei di
mare. Supplicava all'imperadore aprisse una strada da Arezzo a Rimini,
brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico, ristorasse quella
da Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze
a Bologna pei Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella che
insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo
e Perugia. Nè gli studii si ommettevano; consiglio degno del dotto
e dabbene Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i
sussidii loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento,
della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava
Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva.
Quando poi arrivava gennaio, cessava la giunta l'ufficio, dato da
Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, granduchessa
nominandola. La qual Elisa, o per natura o per vezzo, simile piuttosto
al fratello che a donna, si dilettava di soldati, gli studii e la
toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la
toscana patria.
Similmente ed al tempo stesso Napoleone univa all'imperio il ducato
di Parma e Piacenza dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai
Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.
La servitù si abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere
magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto
splendore splendeva. La mole dell'ambrosiano tempio cresceva; il foro
Buonaparte ogni giorno più grandeggiava; Eugenio vicerè fomentava i
parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la
corte promuovitrice di servitù era anche pruomovitrice di bellezza.
Nuovi canali si cavavano nuovi ponti s'innalzano nuove strade si
aprivano. Nè le rocche nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata
da Napoleone, ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il
suo dominio e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi che da
pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono
le due strade del Sempione e del Cenisio, le quali, aprendo un facile
adito tra le più inospite ed alte roccie dall'Italia alla Francia,
attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed
attività dei Franzesi, la potenza di chi sul principiare del secolo
decimonono le umane sorti volgeva.


Anno di CRISTO MDCCCVIII. Indizione XI.
PIO VII papa 9.
FRANCESCO I imp. d'Austria 3.

Era arrivato il tempo in cui i disegni napoleonici dovevano colorirsi a
danno del re di Spagna. Il mettere discordia nella famiglia reale, il
far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo
verso il padre, il seminar sospetti sopra la coniugal fede della
regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti,
e farne strumento alle macchinazioni, il contaminar la fama di una
principessa morta, accusar un principe di Spagna d'insidie, perchè più
amava la Francia che la Spagna, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni
cosa fosse sospetto di fraudi e di tradimenti, e la quiete e confidente
vita del tutto sbandirne, queste arti produssero il mal frutto. La
subitezza spagnuola le ruppe, col far re Ferdinando e dimetter Carlo;
ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso d'Aranjuez, che
parea dovere scompigliar ogni trama, gli diede occasione a mandarla ad
effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in suo potere a Baiona;
restava che vi tirasse il re Ferdinando, ed il vi tirò. Rallegrossi
allora dell'opera compita. Costrinse il padre ed il figliuolo a
rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a
Marsiglia, il figliuolo prigione a Valenzay: nominò, ribollendo in lui
la cupidità dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re
di Napoli. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite cose, e
combatterono i napoleoniani.
Napoleone, obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli
in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione
dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue
osservazioni, otteneva che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt.
Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari
segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due
monarchi, allora potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme
sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava
della libertà d'Europa, perchè, essendo le due volontà preponderanti
ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè
speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia,
abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo
nelle faccende di Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente
si contraggono che si dismettano, ed anche l'ambizione del dominare
non si rallenta mai, anzi cresce sempre ed è insanabile. Rotto era e
capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre
l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione
di temere. Le scene di Erfurt erano per Napoleone più di apparato che
di arte, per Alessandro più di arte che di apparato.
Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione
ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle
Due Sicilie, due primi e supremi pensieri nodrire, esser grato al
donatore, utile ai sudditi; volere conservar la costituzione data
dall'antecessore; venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col
principe Achille, suo reale figliuolo, venire co' figliuoli ancor
bambini, commettergli alla fede, all'amore loro; sperare farebbero
i magistrati il debito loro; in esso consistere la contentezza dei
popoli, in esso la sua benevolenza.
Principiarono le napolitane adulazioni. Il consiglio di Stato, il
clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a
Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli
intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali,
ogni cosa in pompa. Una statua equestre, rizzata sulla piazza del
mercatello, rappresentava Napoleone augusto. Un'altra sulla piazza del
palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon,
maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava, il dì 6 di
settembre, a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani,
scudieri, ufficiali, soldati, chi con le spade al fianco, chi con
le chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando
rami d'alloro e chi di ulivo. Firrao cardinale col baldacchino e con
gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello
Spirito Santo: condottolo sul trono, a tal uopo molto ornatamente
alzato, cantava la messa e l'inno ambrosiano. Terminata la ceremonia,
per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù
e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel
real palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio,
faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina; risplendeva, come
lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle
forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di
Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.
Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi
l'isola di Capri, la quale, come posta alla bocche del golfo, è freno
e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo
a coloro che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore
agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto
pregiudizio dei traffici commerciali. Pareva anche vergognoso che un
Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte
massimamente degl'Inglesi, tanto disprezzati. Aveva Giuseppe, per la
sua indolenza, pazientemente tollerato quella vergogna: ma Giovacchino,
soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar
il dominio con qualche fatto d'importanza: andava contro Capri. Vi
stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni
nazione, e che si chiamavano col nome di reale Corso e di reale Malta.
Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacarpi, ed il
forte maggiore con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti
da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque, andavano
Franzesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per
mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi
si difendevano risolutamente, s'impadronirono d'Anacarpi: vi fecero
prigioni circa ottocento solduti del reale Malta. Conquistato Anacarpi,
ch'è la parte superiore dell'isola, restava che si ricuperasse
l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada
molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale
traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San
Michele. Fu forza alzar batterie sulle sommità per battere i forti:
l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi di
uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera
al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi
dal lido. Il re che stava sopravvedendo dalla marina di Massa,
fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio,
spingeva in aiuto di Lamarque nuovi squadroni. Gl'Inglesi, rotti già
in gran parte e smantellati i forti, si diedero, il dì 2 di ottobre, al
vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon
augurio del nuovo governo.
Erano nel regno baroni, repubblicani e popolo. I baroni al nuovo
re volontieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori,
nè stavano senza speranza di avere od a ricuperare gli antichi
privilegi, perciocchè, malgrado delle dimostrazioni contrarie, i
Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne di
nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse
re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano
che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava
anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che
indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un
nome feudatario. Per questo temevano che ad un bel bisogno li desse
in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo
se li conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il
popolo non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe; si sarebbe
facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle
violenze dei magnati ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino,
tutto intento a vezzeggiare i baroni, trascurava il popolo, il quale,
vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno
che volesse governare con assoluto imperio il tacere della costituzione
che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò
che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere
mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne
contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi
le province non quietavano, e che massimamente le Calabrie, secondo
il solito, imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per
provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente
eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato,
era obbligato a portarle come guardia non pagata.
Narra un storico famoso che Giovacchino, come soldato, comportava ogni
cosa ai soldati, e ne nasceva una licenza militare insopportabile.
«Seguitava anche questo effetto, che il solo puntello che avesse alla
sua potenza, erano i soldati e che nessuna radice aveva nell'opinione
dei popoli. Le insolenze soldatesche moltiplicavano. Non solo ogni
volontà, ma ogni capriccio d'un capo di reggimento, anzi di un
ufficiale qualunque, dovevano essere obbediti come se fossero leggi:
chi anzi si lamentava era mal concio, e per poco dichiarato nemico
del re. Molto e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze
dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori.
Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando proiezione
ed ammenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si
notava come gran caso che chi si era lagnato non fosse mandato per
la peggiore. Nascevano nelle provincie un tacere sdegnoso ed una
sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si
trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa, che attendeva
alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nessuna
quiete, nessun ordine poteva essere pei cittadini, nè nel silenzio
della notte nè nelle feste del giorno, perchè, solo che un ufficiale
della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minaccie
ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni
cosa. I mandatarii dei magistrati civili, che si attentavano di
frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati,
scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli che arrestati, per
aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti
sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, fatti
segno d'ogni vituperio.» Niega un annalista che la scontentezza dei
popoli dalla licenza, che Giovacchino accordava ai soldati, sorgesse.»
Una severa disciplina, dice egli, una cieca subordinazione trionfava
nei reggimenti napolitani, ai quali non devesi addebitare un qualche
eccesso commesso nella guerra, che civile ardeva nella Calabrie.» Ma
noi, che in quel torno di tempo avemmo a visitare quelle contrade
possiamo asserire che, tollerante o no il re, la licenza della
soldatesca era molta, e molto se ne risentivano le popolazioni.
Comunque di ciò sia, i mali umori prodotti da tutte queste cause davano
speranza alla corte di Palermo che le sue sorti potessero risorgere
nel regno di qua del Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle
Calabrie, nè gli Abbruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti
e varii fini: alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino e
che avevan combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando;
altri amatori della repubblica. Tacciasi di coloro, e non erano pochi,
che solo per amor del sacco e del sangue avevano l'armi in mano.
Non sarà forse narrazione incresciosa a chi leggerà questi annali, se
si racconterà come e per qual cagione la setta dei Carbonari a questi
tempi nascesse; quella setta che negli anni più a noi vicini tanti