Annali d'Italia, vol. 8 - 76
le chiavi della fedel Milano; i cuori averseli già da lungo tempo
acquistati. Rispose, servassero le chiavi; credere amarlo i Milanesi,
credessero lui amarli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente
una foltissima calca di popolo, al duomo, il cardinal Caprara
arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto,
fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran
sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio
e Carlo, acciocchè a lui ed a tutta la sua famiglia salute piena e
contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il
palazzo dei duchi ornato a festa e tutto esultante per l'acquistata
grandezza accoglieva il novello re.
Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano
a trovare i deputati dell'italiche e dell'estere città. Vennevi
Lucchesini portatore dei prussiani onori: recava da parte del re
Federico l'aquila nera e l'aquila rossa a Napoleone; fregiatosene
il sire, compariva con esse al cospetto de' suoi schierati soldati.
Vennevi Cetto, inviato di Baviera; Beust, inviato dell'arcicancelliere
dell'impero germanico; Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato
dall'ordine di Malta: mandovvi il montagnoso Vallese il landmanno
Augustini; mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un
Contenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio
Fossombroni: tutti venivano ad onoranza ed a raccomandazione appresso
al potente e temuto signore.
Maggior materia era sotto i deputati della ligure repubblica. Aveva
mandato il senato genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo,
Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue,
Scassi, senatori. A loro maggiori carezze e più squisiti onori si
facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi ed il cardinale Caprara
a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime
gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva
dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinarii
ai senatori. Il signore stesso sempre li guardava con viso benigno,
e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto
festeggiare non erano i liguri legati la minor parte della comune
allegrezza. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto.
Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio
della prediletta Liguria instaurasse supplicarono. Rispose umanamente,
conoscere l'amore dei Liguri; sapere aver soccorso gli eserciti
di Francia in tempi difficili; non isfuggirgli le angustie loro;
prenderebbe la spada, e li difenderebbe; conoscere l'affezione del
doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i liguri senatori:
andrebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'andrebbe. Dopo
l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice e da Elisa
principessa, sorella di Napoleone, sposata ad un Bacciocchi, creato
principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai liguri legati nella
napoleonica corte.
Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano
trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica 26 di
maggio, essendo il tempo bello ed il sole lucidissimo, s'incoronava
il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti
ricchissimi: ambe risplendevano di diamanti. Seguitava Napoleone,
portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro
e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi
scudieri sostenevano lo strascico, indosso. L'accompagnavano uscieri,
araldi, paggi, aiutanti, mastri di cerimonie ordinarii, mastro
grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame
ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con
gli onori di Carlo Magno, di Italia e dell'impero procedevano i grandi
ufficiali di Francia e d'Italia, ed i presidenti dei tre collegi
elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la
risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo
e rispettoso in viso, col baldacchino e col clero accostarsi al
signore, e sino al santuario accompagnarlo. Sedè Napoleone sul trono,
il cardinale benediceva gli ornamenti regi. Saliva il re all'altare,
e presasi la corona, ed in capo postalasi, disse queste parole: _Dio
me la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre
risuonavano di grida unanimi di allegrezza. Incoronato, givasi a
sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata.
I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano.
Le dame specialmente, in acconce gallerie sedute, facevano bellissima
mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio, vicerè, figliuolo
adottivo. A lui, siccome a quello a cui doveva restare la suprema
autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e
speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge ed i senatori
liguri: stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime;
Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna rispondevano. Le volle,
le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con
cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano.
Grande, magnifica e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della
superba Milano. Cantossi la solenne messa; giurò Napoleone: ad alta
voce gridossi dagli araldi: «Napoleone I, imperatore dei Franzesi e re
d'Italia è incoronato, consecrato e intronizzato; viva l'imperatore e
re.» Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni
tre volte. Terminata la incoronazione, andò il solenne corteggio a
cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta
festeggiava; fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si
trassero, un pallone areostatico andava al cielo: in ogni parte canti,
suoni, balli, tripudii, allegrezze. A veder tante pompe, si facevano
concetti d'eternità: già gli statuali si adagiavano giocondamente sui
seggi loro.
Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge ed
i liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un gran
fatto si tramava. Sollevavasi a cose nuove la travagliata Liguria. Vi
si spargevano prima parole, poi aperti discorsi, intorno alla necessità
dell'unione con Francia. Allegavasi da uomini prezzolati nelle liguri
provincie, allora essere stata perduta l'independenza quando fu fatta
la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi e
reggimenti diversi Genova serva; aver lo Stato più pesi che portar
possa da sè; poterli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi
invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste
testimonianze aver dato i forastieri venuti quali come amici, quali
come alleati; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderni
desiderii, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate
le sorti d'Europa; preponderare oltremodo la Francia; già abbracciare
e stringere da ogni parte, pel Piemonte unito e per l'italico regno
obbediente, l'esile Liguria: che starsi a fare; che non si domandava
l'unione a Francia? Giacchè non si può più comandare da sè, savio
consiglio essere il comandare con altrui; le umili genovesi insegne non
rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne africane,
rispettarsi le franzesi, i napoleonici segni avere a render sicuri i
liguri navili: così una sola deliberazione politica esser per fare ciò
che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole
si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti
al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con
Francia, supplicava il senato, Napoleone la decretasse.
Avendo le arti sortito l'effetto loro, comparivano al cospetto
dell'imperatore in Milano, il dì 4 di giugno, i liguri legati. Girolamo
Durazzo doge, tutto pallido e sgomentato, orava in umili parole;
le quali dette, e porti i suffragii del ligure popolo al signore,
rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle
faccende dei Liguri; a buon fine sempre averle indirizzate; essersi
accorto che per loro era impossibile che qualche cosa degna dei padri
loro facessero; l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti,
infestar i mari, visitar le navi; le africane rapine andare ognora più
discendo; essere servitù nell'independenza ligure; essere necessità ai
Liguri di unirsi a un popolo potente; adempirebbe i loro desiderii, gli
unirebbe al suo gran popolo volontieri, memore dei servigii prestati;
tornassero nella loro patria; visiterebbeli fra breve, suggellerebbe la
felice unione in Genova.
Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente
per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono
la repubblica, che chiuso è il mare dai barbari, la terra dalle
dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo
impero unisse. Seguitavano le condizioni; si soddisfacesse dallo
Stato ai creditori liguri come a quei di Francia; si conservasse il
porto franco di Genova; nell'accatastare, si avesse riguardo alla
sterilità delle terre liguri ed al caro delle opere; si togliessero
le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero
i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazii
sugl'introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della
Liguria ne sentissero beneficio; le cause sì civili che criminali
si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini
dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e
sicuri nel possesso e nella piena proprietà di loro.
Napoleone, desiderando mitigare la acerbità del fatto con un uomo
di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun,
arcitesoriere dell'impero, perchè lo Stato nuovo ordinasse a seconda
delle leggi franzesi.
Restava che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava
Napoleone il dì 30 di giugno a Genova. Tutta la città si muoveva per
vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavalleria a Campo
Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le
fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi
traeva alle ambizioni, si componeva nei sembianti; le genovesi donne
attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del
popolo, chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Michel
Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, s'appresentava con le
chiavi: Genova, superba per sito, essere ora superba per destino,
disse: darsi ad un eroe; avere gelosamente e per molti secoli custodito
la sua libertà; dì ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi
della città regina in mano di colui rimettendo che, savio e potente
più d'ogni altro, valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose
benignamente; restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla
soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo
l'incensava. Luigi Corvetto, presidente del consiglio generale,
venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il
buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in
mezzo a' suoi figliuoli; dimenticare il genovese popolo le passate
calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dell'amore
dell'imperadore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi;
per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più
dolci; non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro; eroe,
sovrano e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione,
dell'amore e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio e di Bartolammeo
Boccardi, uomo di non mediocre ingegno e stato sempre dedito alla parte
franzese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria,
chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare
l'antica cesarea divisa in quest'altra: _venni, vidi, felicitai_.
Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consigliere
di Stato. Bene ne occorse ai Liguri che, perduto l'antico nome,
trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente
li consigliava, e chi utilmente presso il signore gli avvocava, non
a sdegni e ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma
solamente al benefizio de' suoi compatriotti riguardando.
Alloggiava Napoleone al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente
preparato. Terminati i complimenti, si veniva alle feste. Incominciossi
dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio che di Nettuno o Panteon
marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però
che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante
suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni
galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine
ionico il sostentavano, le immagini de' marini dei l'adornavano. Sulle
due facce interna ed esterna della cupola si leggeva un'inscrizione,
parto del pad. Solari, la quale significava, i Liguri augurare a
Napoleone imperadore e re lo impero del mare, come già si aveva quello
della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio; sopra di lei,
condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone i circostanti
festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro
giardini chinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, rinfrescati
da zampilli d'acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più
colori ed ornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto
dal continuo aggirarsi della macchina, con dolce concerto tintinnavano
continuamente, giravano con morbide giravolte, ora qua ora là a
galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti,
schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate
facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche
e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento
agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o
vogliam dire gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte
di mare, due da ciascuna con velocità meravigliosa contesero della
vittoria; vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le
grida festose montavano al cielo. Fecesi notte intanto: diventò più
bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del
galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese, gittavano
sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore li rimandavano,
raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini,
anch'esse illuminate, consentivano con la sopravanzante luce del
tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio,
si volteggiavano intorno al tempio ed ai quattro giardini chinesi. Le
agili barchette, posti fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire
giri, guizzi e baleni, che con la piena luce del tempio e delle
isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle
spiaggie di lontano mirava, l'oscurità della notte con l'immagine
d'innumerevoli e vaganti stelle temperavano. Alla dolce vista
consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle chinesi isolette
uscivano suoni e concerti giocondissimi, mandati fuori dai petti e
dagli appositi strumenti di musici vestiti alla chinese. Al tempo
stesso le mura della città risplendevano per un'immensa luminaria; i
palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi a festa: tutto
l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva
ai marini splendori. La torre della lanterna, accesasi ad un tratto da
innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a sè gli occhi dei
festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe
la maraviglia, che ben tosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa
di vulcano, come se veramente vulcano fosse. Nè i fuochi artificiati
furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due
bellissimi templi di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte
dei moli, ed altri fuochi, con mirabile artifizio apprestati, ora si
tuffavano nelle acque, ed ora, più vivi che prima fossero, ne uscivano.
Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare
nasceva una scena, a cui niuna può essere pari in dolcezza ed in
grandezza.
Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera:
poi, sceso dal marino tempio, se ne giva al magnifico palazzo di
Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori. Diessi un festino
sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico. Intervennero Giuseppina
di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa. Cantossi l'inno
ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle
parole dell'imperatore l'arcivescovo ed i vescovi. Poi dispensò le
insegne della Legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia,
Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioie
Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile. Comandò che si restituisse la
statua di Andrea Do- ria, atterrata dai giacobini. Contento indi se ne
tornava Napoleone al suo imperiale Parigi.
Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale,
temperatamente, secondo la natura sua procedendo, diede norma allo
Stato nuovo riducendolo alla forma di Francia. Ordinò con prediletto
pensiero l'università degli studii; vedeva i professori volontieri:
tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva lo zelo in chi
ammaestrava ed in chi era ammaestrato; l'università genovese diventò
fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini
franzesi e l'unione alla Francia: finalmente, orando Regnault di
San Giovanni di Angely, decretava, il dì 4 ottobre, il senato che i
territorii genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo
modo finì uno dei più antichi Stati, nonchè d'Italia, d'Europa.
Gl'inorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault; fra tutti fu
lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'indipendenza
di Genova (questo appunto significavano le sue parole), perchè
l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio: per la potenza
di Napoleone, tornarono in patria i Genovesi schiavi della crudele
Africa.
La repubblica di Lucca anch'essa periva. Die' primieramente Piombino
ad Elisa sorella; poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi
in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero
soldati; tassa e tributo nessuno vi si pagasse, se non per legge. Le
cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai
Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa. Andavano al
possesso il dì 8 luglio.
Avviava Napoleone Parma all'unione con Francia: le leggi franzesi
vi promulgava; già le ambizioni parmigiane si voltavano alla fonte
parigina; Moreau di Saint-Mery secondava l'imperadore piuttosto per
piacere a lui che a sè, perchè amava il comandare assai più che a
modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci
gli abitatori, dolce il comandare.
Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone e
gl'italiani Stati rovinavano, tornava nella sua romana sede il
pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali, il 16 di giugno, delle
cose fatte e delle cose sperate, molto benefizio per la religione e per
la romana Chiesa dal suo parigino viaggio promettendosi. Ordinate le
faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle che
più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi lunghe radici in
tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa Sede
e Ricci, vescovo di Pistoia. Dopo varie lettere e dichiarazioni, che
Roma non soddisfecero, nuove protestazioni di obbedienza e di fede fece
il vescovo, e le mandò al pontefice, quando, passando per Firenze,
se ne andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da
Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a
Ricci che l'abbraccierebbe volontieri, se prima volesse sottoscrivere
una dichiarazione. Ricci, stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto
gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa
e la regina nel palazzo Pitti; il pontefice gittossegli al collo,
l'abbracciava, e fattoselo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava,
della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate
le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice
un altro scritto; approvò Pio la seconda dichiarazione, affermando,
non dubitare della purezza cattolica di Ricci; e ne farebbe fede al
concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo.
Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere; il lodò nelle
allocuzioni del concistoro. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone,
trionfava anche di Ricci, due avversarii potenti, uno per la forza
dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni.
Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente
riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa.
L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia aveva sollevato
gli animi di tutti i potentati, e dato loro giusta cagione di temere
nuovi sovvertimenti e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava
e se ne rallegrava, perchè credeva che più stabile fondamento
all'ingrandimento de' suoi Stati fosse la nuova potenza di Napoleone,
che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente
si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone: era la
prima che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti
i Borboni; l'altra, che, avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva
ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia
dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente da nissuno
si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo, si pensava che non
fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul
suo imperio. Si portava opinione che i repubblicani di Francia e gli
amatori del nome borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone
si fossero risentiti e divenuti meno inclinati ad aiutarlo, quando si
venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo
da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e
che se gli desse tempo sarebbe stato, non che difficile, impossibile
a frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare, troppo
s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo
voler significare, argomentavano, quegli onori di Carlo Magno offerti
il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi quanto a Milano, questo
la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già
fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevasi
nella mente dell'imperator Alessandro alcune ragioni particolari di
tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la
principale consisteva nell'uccisione del duca d'Enghien, giovane
di sua età, e da lui specialmente conosciuto ed amato. Da questi
motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di
una nuova collegazione a difensione comune ed a conservazione degli
antichi Stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi
con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a benefizio
dell'indipendenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare,
o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era
tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a sè
stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che
pareva sovrastare al cuore stesso del suo Stato; conciossiachè avesse
Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardia
e della Normandia, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo
di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alle grosse navi
da guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le
intenzioni dell'imperatore con celere grandissimo i popoli di Francia
con profferte di danari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo
reggeva i consigli del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto,
conoscendo che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era
l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola prima
che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia
travagliava la nazione ed interrompeva i traffici. Per la qual cosa
intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici e ad ordinare una
nuova lega contro Francia. A questo fine, e già fin dal mese di aprile,
era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un
accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed
efficaci per formare una lega generale, e che, per conseguire questo
intento, adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidii
d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre o costringere il governo di
Francia alla pace e ad una condizione in Europa, in cui nissuno Stato
preponderasse sopra gli altri: evacuasse Napoleone l'Annoverese e la
settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera,
restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento il territorio,
desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa
l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega.
Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora
qualche modo di questa composizione vi fosse, e sì per aver comodità
di fare i necessarii apprestamenti e di dar tempo agli aiuti di Russia
di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone
di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo
conforme l'imperator Napoleone sollecitasse.
Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando
sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia,
accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone ed agl'interessi
dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia
Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperadore Alessandro il fatto,
era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente,
e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente
si congiungeva con la Russia.
Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre, e dai
discorsi si vedeva che poca speranza restava di pace: nè Napoleone
era uomo capace di disfare per minaccie ciò che aveva fatto, nè
l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo
che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti,
ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente
ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia,
di pace con tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti
d'Italia il trattato di Luneville, promettitore d'indipendenza per
l'italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti
spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto
di regolare da sè gli interessi delle nazioni con esclusione delle
altre; richiedere la Francia dell'osservazion dei patti; richiederla
della dignità e dei diritti dell'altre potenze; offerire a norma delle
condizioni stipulate alla concordia, offerirla ora che con le armi
ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre
essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi e l'independenza
delle nazioni.
Seguitarono queste protestazioni altri discorsi da ambe le parti.
Intanto le armi si apprestavano. L'imperadore di Francia, che con
la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro
di lui e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto
della Prussia, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste
di Francia verso l'Inghilterra marciasse in Alemagna, soccorresse alla
Baviera minacciata dalla Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco
dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi
d'Alemagna, sapendo quanto mole della guerra fossero il suo nome ed il
suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando,
giovane animosissimo, l'esercito germanico, dandogli per moderatore
della sua gioventù il generale Mack.
Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le
seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere
il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito italico,
acquistati. Rispose, servassero le chiavi; credere amarlo i Milanesi,
credessero lui amarli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente
una foltissima calca di popolo, al duomo, il cardinal Caprara
arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto,
fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran
sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio
e Carlo, acciocchè a lui ed a tutta la sua famiglia salute piena e
contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il
palazzo dei duchi ornato a festa e tutto esultante per l'acquistata
grandezza accoglieva il novello re.
Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano
a trovare i deputati dell'italiche e dell'estere città. Vennevi
Lucchesini portatore dei prussiani onori: recava da parte del re
Federico l'aquila nera e l'aquila rossa a Napoleone; fregiatosene
il sire, compariva con esse al cospetto de' suoi schierati soldati.
Vennevi Cetto, inviato di Baviera; Beust, inviato dell'arcicancelliere
dell'impero germanico; Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato
dall'ordine di Malta: mandovvi il montagnoso Vallese il landmanno
Augustini; mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un
Contenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio
Fossombroni: tutti venivano ad onoranza ed a raccomandazione appresso
al potente e temuto signore.
Maggior materia era sotto i deputati della ligure repubblica. Aveva
mandato il senato genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo,
Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue,
Scassi, senatori. A loro maggiori carezze e più squisiti onori si
facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi ed il cardinale Caprara
a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime
gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva
dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinarii
ai senatori. Il signore stesso sempre li guardava con viso benigno,
e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto
festeggiare non erano i liguri legati la minor parte della comune
allegrezza. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto.
Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio
della prediletta Liguria instaurasse supplicarono. Rispose umanamente,
conoscere l'amore dei Liguri; sapere aver soccorso gli eserciti
di Francia in tempi difficili; non isfuggirgli le angustie loro;
prenderebbe la spada, e li difenderebbe; conoscere l'affezione del
doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i liguri senatori:
andrebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'andrebbe. Dopo
l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice e da Elisa
principessa, sorella di Napoleone, sposata ad un Bacciocchi, creato
principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai liguri legati nella
napoleonica corte.
Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano
trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica 26 di
maggio, essendo il tempo bello ed il sole lucidissimo, s'incoronava
il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti
ricchissimi: ambe risplendevano di diamanti. Seguitava Napoleone,
portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro
e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi
scudieri sostenevano lo strascico, indosso. L'accompagnavano uscieri,
araldi, paggi, aiutanti, mastri di cerimonie ordinarii, mastro
grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame
ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con
gli onori di Carlo Magno, di Italia e dell'impero procedevano i grandi
ufficiali di Francia e d'Italia, ed i presidenti dei tre collegi
elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la
risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo
e rispettoso in viso, col baldacchino e col clero accostarsi al
signore, e sino al santuario accompagnarlo. Sedè Napoleone sul trono,
il cardinale benediceva gli ornamenti regi. Saliva il re all'altare,
e presasi la corona, ed in capo postalasi, disse queste parole: _Dio
me la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre
risuonavano di grida unanimi di allegrezza. Incoronato, givasi a
sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata.
I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano.
Le dame specialmente, in acconce gallerie sedute, facevano bellissima
mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio, vicerè, figliuolo
adottivo. A lui, siccome a quello a cui doveva restare la suprema
autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e
speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge ed i senatori
liguri: stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime;
Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna rispondevano. Le volle,
le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con
cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano.
Grande, magnifica e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della
superba Milano. Cantossi la solenne messa; giurò Napoleone: ad alta
voce gridossi dagli araldi: «Napoleone I, imperatore dei Franzesi e re
d'Italia è incoronato, consecrato e intronizzato; viva l'imperatore e
re.» Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni
tre volte. Terminata la incoronazione, andò il solenne corteggio a
cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta
festeggiava; fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si
trassero, un pallone areostatico andava al cielo: in ogni parte canti,
suoni, balli, tripudii, allegrezze. A veder tante pompe, si facevano
concetti d'eternità: già gli statuali si adagiavano giocondamente sui
seggi loro.
Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge ed
i liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un gran
fatto si tramava. Sollevavasi a cose nuove la travagliata Liguria. Vi
si spargevano prima parole, poi aperti discorsi, intorno alla necessità
dell'unione con Francia. Allegavasi da uomini prezzolati nelle liguri
provincie, allora essere stata perduta l'independenza quando fu fatta
la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi e
reggimenti diversi Genova serva; aver lo Stato più pesi che portar
possa da sè; poterli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi
invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste
testimonianze aver dato i forastieri venuti quali come amici, quali
come alleati; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderni
desiderii, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate
le sorti d'Europa; preponderare oltremodo la Francia; già abbracciare
e stringere da ogni parte, pel Piemonte unito e per l'italico regno
obbediente, l'esile Liguria: che starsi a fare; che non si domandava
l'unione a Francia? Giacchè non si può più comandare da sè, savio
consiglio essere il comandare con altrui; le umili genovesi insegne non
rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne africane,
rispettarsi le franzesi, i napoleonici segni avere a render sicuri i
liguri navili: così una sola deliberazione politica esser per fare ciò
che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole
si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti
al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con
Francia, supplicava il senato, Napoleone la decretasse.
Avendo le arti sortito l'effetto loro, comparivano al cospetto
dell'imperatore in Milano, il dì 4 di giugno, i liguri legati. Girolamo
Durazzo doge, tutto pallido e sgomentato, orava in umili parole;
le quali dette, e porti i suffragii del ligure popolo al signore,
rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle
faccende dei Liguri; a buon fine sempre averle indirizzate; essersi
accorto che per loro era impossibile che qualche cosa degna dei padri
loro facessero; l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti,
infestar i mari, visitar le navi; le africane rapine andare ognora più
discendo; essere servitù nell'independenza ligure; essere necessità ai
Liguri di unirsi a un popolo potente; adempirebbe i loro desiderii, gli
unirebbe al suo gran popolo volontieri, memore dei servigii prestati;
tornassero nella loro patria; visiterebbeli fra breve, suggellerebbe la
felice unione in Genova.
Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente
per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono
la repubblica, che chiuso è il mare dai barbari, la terra dalle
dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo
impero unisse. Seguitavano le condizioni; si soddisfacesse dallo
Stato ai creditori liguri come a quei di Francia; si conservasse il
porto franco di Genova; nell'accatastare, si avesse riguardo alla
sterilità delle terre liguri ed al caro delle opere; si togliessero
le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero
i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazii
sugl'introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della
Liguria ne sentissero beneficio; le cause sì civili che criminali
si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini
dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e
sicuri nel possesso e nella piena proprietà di loro.
Napoleone, desiderando mitigare la acerbità del fatto con un uomo
di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun,
arcitesoriere dell'impero, perchè lo Stato nuovo ordinasse a seconda
delle leggi franzesi.
Restava che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava
Napoleone il dì 30 di giugno a Genova. Tutta la città si muoveva per
vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavalleria a Campo
Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le
fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi
traeva alle ambizioni, si componeva nei sembianti; le genovesi donne
attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del
popolo, chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Michel
Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, s'appresentava con le
chiavi: Genova, superba per sito, essere ora superba per destino,
disse: darsi ad un eroe; avere gelosamente e per molti secoli custodito
la sua libertà; dì ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi
della città regina in mano di colui rimettendo che, savio e potente
più d'ogni altro, valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose
benignamente; restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla
soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo
l'incensava. Luigi Corvetto, presidente del consiglio generale,
venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il
buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in
mezzo a' suoi figliuoli; dimenticare il genovese popolo le passate
calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dell'amore
dell'imperadore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi;
per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più
dolci; non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro; eroe,
sovrano e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione,
dell'amore e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio e di Bartolammeo
Boccardi, uomo di non mediocre ingegno e stato sempre dedito alla parte
franzese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria,
chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare
l'antica cesarea divisa in quest'altra: _venni, vidi, felicitai_.
Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consigliere
di Stato. Bene ne occorse ai Liguri che, perduto l'antico nome,
trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente
li consigliava, e chi utilmente presso il signore gli avvocava, non
a sdegni e ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma
solamente al benefizio de' suoi compatriotti riguardando.
Alloggiava Napoleone al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente
preparato. Terminati i complimenti, si veniva alle feste. Incominciossi
dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio che di Nettuno o Panteon
marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però
che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante
suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni
galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine
ionico il sostentavano, le immagini de' marini dei l'adornavano. Sulle
due facce interna ed esterna della cupola si leggeva un'inscrizione,
parto del pad. Solari, la quale significava, i Liguri augurare a
Napoleone imperadore e re lo impero del mare, come già si aveva quello
della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio; sopra di lei,
condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone i circostanti
festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro
giardini chinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, rinfrescati
da zampilli d'acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più
colori ed ornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto
dal continuo aggirarsi della macchina, con dolce concerto tintinnavano
continuamente, giravano con morbide giravolte, ora qua ora là a
galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti,
schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate
facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche
e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento
agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o
vogliam dire gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte
di mare, due da ciascuna con velocità meravigliosa contesero della
vittoria; vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le
grida festose montavano al cielo. Fecesi notte intanto: diventò più
bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del
galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese, gittavano
sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore li rimandavano,
raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini,
anch'esse illuminate, consentivano con la sopravanzante luce del
tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio,
si volteggiavano intorno al tempio ed ai quattro giardini chinesi. Le
agili barchette, posti fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire
giri, guizzi e baleni, che con la piena luce del tempio e delle
isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle
spiaggie di lontano mirava, l'oscurità della notte con l'immagine
d'innumerevoli e vaganti stelle temperavano. Alla dolce vista
consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle chinesi isolette
uscivano suoni e concerti giocondissimi, mandati fuori dai petti e
dagli appositi strumenti di musici vestiti alla chinese. Al tempo
stesso le mura della città risplendevano per un'immensa luminaria; i
palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi a festa: tutto
l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva
ai marini splendori. La torre della lanterna, accesasi ad un tratto da
innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a sè gli occhi dei
festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe
la maraviglia, che ben tosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa
di vulcano, come se veramente vulcano fosse. Nè i fuochi artificiati
furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due
bellissimi templi di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte
dei moli, ed altri fuochi, con mirabile artifizio apprestati, ora si
tuffavano nelle acque, ed ora, più vivi che prima fossero, ne uscivano.
Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare
nasceva una scena, a cui niuna può essere pari in dolcezza ed in
grandezza.
Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera:
poi, sceso dal marino tempio, se ne giva al magnifico palazzo di
Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori. Diessi un festino
sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico. Intervennero Giuseppina
di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa. Cantossi l'inno
ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle
parole dell'imperatore l'arcivescovo ed i vescovi. Poi dispensò le
insegne della Legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia,
Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioie
Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile. Comandò che si restituisse la
statua di Andrea Do- ria, atterrata dai giacobini. Contento indi se ne
tornava Napoleone al suo imperiale Parigi.
Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale,
temperatamente, secondo la natura sua procedendo, diede norma allo
Stato nuovo riducendolo alla forma di Francia. Ordinò con prediletto
pensiero l'università degli studii; vedeva i professori volontieri:
tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva lo zelo in chi
ammaestrava ed in chi era ammaestrato; l'università genovese diventò
fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini
franzesi e l'unione alla Francia: finalmente, orando Regnault di
San Giovanni di Angely, decretava, il dì 4 ottobre, il senato che i
territorii genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo
modo finì uno dei più antichi Stati, nonchè d'Italia, d'Europa.
Gl'inorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault; fra tutti fu
lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'indipendenza
di Genova (questo appunto significavano le sue parole), perchè
l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio: per la potenza
di Napoleone, tornarono in patria i Genovesi schiavi della crudele
Africa.
La repubblica di Lucca anch'essa periva. Die' primieramente Piombino
ad Elisa sorella; poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi
in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero
soldati; tassa e tributo nessuno vi si pagasse, se non per legge. Le
cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai
Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa. Andavano al
possesso il dì 8 luglio.
Avviava Napoleone Parma all'unione con Francia: le leggi franzesi
vi promulgava; già le ambizioni parmigiane si voltavano alla fonte
parigina; Moreau di Saint-Mery secondava l'imperadore piuttosto per
piacere a lui che a sè, perchè amava il comandare assai più che a
modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci
gli abitatori, dolce il comandare.
Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone e
gl'italiani Stati rovinavano, tornava nella sua romana sede il
pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali, il 16 di giugno, delle
cose fatte e delle cose sperate, molto benefizio per la religione e per
la romana Chiesa dal suo parigino viaggio promettendosi. Ordinate le
faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle che
più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi lunghe radici in
tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa Sede
e Ricci, vescovo di Pistoia. Dopo varie lettere e dichiarazioni, che
Roma non soddisfecero, nuove protestazioni di obbedienza e di fede fece
il vescovo, e le mandò al pontefice, quando, passando per Firenze,
se ne andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da
Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a
Ricci che l'abbraccierebbe volontieri, se prima volesse sottoscrivere
una dichiarazione. Ricci, stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto
gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa
e la regina nel palazzo Pitti; il pontefice gittossegli al collo,
l'abbracciava, e fattoselo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava,
della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate
le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice
un altro scritto; approvò Pio la seconda dichiarazione, affermando,
non dubitare della purezza cattolica di Ricci; e ne farebbe fede al
concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo.
Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere; il lodò nelle
allocuzioni del concistoro. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone,
trionfava anche di Ricci, due avversarii potenti, uno per la forza
dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni.
Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente
riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa.
L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia aveva sollevato
gli animi di tutti i potentati, e dato loro giusta cagione di temere
nuovi sovvertimenti e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava
e se ne rallegrava, perchè credeva che più stabile fondamento
all'ingrandimento de' suoi Stati fosse la nuova potenza di Napoleone,
che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente
si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone: era la
prima che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti
i Borboni; l'altra, che, avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva
ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia
dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente da nissuno
si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo, si pensava che non
fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul
suo imperio. Si portava opinione che i repubblicani di Francia e gli
amatori del nome borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone
si fossero risentiti e divenuti meno inclinati ad aiutarlo, quando si
venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo
da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e
che se gli desse tempo sarebbe stato, non che difficile, impossibile
a frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare, troppo
s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo
voler significare, argomentavano, quegli onori di Carlo Magno offerti
il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi quanto a Milano, questo
la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già
fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevasi
nella mente dell'imperator Alessandro alcune ragioni particolari di
tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la
principale consisteva nell'uccisione del duca d'Enghien, giovane
di sua età, e da lui specialmente conosciuto ed amato. Da questi
motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di
una nuova collegazione a difensione comune ed a conservazione degli
antichi Stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi
con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a benefizio
dell'indipendenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare,
o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era
tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a sè
stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che
pareva sovrastare al cuore stesso del suo Stato; conciossiachè avesse
Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardia
e della Normandia, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo
di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alle grosse navi
da guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le
intenzioni dell'imperatore con celere grandissimo i popoli di Francia
con profferte di danari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo
reggeva i consigli del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto,
conoscendo che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era
l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola prima
che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia
travagliava la nazione ed interrompeva i traffici. Per la qual cosa
intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici e ad ordinare una
nuova lega contro Francia. A questo fine, e già fin dal mese di aprile,
era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un
accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed
efficaci per formare una lega generale, e che, per conseguire questo
intento, adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidii
d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre o costringere il governo di
Francia alla pace e ad una condizione in Europa, in cui nissuno Stato
preponderasse sopra gli altri: evacuasse Napoleone l'Annoverese e la
settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera,
restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento il territorio,
desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa
l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega.
Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora
qualche modo di questa composizione vi fosse, e sì per aver comodità
di fare i necessarii apprestamenti e di dar tempo agli aiuti di Russia
di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone
di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo
conforme l'imperator Napoleone sollecitasse.
Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando
sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia,
accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone ed agl'interessi
dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia
Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperadore Alessandro il fatto,
era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente,
e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente
si congiungeva con la Russia.
Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre, e dai
discorsi si vedeva che poca speranza restava di pace: nè Napoleone
era uomo capace di disfare per minaccie ciò che aveva fatto, nè
l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo
che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti,
ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente
ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia,
di pace con tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti
d'Italia il trattato di Luneville, promettitore d'indipendenza per
l'italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti
spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto
di regolare da sè gli interessi delle nazioni con esclusione delle
altre; richiedere la Francia dell'osservazion dei patti; richiederla
della dignità e dei diritti dell'altre potenze; offerire a norma delle
condizioni stipulate alla concordia, offerirla ora che con le armi
ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre
essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi e l'independenza
delle nazioni.
Seguitarono queste protestazioni altri discorsi da ambe le parti.
Intanto le armi si apprestavano. L'imperadore di Francia, che con
la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro
di lui e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto
della Prussia, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste
di Francia verso l'Inghilterra marciasse in Alemagna, soccorresse alla
Baviera minacciata dalla Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco
dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi
d'Alemagna, sapendo quanto mole della guerra fossero il suo nome ed il
suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando,
giovane animosissimo, l'esercito germanico, dandogli per moderatore
della sua gioventù il generale Mack.
Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le
seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere
il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito italico,
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 8 - 01
- Annali d'Italia, vol. 8 - 02
- Annali d'Italia, vol. 8 - 03
- Annali d'Italia, vol. 8 - 04
- Annali d'Italia, vol. 8 - 05
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 07
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 14
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