Annali d'Italia, vol. 8 - 75

corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse, e
certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo stomaco
recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli che nei sani s'accendeva
il mortale morbo, perciocchè si vedevano spesso giovani gagliardi
passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo tempo
in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del morbo,
tre particolarmente notandosene: in sul primo, poco aveva che dalle
solite ardenti febbri il differenziasse; l'insulto primo accompagnava
un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla regione dei
lombi; doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed alla fronte
che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle giunture; gli
occhi accesi e come pieni di sangue, duri e presti i polsi; la pelle
ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del benefizio del
ventre o delle orine. Augurio funesto erano principalmente un molesto
senso alla forcella dello stomaco ed una inclinazione al vomitare.
Questo primo tempo concludeva una grande insidia, per modo che quando
più pareva al malato, ai parenti ed agli amici vicina la guarnigione,
più vicina era la morte. Tutto il mortifero apparato s'attutiva ad
un tratto, e, cessata la lebbre, se un leggiero sudore ed una somma
debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il corpo, ed a perfetta
salute inclinante. Ma ecco improvvisamente e dopo il breve spazio di
poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la molestia della
bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla regione del
ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare queste
parti, ancorchè leggerissimo fosse, era a modo alcuno sopportabile
all'ammalato. Abboriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli occhi rossi,
gialli si facevano: gialle ancora le orine, e giallo il corpo; la
faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore vestivano. Lo
stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè leggerissima
fosse; ovvero pretta bile o bile mista a vermini buttava.
A questo si aggiungevano oppressione ai precordii, sospiri frequenti,
purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi e come color di cenere. Nè
regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male, perchè i
polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli,
ora spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che
se insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando
la prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se
chi era per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si
conservava la mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più
vicino a morte, in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano
non più di muchi o di bile, ma di materia nera, fetidissima, come di
sangue putrefatto e marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia,
dalle gengive e dalle fauci questo nero sangue; e così ancora dalle
narici e dal fondamento dell'utero copiosamente usciva: ogni cosa si
volgeva a putredine ed a mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie
nere a guisa di piccoli punti, o larghi lividori a guisa di pesche,
massimamente in quei luoghi a cui si appoggiava il corpo. Facevano
la bocca disforme ed orrida, le labbra turgidissime e nere; gli occhi
lagrimosi e tristi ogni vivo lume perdevano; quindi il delirio od il
letargo fra le convulsioni ed un mortale freddo di membra la vita
troncavano. Chi moriva nel primo, chi nel secondo, chi nel terzo
tempo. Ma quando prima la malattia invase, più morivano nel primo che
nell'ultimo; più nell'ultimo che nel primo, ma non molti, quando già
trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per l'abitudine dei corpi,
o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era stata ammansita la
ferocia del funesto influsso. Pessimi presagii erano la violenza della
prima febbre, i dolori acutissimi delle membra, massime al petto,
l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il vomito pertinace e
nero, il comparire sulle prime il giallore; il chiudersi la via delle
orine, il singhiozzo: ottimi, la moderata febbre, il vomito raro e
mucoso senza putridume, il giallore tardo, la traspirazione libera,
il corpo lubrico, ma di bile, non di sangue, e il non tremare e il
non prostrarsi. Per le orine trovava per l'ordinario via la natura
a discacciare il veleno mortifero; imperciocchè, quando copiose ed
intensamente gialle fluivano, annunziavano l'esito felice. Ma non
una era la maniera del guarire; conciossiachè si è veduto l'uscire
improvvisamente e copiosamente sangue dalla bocca e dalle narici
chiamare inaspettatamente a vita chi già pareva preda d'inevitabil
morte. Furono viste femmine guarite dal correre improvviso di
mestrui abbondanti; fu visto lo sconciarsi della concetta creatura
ed il copioso versarsi del sangue, che ne conseguitava, redimere la
sofferente madre dalla fine imminente. Crudo era il male e nimicissimo
alla vita; funeste vestigia, anche già quando se n'era ito, nei
corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le convalescenze;
chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi, spaventato da
funeste fantasime, passava malinconici i giorni, spaventose le notti,
miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed orrida
contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate alterazioni,
insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio l'acqua, come
se da cane arrabbiato morso fosse; a quello la vista si pervertiva,
o doppio o più grande del solito vedendo; a quest'altro gonfiavano
straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine piene di
umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli orecchi.
Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei luoghi
dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorii una linfa
intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad altro,
la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle delle
toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava. Più
feroce infierì il male contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che
prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni.
L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo
del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare ed il trascorrere nei
cibi cagionavano e più certa malattia e più certa morte.
Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati
cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta
bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero
e fetido che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor
esso e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si
trovava il ventricolo, roso, oltre a ciò, da serpeggiante cancrena,
e rosi gl'intestini; la rete, chiamata dai medici omento, rosa del
tutto, mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse.
Un fluido rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo
torace ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i
polmoni, cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido
ed infiammato il setto traverso; livida e di corrotto sangue piena la
milza; livido, molle, putredinoso e di colore come se cotto fosse, il
fegato, sul quale, e così sul ventricolo, pareva essersi specialmente
scagliata con tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma,
o putridume sanguinolento, o sangue nero, o infiammazione vicina a
sfacelo, o distruzione intiera di parti in ogni luogo e nelle più
vitali viscere si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali
mortiferi effetti producesse, lungo tempo richiedevasi che anche in
coloro, i quali nel breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti,
si scorgeva che uno sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il
corpo tutto invaso ed allo stato di morte ridotto; che tale vide, tale
descrisse con singolar medica maestria questa esiziale infermità il
dottor Palloni, mandato dal toscano governo a vedere se alcun senno od
umano provvedimento contro la medesima valesse. Nè solamente i visceri
che più vicini e concorrenti all'opificio della digestione, quali sono,
per esempio, il fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segreti e più
lontani erano da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che
serve di ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva, e di striscie
sanguinose listata; il cerebro stesso, fonte principale di vita,
ed i suoi proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni
strapieni, e con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro,
alla vista si appresentavano. Corrotta era la bile, e sparsa per tutto
il corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno;
pure notati di morti frequenti anche il primo, il secondo e il terzo:
in alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo od al
decimoquarto.
Varii furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa
infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più
vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa,
buono; buono promuovere il sudore; buonissime le limonee con qualche
piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse
stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli
ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle
complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il
male, le emorragie, il vomito nero ed altri segni la incominciata
dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescicatorii la
condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati
alla regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse,
la digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio
mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, dalla quale tanta era
la efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la
venefica qualità ed il fomite stesso del male.
Dall'altro canto si vedeva che per l'aria pregna di esalazioni animali
si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente
l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo
accidente che le contrade più piene d'immondizie e meno ventilate della
città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate.
Al contrario, le contrade spaziose e le case comode, pulite, e
di aria aperta e libera, o andaronne esenti, o non peggiorovvi,
o non vi appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel
contaminato individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i
medici, i ministri di Dio immuni lasciando. La qual cosa questa
malattia dalle altre contagiose febbri, e specialmente dalla peste
di Egitto, differenzia, il cui veleno largamente e lontanamente si
appicca. Nè in contado si propagava, abbenchè continuamente infinite
persone ed infinite mercanzie da contrada a contrada, e dalla città
nei contado si trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano,
ancorchè nella vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri
la infezione, se prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non
fosse, comunicava; nè per gl'individui sani delle contaminate famiglie,
nè per gli arnesi loro, nè per le altre suppellettili delle case
giammai fuori la corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le
carte, le merci tutte in continuo giro ed in un indistinto commercio
dentro e fuori della città versavano. L'abitudine, per un mirabile
e non conosciuto artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso
gradatamente avvezzandoli, li salvava. Infatti, pel funesto male che
tanti fra la minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio,
tre soli ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri
frequentissimamente e con tutta cura agl'infettati assistessero. E
quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno,
confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva l'ospedale
di San Jacopo, il quale, quasi a riva il mare situato, ed ottimamente
a salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva;
conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi e
già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero
edificio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti
in loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli
subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu
rimedio all'inquilino morbo; perchè oltre alla purezza procurata
dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta,
la mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel toscano paese,
sovvennero agl'infermi, e per sanarli bastarono le consuete abitudini.
Nè anco in così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare
e di fuggire gl'infetti per acquistare salute: a tutti rimasero i
debiti sussidii, o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza
degli amici, o per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del
pubblico; dei quali vantaggi devono i Livornesi o ad una maggiore
civiltà o a più celesti inspirazioni restare obbligati.
Adunque se, oltre una naturale disposizione dei corpi a restare
contaminato dal morbo, abbisognavano e la vicinanza o il contatto
dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel
corso della malattia, se l'aria stagnante e chiusa e zeppa d'animali
effluvii la dava, se l'aria aperta e sfogata o l'allontanava o
l'aleggiava, se le persone sane, benchè vissute in prossimità
degl'infetti, e le merci da loro tocche, solo che al puro e ventilato
aere esposte fossero, l'infezione fuori della città non trasportavano,
e se finalmente il medesimo aere ventilato e puro il malefico
fomite presso al suo fonte stesso, cioè all'ammalato, distruggeva
ed annientava, si deduce che o l'accidente mortifero di Livorno,
quantunque avesse in sè raccolti tutti i segni di quel morbo che alcuni
febbre gialla, altri vomito nero appellano, era nondimeno molto dal
medesimo diverso, opinione non verisimile, perciocchè i segni indicano
identità di natura, o che il terrore e la mossa immaginazione l'hanno
in altri paesi fatto parere diverso da quello ch'egli è veramente,
tassandolo di contagio, quando veramente contagioso non è, a modo delle
malattie che i medici chiamano specialmente con questo nome, come, per
cagion d'esempio, la peste d'Egitto. Nè dimoreremci a dire com'egli
in Livorno stato fosse recato; perchè se il vi recasse, come corse
fama, un bastimento venuto da Vera-Crux, è incerto, siccome ancora è
incerto se da altro contagio qualunque, o se da mera disposizione del
cielo piovoso e caldo, come alcuni credono, e pare più verisimile,
ingenerato e sorto fosse. Certo è bene ch'ei fu contaminazione schifosa
ed abbominevole, e che funestò per numerose morti Livorno, spaventò le
città vicine, tenne lunga pezza dubbiosa ed atterrita l'Europa per la
fama delle provincie devastate in America. Queste cose si son volute
raccontare con quella semplicità che s'è potuto maggiore, acciocchè
la nuda verità meglio servir potesse a far conoscere, per forza di
comparazione, la natura ed i rimedii di un male che omai minaccia di
voler accrescere la soma di tutti quelli che già pur troppo affliggono
la miseranda Europa.


Anno di CRISTO MDCCCV. Indizione VIII.
PIO VII papa 6.
FRANCESCO II imperadore 14.

Pareva, e fu anche solennemente e con magnifiche parole detto da
Napoleone e da Melzi, che gli ordini statuiti in Lione per l'Italia
fossero per essere eterni; ma non erano corsi due anni, che già
manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona e durevole
fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto imperatore che
re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati invitati gli
Italici a condursi a Parigi, per cagione di assistere in nome della
repubblica alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi andarono Melzi
presidente, i consultori di Stato Marescalchi, Caprara, Paradisi,
Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardini; i deputati dei collegi e
dei magistrati, Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, Dambruschi,
Rangone, Galeppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani, Busti,
Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che il
chiamassero re, e condannassero gli ordini lionesi: disponendosi la
somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di
Napoleone, il fecero volontieri; Melzi, appresentandosegli il dì 17
marzo con gli altri deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono
nel castello delle Tuillerie, in tali accenti favellava:
«Voi ordinaste, o sire, che la consulta di Stato e i deputati della
repubblica italiana si adunassero, e l'affare il più importante
pe' suoi destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo,
considerassero. Al cospetto vostro io m'appresento, o sire, per compire
appresso a voi l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e
di quanto ella desidera. Primieramente l'assemblea, molto bene ogni
cosa considerando, venne in questa sentenza, che l'impossibile è,
se troppo non si vuole dagli accidenti dell'età nostra discordare,
le attuali forme conservare. Ebbero le lionesi constituzioni tutti i
segni di ordini provvisorii: accidentali furono, perchè agli accidenti
dei tempi fossero rispondenti, nè in sè alcun nervo avevano, per cui
gli uomini prudenti e durata e conservazione promettere si potessero.
Non che la ragione, l'evidenza stringono urgentemente a cambiarla.
La quale cosa concessa e confessata vera, come vera è realmente,
la via da seguitarsi semplice diventa e piana; i progressi delle
cognizioni, i dettami dell'esperienza, la monarchia constituzionale,
la gratitudine, l'amore, la confidenza il monarca ci additano. Voi
conquistaste, o sire, voi riconquistaste, voi creaste, voi ordinaste,
voi sino a questo dì l'italiana repubblica governaste; quivi ogni
cosa le vostre geste, la vostra mente, i vostri benefizii rammenta: un
unico desiderio poteva essere fra di noi; un unico desiderio è sorto.
Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto nelle future
cose la profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli alti e
generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi si accordino,
facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso che le condizioni nostre
tanto ancora non sono mature che possiamo aggiungere a quest'ultimo
grado della politica independenza. L'italiana repubblica, così porta
l'ordine naturale delle cose, deve ancora per qualche tempo restare
impressa della condizione degli Stati novellamente creati. Un primo
nembo, quantunque leggiero, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei
d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggior
sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, sire,
che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo
nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il
preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne e i pericoli
nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è
il desiderio nostro che a voi significhiamo, questa la preghiera che a
voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i
principii già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla
quiete delle nazioni necessarii, statuiti siano e confermati. Siate
contento, o sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere
e i desiderii dell'italica consulta. Per questa mia bocca istantemente
tutti ve ne ricercano e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci
esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete
alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'italiana nazione
congiunto. Così è, sire, voi voleste che l'italiana repubblica fosse,
ed ella fu: fate ora che l'italiana monarchia sia felice, e sarà.»
Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'italiana
consulta espresse: il governo della repubblica italiana fosse monarcale
ed ereditario; Napoleone I re d'Italia si dichiarasse; le due corone di
Francia e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o successori,
potessero esser unite: insino a tanto che gli eserciti franzesi
occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi Malta, le
due corone non si potessero separare; pregassesi Napoleone imperatore
passasse a Milano per ricevere la corona e statuire leggi definitive
pel regno.
Rispose Napoleone, aver avuto sempre il pensiero di creare libera e
independente la nazione italiana; dalle sponde del Nilo avere sentito
le italiane disgrazie; essere, mercè il coraggio invitto de' suoi
soldati, comparso a Milano, quando i suoi popoli d'Italia ancora il
credevano sulle spiaggie del mar Rosso; ancora tinto di sangue, ancora
cosperso di polvere, sua prima cura essere stata l'ordinare l'italiana
patria; chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere loro re essere, volere
questa corona conservare, ma solo fintantochè gl'interessi loro il
richiedessero; deporrebbela, quando fosse venuto il tempo, sopra un
giovane rampollo volontieri, al quale, del pari che a lui, sarebbero a
cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli italiani. Nè questa fu la
sola dimostrazione ch'ei fece in questo proposito.
Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era
uomo molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose
ancora, pruovò che per allora l'unione della corona d'Italia a quella
di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione; poi Napoleone prese
a favellare pretendendo parole di moderazione e di temperanza.
«Noi vi chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto
l'animo nostro intorno agli affari più importanti dello Stato. Potente
e forte è l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione
nostra. L'Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta
conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di
tante conquistate provincie quello solo ritenemmo che necessario era
a mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu la
Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le provincie tolte alla
Turchia, la conquista delle Indie e di quasi tutte le colonie hanno,
a pregiudizio nostro, dall'uno de' lati fatto ir giù la bilancia:
l'inutile rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani
progetti di grandezza, nè per amore di conquiste impugnammo. Grande
incremento alla fertilità delle nostre terre avrebbe recata l'unione
dei territorii dell'italiana repubblica: pure, dopo la seconda
conquista, l'independenza sua a Lione confermammo; ed oggidì, più
oltre ancora procedendo, il principio della separazione delle due
corone statuiamo, solo il tempo di lei, quando senza pericolo pei
nostri popoli d'Italia effettuare si possa, assegnando. Accettammo,
e sulla nostra fronte l'aulica corona dei Lombardi posammo: questa
rattempreremo, questa ristaureremo, questa contro ogni assalto,
finchè il Mediterraneo non sia restituito alla condizione consueta,
difenderemo, e questo primo italico statuto a poter nostro sano e salvo
conserveremo.»
Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperadrice
sua moglie, principe, poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè
d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava,
andrebbe a Milano, e la corona reale la domenica 26 di maggio
prenderebbe.
Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani, perchè
voleva far illustre questa sua gita con apparato molto magnifico
e piucchè regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta
Francia, arrivava Napoleone, il dì 20 aprile, a Stupinigi, piccola
ed amena villa dei reali di Sardegna, posta a poca distanza da
Torino. Quivi concorsero a fargli onoranza i magistrati: Menou verso
di lui umilissimo si mostrava. Vennero a trovarlo i deputati di
Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore loro, padre loro
chiamandolo. Rispose amorevolmente, gli avrebbe in luogo di figliuoli:
raccomandò loro fossero virtuosi, l'attiva vita, la patria e l'ordine
amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai giacobini. Terminò
minacciosamente, dicendo che se alcuno avesse concetto gelosia pel
regno d'Italia, avere una buona spada per disperdere i suoi nemici.
Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino: esaminata Superga,
entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il palazzo del re con
molto studio e diligenza a questo fine restituito e addobbato dal
conte Salmatoris. Correvano i popoli piemontesi a vedere l'inusitato
spettacolo. Arrivava in questo mentre papa Pio a Torino, tornando di
Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con Napoleone: stettero molte
ore ristretti insieme; Pio sperava, Napoleone lusingava, pubblicamente
stretto accordo mostravano. Visitò le pubbliche singolarità: parlò con
facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di pittura; volle
vedere la tavola d'Olimpia pinta da Revelli, pittore di nome. Lodò
l'opera, ma notò qualche difetto. Il papa festeggiato, anche da Menou
Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma.
Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione dell'armi. Volle
Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare
una sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta
d'Alessandria per Marengo con gli emblemi delle italiche, germaniche,
egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial
trono si innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto
splendida, e tirata da otto cavalli. Stavano i soldati schierati,
molti memori delle portate fatiche in questi stessi marenghiani campi:
Franzesi, Italiani, Mamelucchi, sì fanti che cavalli; s'accostavano le
guardie nazionali, tutte in abito ed in bellissimo ordine disposte;
magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore milanesi venute a
Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli uffiziali
di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi e molti generali in abiti
ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi, ripercossi
e rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti e ferri
forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di
popolo era concorsa; l'alessandrina pianura risuonava di grida festive,
di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso, venuto
sul trono e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale
cocchio e, montato a cavallo, s'aggirava per le file degli ordinati
soldati. Le grida, gli applausi, i suoni d'ogni sorta più vivi e più
spessi sorgevano ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la
mostra, iva a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui
conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperadore o vincitore di
Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata
fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti
Lannes, che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo.
Durò dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto
grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi
soldati o magistrati le insegne della legione d'onore, creata da lui
novellamente. Sceso poscia dal trono, gettava le fondamenta d'una
colonna per testimonianza alle future genti della marenghiana vittoria:
ivi si fermarono le gloriose ricordanze.
Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona, il dì 6 di maggio,
a Mezzana Corte sulla sponda del Po, dove, passato il fiume sopra
estemporaneo bucintoro fra le innumerevoli acclamazioni dei popoli,
che sulle opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo italico regno
entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero, il lodarono
il prefetto dell'Olona, il guardasigilli Melzi, il maresciallo Jourdan,
che stava al governo dei soldati franzesi alloggiati nel regno italico.
Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Bolla, ad uso
di palazzo imperiale destinandolo. Guardie d'onore, studenti addobbati,
folle di popolo, arazzi spiegati, fiori sparsi, lumi accesi, applausi
infiniti testificavano l'allegrezza dei Pavesi. Vide volontieri
l'università, che l'ebbe con discorso limpido e puro di parole e
di stile non isconveniente al soggetto, per voce del rettore e dei
professori decani, lodato.
Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta
ticinese, a cui fu dato il nome di Marengo. Gli appresentarono i
municipali le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero esser