Annali d'Italia, vol. 8 - 74
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L'imperadore Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra
impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella
Svizzera, vieppiù si allontanava da lui pei risultamenti della lionese
consulta, e le cose della Russia con la Francia già si scoprivano in
manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato
a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare
una scrittura, con la quale si sforzava di mostrare che la Francia,
conservando l'italiana repubblica, non aveva preso troppo per sè, nè
tanto quanto avevano per sè stessi preso gli altri potentati.
Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazia: volle il
consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazia. Il supplicarono
affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I
governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro
concittadini; nè lo scritto dei reggitori genovesi disteso in lingua
e stile assai più purgato che le sucide scritture cisalpine, toscane e
napolitane, era, quanto alla forma, senza dignità.
Importava la costituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva
la repubblica; presiedesselo un doge; dividessesi in cinque magistrati,
il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello
dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri
il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale
le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista
triplice presentata dai collegi.
Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in
carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori,
la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo
gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto
l'assistesse.
Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli
altri quattro magistrati e di quattro altri senatori; il senato gli
eleggesse; gli si appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi
e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse
convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati
s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare
i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non
dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì
interna che esterna dello Stato; vegliasse che la giustizia rettamente
e secondo le leggi si ministrasse: sopravvegghiasse alle rendite
pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivii, alla pubblica
instruzione; comandasse all'esercito. Questo ordine del magistrato
supremo rappresentava nella nuova costituzione l'antico piccolo
consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il
nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini,
piuttosto onorifica che efficace.
Questo era il governo della repubblica ligure. Restava a dichiararsi in
qual modo si attuasse. Stanziò il consolo che vi fossero i tre collegi
dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà
suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune
derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette
membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato,
due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale,
due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la
carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta
giurisdizionale; le consulte giurisdizionali i membri della consulta
nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa.
Il dì 29 giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di
Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole
acconce, ma in aria al solito e teoretiche.
Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i
Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia;
non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela;
dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili,
amassero la costituzione, le leggi, la religione; allestissero un
navilio potente, ristaurassero l'antica gloria del nome ligure;
sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, delle
avverse contristato.
Decretava il senato che a Cristoforo Colombo, per avere scoperto
un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte, per avere pacificato
l'universo, due statue marmoree, una a ciascuno nell'atrio del palazzo
nazionale s'innalzassero. Oltre a questo i Sarzanesi, supplicarono
il governo fosse loro lecito fondare nella loro città un monumento a
memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, aveva
avuto origine. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e
concessa loro volentieri la facoltà del monumento.
Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano
esuli per l'Italia. Il re Carlo Emmanuele, deditissimo alla religione,
perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte
disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare
al regno, acciocchè, da ogni altra mondana sollecitudine rimoto,
solamente ai divini servigi ed alla salute dell'anima vacare potesse;
rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo che se l'ambizione
è tormento a sè stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli
alti come negli ultimi seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emmanuele
venne il regno in potestà di Vittorio Emmanuele, suo fratello, che
allora dimorava nel regno di Napoli.
Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla
Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro
consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a
manifesta discordia. Avvisava il consolo che fra quegli umori già tanto
mossi il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo
non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava, il dì 14
settembre, il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di
Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro fossero e s'intendessero
uniti al territorio della repubblica franzese. Principiò l'unione del
Piemonte la sequela delle italiane aggiunte. Si fecero per la unione
allegrezze in Piemonte, dai nobili volontieri, perchè per le carezze
del consolo e di Menou vedevano che il dominio interrotto dalle
intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non
senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per
cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto.
Anno di CRISTO MDCCCIII. Indizione VI.
PIO VII papa 4.
FRANCESCO II imperadore 12.
Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte
veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome,
l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava,
in Parma piuttosto Buonaparte che Saint-Mery, a Genova piuttosto il
consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in
Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone
che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti
questi italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava
a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che
l'Egiziano gli toccasse ch'erano democrati coloro che si querelavano,
tosto l'approvava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi
d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni.
A questo tempo (27 maggio) morì di febbre acuta il re Lodovico
d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna
Carlo Lodovico, del quale, per essere minore d'età, fu commessa la
reggenza alla vedova regina, Maria Luisa.
Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i
comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in
Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo
dei suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a
Piombino ed in tutto il litorale toscano per impedire ogni pratica
cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte
nel porto, e molestava, co' suoi corsari che uscivano da Livorno, i
traffici inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era
sorta nuova guerra con la Gran Bretagna.
Prendeva, in mezzo a queste insolenze forastiere, nel mese di agosto
(il dì 29), possessione del regno Carlo Lodovico, sotto tutela della
regina madre. Giurarono fedeltà il senato fiorentino, i magistrati,
i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi,
luminarie, fuochi artificiali e le solite poesie elogistiche.
Anno di CRISTO MDCCCIV. Indizione VII.
PIO VII papa 5.
FRANCESCO II imperadore 13.
Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia,
si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento
pontificio nell'Italia; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato
di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la
potestà sua fosse, non che consenziente, richiesta, nell'italiana
costituzione. Il consolo, per un suo gran fine, voleva gratificare al
papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il
cardinal Caprara, legato della santa Sede, e Ferdinando Marescalchi,
ministro degli affari esteri della repubblica italiana, fu concluso,
il dì 16 settembre dell'anno precedente, in nome del pontefice e del
presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi del tutto
conforme al concordato di Francia.
Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi
vicepresidente. Decretava, ai primi di febbraio del presente anno, che
la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse
ristretta agli ordini, conventi, collegi, monasteri, che per instituto
fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura
degl'infermi, o ad altri simili ufficii di speciale e pubblica utilità;
che per vestire o far professione religiosa individuale, e per la
promozione agli ordini sacri il beneplacito del governo si richiedesse;
che la libera comunicazione dei vescovi colla santa Sede non importasse
nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i
tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di
privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi ed i
rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore
e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti,
gl'iniziati negli ordini sacri, i cherici ammessi nei seminarii
vescovili ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero
esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per
l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica
per correggere gli ecclesiastici delinquenti e gli appellanti dalle
medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre
i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la
vigente disciplina della Chiesa nella sua attualità, salvo il diritto
della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse.
Queste disposizioni sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se
ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, nè dava
nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto quantunque il concordato
italico, e massime il decreto del vicepresidente, fossero più accetti a
certuni che a certi altri, servirono, ciò non ostante, a tranquillare
le coscienze timorate del popolo, il quale, avendo sempre perseverato
nella fede e nella riverenza verso il papa, vedeva mal volentieri le
dissensioni con Roma, ed ora della ristorata concordia si rallegrava.
Ma già i bilustri pensieri del consolo si avvicinavano al loro
compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè
negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva
uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini
e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in
Italia e prima e dopo le egiziache fatiche. Mirabili cose si dicevano
ed ancor più si scrivevano.
Il consolo, non abborrendo dal proposito di ridurre in servitù una
nazione che con una piena di tanto amore si versava verso di lui,
pensò esser arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni.
Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati
coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il
popolo coi comodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello di
cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla
suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con
l'uccisione del duca d'Enghien. Diè le prime mosse il tribunato: il
senato non s'indugiò a seguitare, parte per paura, parte per ambizione:
il dì 18 maggio chiamava Napoleone Buonaparte imperator dei Franzesi.
Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia
il mondo. I reali si accorsero che Buonaparte non era uomo, come
aspettavano, che volesse fare il Monk; i repubblicani videro che non
era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato. Poi i
reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e
gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti.
Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono. Delle potenze
d'Europa, l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità
di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il
lontano ed ingannatosi Alessandro; la Turchia, per timore della Russia,
si peritava; l'Austria taceva; la Prussia, che tuttavia continuava
ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato.
Questo era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di
Napoleone. Luigi XVIII, re di Francia, che fino a questo tempo,
forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri
governi franzesi parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo
atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine
era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro
l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule da' suoi
regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta
independenza per l'unione con chi comandava; Genova ingannata sperava
almeno di conservare l'antico nome; la repubblica italiana, giacchè era
perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che
meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che
sperasse nè che temesse; bene si doleva che i leopoldiani tempi fossero
perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava
in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il
papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli il confortava
con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste;
imperciocchè, vedendo che, poichè alle antiche consuetudini se ne
tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina
della sovranità del popolo perchè l'ammetterla era un confessare
che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva essere disfatto, il
pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia,
richiedeva che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore.
Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nella opinione degli
uomini quello che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran
fatto che il capo supremo della Chiesa, in età già grave, in istagione
sinistra, a lontana e straniera terra se ne andasse per legittimare
con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa
chiamavano o apertamente o occultamente una usurpazione. Per indurre il
papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto
aveva fatto a benefizio della religione e della santa Sede in Francia,
molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione.
Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè
dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne
nascere tratti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare
con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare,
gli pareva duro e disonorevole consiglio.
Tutte le cose però molto bene e maturamente considerate, e co' suoi
cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'aiuto divino,
siccome quegli che pienamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od
avverso, si deliberava a voler fare quello che da tanti secoli non si
era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa, risolutosi del
tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano
riguardo, convocati i cardinali il dì 29 ottobre, con queste gravi ed
affettuose parole loro favellava:
«Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi
annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperadore dei
Franzesi, allora primo console, era stato da noi concluso: da
questo stesso vi partecipammo la contentezza, che aveva ripieno il
nostro cuore nel veder volte novellamente, per opera del concordato
medesimo, alla cattolica Religione quelle vaste e popolose regioni.
D'allora in poi i profanati tempi furono aperti e purificati, gli
altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del
vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente
e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico
gregge conceduti: numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo
della felice eternità richiamate, e con sè stesse e col vero Dio
riconciliate: risorse felicemente, da quella oscurità in cui era stata
immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la
cattolica religione.
A tanti benefizii esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro
Signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e
maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel
potente principe che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il
concordato, ma ancora ci spingeva, per la dolce ricordanza, ad usare
ogni occasione che si aprisse per dimostrargli tale essere verso di
lui lo animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro
carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperadore dei Franzesi, che
con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene
a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi
olii unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè
i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano
col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di
lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo
chiaramente la Religione sua e la sua filiale riverenza verso la Santa
Sede dimostrata, ma siccome quella che accompagnata è da espresse
dimostrazioni e promosse, dà speranza che sia la fede sacra promossa,
e che siano le dolorose ingiurie riparate, opera che già ha egli con
tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite ragioni procurato.
Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi
siano le cagioni che ad intraprendere questo viaggio c'invitano.
Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, e muoveci la
gratitudine verso il potente imperadore, muoveci l'amore verso
colui che, con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla
cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci
il desiderio che d'avanzarla viemmaggiormente in prosperità ed in
dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo
giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da
esso a benefizio della cattolica Chiesa, sola posseditrice dell'arca
di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi
dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima
religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale
speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui di cui, quantunque
immeritatamente, siamo il Vicario sopra la terra, dalla grazia di
colui che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene
disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei
popoli si mostrano, specialmente quando alla eterna salute intendono,
specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della
cattolica Chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili
fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori,
che, la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere
la religione e per gratificare ai principi che della Chiesa bene
meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente
viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto
allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute
inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che
voglia Iddio farci dei nostri desiderii grazia. Nè fu il negozio, prima
che si risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato.
Stemmo dubbii ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece
incontro ai desiderii nostri lo imperadore, che ci rendemmo certi,
essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò
sapete che su di ciò a voi chiesi consiglio; ma per non preterire
quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo che, conforme
al detto della divina Sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche
di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli
altresì, il cui parlare quale incenso alla presenza di Dio sen sale,
sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al Padre
di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo che ci sia
fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello
che a prosperità ed incremento della sua Chiesa tornare prometta.
Ecci Dio, il quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo,
al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal
quale e benigna udienza ed aiuto propizio in tant'uopo implorammo,
testimonio che niun'altra cosa vogliamo, o niun'altra intendiamo,
che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla
salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato a noi,
quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra
voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonii.
Adunque quando un negozio sì grande con l'aiuto della divina assistenza
vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando,
questo viaggio, al quale tante e sì ponderose cagioni ci confortano,
imprenderemo.
Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa
epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si
manifesterà! Ad esempio di Pio VI di riverita memoria, quando a Vienna
d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto che
le curie e le audienze siano e restino, secondo il solito, aperte;
e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così
abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse
di ritorci a lui, si tengano i pontificii comizii. Infine da voi
richiediamo, voi instantemente preghiamo che vi piaccia per noi sempre
quell'affezione medesima conservare che finora ci mostraste, e che, noi
assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro
Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo
Pietro, acciò questo viaggio e felice sia nel corso e prospero nel
fine, raccomandiate. La quale cosa, se come speriamo, dal fonte di bene
impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di
ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza
ancora voi parteciperete e tutti insieme nella mercè del Signore
esulteremo e ci rallegreremo.»
Giunto il pontefice sulle franzesi terre, fu per ordine
dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli, in ogni luogo
con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al
papa nè alla religione si precitavano a gara alla sua presenza, per
esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il
dì 2 dicembre. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente
le imperiali aquile a' suoi soldati: le antiche insegne della
repubblica, che avevano veduto le renane, italiche, egiziache vittorie,
lasciate nel fango.
Andarono i magistrati ed i capi dell'esercito a rendere omaggio
all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo
non più così scarso del corpo come era una volta, con esso lui della
prospera salute si rallegrava. Si, rispose il sire, ora sto bene.
Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle
faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto,
dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla Sedia
apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto
freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva
medicare dalle radici il male che vedeva provenire dalla setta che
l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della Chiesa primitiva.
Erasi sparsa voce: spenti i gesuiti, per questo appunto esser nate
le rivoluzioni, per questo la rovina de' reali seggi, per questo
imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere
ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per
questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a
sì potenti e sì ostinati nemici, i re soli senza il papa, nè il papa
solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter
resistere, se non s'accosta l'opera aiutatrice e tanto efficace dei
gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il
freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi
con un'apparenza di santimonia e di austerità: non essere padroni i
re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro; non esser
padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario esser
l'aiuto di coloro che radici buone sanno porre negli spiriti, e di
quanto gli spiriti concepiscono e di quanto le mani fanno, possono
essere e sono diligentemente informati: cospirare il volgo contro i
potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo
qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più
stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi
loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei
principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti
o rivoluzioni, nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro.
A tali vociferazioni, che in quest'anno diffondevansi ogni giorno
più, supplicava il re Ferdinando di Napoli il papa, acciocchè,
per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli
dottrine, come diceva, vi riinstaurasse, siccome già in Russia aveva
fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva:
un Gabriello Gruber la ordinava. Così fu principiata la risurrezione
dei gesuiti; e fu osservato che fu principiata da un re, attivo
cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini,
avversi ai gesuiti.
Le toscane cose, che nell'anno precedente lasciammo non poco sinistre,
vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente: conciossiachè sorse
in sul finire dell'autunno del presente anno nella egregia città di
Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome
pare, la state che trascorse in quest'anno, sotto il dominio continuo
di venti austriali, oltre solito calda e piovosa. La quale infermità,
da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno
e l'altro che a lei molto bene si confanno pei segni strani che
l'accompagnano, incominciò ad infierire nelle parti più basse, più
fitte e più sucide della città per modo che a questi toglieva la vita
in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel
breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti che in
chi ella s'appiccava ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile,
perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto
proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il
impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella
Svizzera, vieppiù si allontanava da lui pei risultamenti della lionese
consulta, e le cose della Russia con la Francia già si scoprivano in
manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato
a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare
una scrittura, con la quale si sforzava di mostrare che la Francia,
conservando l'italiana repubblica, non aveva preso troppo per sè, nè
tanto quanto avevano per sè stessi preso gli altri potentati.
Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazia: volle il
consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazia. Il supplicarono
affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I
governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro
concittadini; nè lo scritto dei reggitori genovesi disteso in lingua
e stile assai più purgato che le sucide scritture cisalpine, toscane e
napolitane, era, quanto alla forma, senza dignità.
Importava la costituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva
la repubblica; presiedesselo un doge; dividessesi in cinque magistrati,
il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello
dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri
il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale
le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista
triplice presentata dai collegi.
Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in
carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori,
la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo
gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto
l'assistesse.
Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli
altri quattro magistrati e di quattro altri senatori; il senato gli
eleggesse; gli si appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi
e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse
convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati
s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare
i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non
dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì
interna che esterna dello Stato; vegliasse che la giustizia rettamente
e secondo le leggi si ministrasse: sopravvegghiasse alle rendite
pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivii, alla pubblica
instruzione; comandasse all'esercito. Questo ordine del magistrato
supremo rappresentava nella nuova costituzione l'antico piccolo
consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il
nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini,
piuttosto onorifica che efficace.
Questo era il governo della repubblica ligure. Restava a dichiararsi in
qual modo si attuasse. Stanziò il consolo che vi fossero i tre collegi
dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà
suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune
derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette
membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato,
due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale,
due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la
carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta
giurisdizionale; le consulte giurisdizionali i membri della consulta
nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa.
Il dì 29 giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di
Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole
acconce, ma in aria al solito e teoretiche.
Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i
Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia;
non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela;
dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili,
amassero la costituzione, le leggi, la religione; allestissero un
navilio potente, ristaurassero l'antica gloria del nome ligure;
sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, delle
avverse contristato.
Decretava il senato che a Cristoforo Colombo, per avere scoperto
un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte, per avere pacificato
l'universo, due statue marmoree, una a ciascuno nell'atrio del palazzo
nazionale s'innalzassero. Oltre a questo i Sarzanesi, supplicarono
il governo fosse loro lecito fondare nella loro città un monumento a
memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, aveva
avuto origine. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e
concessa loro volentieri la facoltà del monumento.
Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano
esuli per l'Italia. Il re Carlo Emmanuele, deditissimo alla religione,
perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte
disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare
al regno, acciocchè, da ogni altra mondana sollecitudine rimoto,
solamente ai divini servigi ed alla salute dell'anima vacare potesse;
rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo che se l'ambizione
è tormento a sè stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli
alti come negli ultimi seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emmanuele
venne il regno in potestà di Vittorio Emmanuele, suo fratello, che
allora dimorava nel regno di Napoli.
Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla
Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro
consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a
manifesta discordia. Avvisava il consolo che fra quegli umori già tanto
mossi il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo
non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava, il dì 14
settembre, il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di
Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro fossero e s'intendessero
uniti al territorio della repubblica franzese. Principiò l'unione del
Piemonte la sequela delle italiane aggiunte. Si fecero per la unione
allegrezze in Piemonte, dai nobili volontieri, perchè per le carezze
del consolo e di Menou vedevano che il dominio interrotto dalle
intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non
senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per
cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto.
Anno di CRISTO MDCCCIII. Indizione VI.
PIO VII papa 4.
FRANCESCO II imperadore 12.
Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte
veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome,
l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava,
in Parma piuttosto Buonaparte che Saint-Mery, a Genova piuttosto il
consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in
Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone
che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti
questi italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava
a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che
l'Egiziano gli toccasse ch'erano democrati coloro che si querelavano,
tosto l'approvava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi
d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni.
A questo tempo (27 maggio) morì di febbre acuta il re Lodovico
d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna
Carlo Lodovico, del quale, per essere minore d'età, fu commessa la
reggenza alla vedova regina, Maria Luisa.
Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i
comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in
Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo
dei suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a
Piombino ed in tutto il litorale toscano per impedire ogni pratica
cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte
nel porto, e molestava, co' suoi corsari che uscivano da Livorno, i
traffici inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era
sorta nuova guerra con la Gran Bretagna.
Prendeva, in mezzo a queste insolenze forastiere, nel mese di agosto
(il dì 29), possessione del regno Carlo Lodovico, sotto tutela della
regina madre. Giurarono fedeltà il senato fiorentino, i magistrati,
i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi,
luminarie, fuochi artificiali e le solite poesie elogistiche.
Anno di CRISTO MDCCCIV. Indizione VII.
PIO VII papa 5.
FRANCESCO II imperadore 13.
Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia,
si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento
pontificio nell'Italia; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato
di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la
potestà sua fosse, non che consenziente, richiesta, nell'italiana
costituzione. Il consolo, per un suo gran fine, voleva gratificare al
papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il
cardinal Caprara, legato della santa Sede, e Ferdinando Marescalchi,
ministro degli affari esteri della repubblica italiana, fu concluso,
il dì 16 settembre dell'anno precedente, in nome del pontefice e del
presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi del tutto
conforme al concordato di Francia.
Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi
vicepresidente. Decretava, ai primi di febbraio del presente anno, che
la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse
ristretta agli ordini, conventi, collegi, monasteri, che per instituto
fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura
degl'infermi, o ad altri simili ufficii di speciale e pubblica utilità;
che per vestire o far professione religiosa individuale, e per la
promozione agli ordini sacri il beneplacito del governo si richiedesse;
che la libera comunicazione dei vescovi colla santa Sede non importasse
nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i
tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di
privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi ed i
rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore
e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti,
gl'iniziati negli ordini sacri, i cherici ammessi nei seminarii
vescovili ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero
esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per
l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica
per correggere gli ecclesiastici delinquenti e gli appellanti dalle
medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre
i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la
vigente disciplina della Chiesa nella sua attualità, salvo il diritto
della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse.
Queste disposizioni sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se
ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, nè dava
nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto quantunque il concordato
italico, e massime il decreto del vicepresidente, fossero più accetti a
certuni che a certi altri, servirono, ciò non ostante, a tranquillare
le coscienze timorate del popolo, il quale, avendo sempre perseverato
nella fede e nella riverenza verso il papa, vedeva mal volentieri le
dissensioni con Roma, ed ora della ristorata concordia si rallegrava.
Ma già i bilustri pensieri del consolo si avvicinavano al loro
compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè
negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva
uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini
e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in
Italia e prima e dopo le egiziache fatiche. Mirabili cose si dicevano
ed ancor più si scrivevano.
Il consolo, non abborrendo dal proposito di ridurre in servitù una
nazione che con una piena di tanto amore si versava verso di lui,
pensò esser arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni.
Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati
coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il
popolo coi comodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello di
cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla
suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con
l'uccisione del duca d'Enghien. Diè le prime mosse il tribunato: il
senato non s'indugiò a seguitare, parte per paura, parte per ambizione:
il dì 18 maggio chiamava Napoleone Buonaparte imperator dei Franzesi.
Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia
il mondo. I reali si accorsero che Buonaparte non era uomo, come
aspettavano, che volesse fare il Monk; i repubblicani videro che non
era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato. Poi i
reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e
gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti.
Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono. Delle potenze
d'Europa, l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità
di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il
lontano ed ingannatosi Alessandro; la Turchia, per timore della Russia,
si peritava; l'Austria taceva; la Prussia, che tuttavia continuava
ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato.
Questo era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di
Napoleone. Luigi XVIII, re di Francia, che fino a questo tempo,
forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri
governi franzesi parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo
atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine
era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro
l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule da' suoi
regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta
independenza per l'unione con chi comandava; Genova ingannata sperava
almeno di conservare l'antico nome; la repubblica italiana, giacchè era
perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che
meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che
sperasse nè che temesse; bene si doleva che i leopoldiani tempi fossero
perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava
in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il
papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli il confortava
con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste;
imperciocchè, vedendo che, poichè alle antiche consuetudini se ne
tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina
della sovranità del popolo perchè l'ammetterla era un confessare
che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva essere disfatto, il
pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia,
richiedeva che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore.
Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nella opinione degli
uomini quello che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran
fatto che il capo supremo della Chiesa, in età già grave, in istagione
sinistra, a lontana e straniera terra se ne andasse per legittimare
con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa
chiamavano o apertamente o occultamente una usurpazione. Per indurre il
papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto
aveva fatto a benefizio della religione e della santa Sede in Francia,
molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione.
Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè
dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne
nascere tratti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare
con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare,
gli pareva duro e disonorevole consiglio.
Tutte le cose però molto bene e maturamente considerate, e co' suoi
cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'aiuto divino,
siccome quegli che pienamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od
avverso, si deliberava a voler fare quello che da tanti secoli non si
era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa, risolutosi del
tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano
riguardo, convocati i cardinali il dì 29 ottobre, con queste gravi ed
affettuose parole loro favellava:
«Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi
annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperadore dei
Franzesi, allora primo console, era stato da noi concluso: da
questo stesso vi partecipammo la contentezza, che aveva ripieno il
nostro cuore nel veder volte novellamente, per opera del concordato
medesimo, alla cattolica Religione quelle vaste e popolose regioni.
D'allora in poi i profanati tempi furono aperti e purificati, gli
altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del
vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente
e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico
gregge conceduti: numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo
della felice eternità richiamate, e con sè stesse e col vero Dio
riconciliate: risorse felicemente, da quella oscurità in cui era stata
immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la
cattolica religione.
A tanti benefizii esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro
Signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e
maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel
potente principe che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il
concordato, ma ancora ci spingeva, per la dolce ricordanza, ad usare
ogni occasione che si aprisse per dimostrargli tale essere verso di
lui lo animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro
carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperadore dei Franzesi, che
con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene
a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi
olii unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè
i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano
col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di
lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo
chiaramente la Religione sua e la sua filiale riverenza verso la Santa
Sede dimostrata, ma siccome quella che accompagnata è da espresse
dimostrazioni e promosse, dà speranza che sia la fede sacra promossa,
e che siano le dolorose ingiurie riparate, opera che già ha egli con
tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite ragioni procurato.
Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi
siano le cagioni che ad intraprendere questo viaggio c'invitano.
Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, e muoveci la
gratitudine verso il potente imperadore, muoveci l'amore verso
colui che, con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla
cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci
il desiderio che d'avanzarla viemmaggiormente in prosperità ed in
dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo
giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da
esso a benefizio della cattolica Chiesa, sola posseditrice dell'arca
di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi
dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima
religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale
speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui di cui, quantunque
immeritatamente, siamo il Vicario sopra la terra, dalla grazia di
colui che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene
disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei
popoli si mostrano, specialmente quando alla eterna salute intendono,
specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della
cattolica Chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili
fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori,
che, la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere
la religione e per gratificare ai principi che della Chiesa bene
meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente
viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto
allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute
inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che
voglia Iddio farci dei nostri desiderii grazia. Nè fu il negozio, prima
che si risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato.
Stemmo dubbii ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece
incontro ai desiderii nostri lo imperadore, che ci rendemmo certi,
essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò
sapete che su di ciò a voi chiesi consiglio; ma per non preterire
quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo che, conforme
al detto della divina Sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche
di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli
altresì, il cui parlare quale incenso alla presenza di Dio sen sale,
sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al Padre
di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo che ci sia
fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello
che a prosperità ed incremento della sua Chiesa tornare prometta.
Ecci Dio, il quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo,
al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal
quale e benigna udienza ed aiuto propizio in tant'uopo implorammo,
testimonio che niun'altra cosa vogliamo, o niun'altra intendiamo,
che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla
salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato a noi,
quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra
voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonii.
Adunque quando un negozio sì grande con l'aiuto della divina assistenza
vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando,
questo viaggio, al quale tante e sì ponderose cagioni ci confortano,
imprenderemo.
Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa
epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si
manifesterà! Ad esempio di Pio VI di riverita memoria, quando a Vienna
d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto che
le curie e le audienze siano e restino, secondo il solito, aperte;
e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così
abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse
di ritorci a lui, si tengano i pontificii comizii. Infine da voi
richiediamo, voi instantemente preghiamo che vi piaccia per noi sempre
quell'affezione medesima conservare che finora ci mostraste, e che, noi
assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro
Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo
Pietro, acciò questo viaggio e felice sia nel corso e prospero nel
fine, raccomandiate. La quale cosa, se come speriamo, dal fonte di bene
impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di
ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza
ancora voi parteciperete e tutti insieme nella mercè del Signore
esulteremo e ci rallegreremo.»
Giunto il pontefice sulle franzesi terre, fu per ordine
dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli, in ogni luogo
con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al
papa nè alla religione si precitavano a gara alla sua presenza, per
esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il
dì 2 dicembre. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente
le imperiali aquile a' suoi soldati: le antiche insegne della
repubblica, che avevano veduto le renane, italiche, egiziache vittorie,
lasciate nel fango.
Andarono i magistrati ed i capi dell'esercito a rendere omaggio
all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo
non più così scarso del corpo come era una volta, con esso lui della
prospera salute si rallegrava. Si, rispose il sire, ora sto bene.
Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle
faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto,
dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla Sedia
apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto
freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva
medicare dalle radici il male che vedeva provenire dalla setta che
l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della Chiesa primitiva.
Erasi sparsa voce: spenti i gesuiti, per questo appunto esser nate
le rivoluzioni, per questo la rovina de' reali seggi, per questo
imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere
ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per
questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a
sì potenti e sì ostinati nemici, i re soli senza il papa, nè il papa
solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter
resistere, se non s'accosta l'opera aiutatrice e tanto efficace dei
gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il
freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi
con un'apparenza di santimonia e di austerità: non essere padroni i
re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro; non esser
padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario esser
l'aiuto di coloro che radici buone sanno porre negli spiriti, e di
quanto gli spiriti concepiscono e di quanto le mani fanno, possono
essere e sono diligentemente informati: cospirare il volgo contro i
potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo
qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più
stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi
loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei
principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti
o rivoluzioni, nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro.
A tali vociferazioni, che in quest'anno diffondevansi ogni giorno
più, supplicava il re Ferdinando di Napoli il papa, acciocchè,
per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli
dottrine, come diceva, vi riinstaurasse, siccome già in Russia aveva
fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva:
un Gabriello Gruber la ordinava. Così fu principiata la risurrezione
dei gesuiti; e fu osservato che fu principiata da un re, attivo
cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini,
avversi ai gesuiti.
Le toscane cose, che nell'anno precedente lasciammo non poco sinistre,
vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente: conciossiachè sorse
in sul finire dell'autunno del presente anno nella egregia città di
Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome
pare, la state che trascorse in quest'anno, sotto il dominio continuo
di venti austriali, oltre solito calda e piovosa. La quale infermità,
da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno
e l'altro che a lei molto bene si confanno pei segni strani che
l'accompagnano, incominciò ad infierire nelle parti più basse, più
fitte e più sucide della città per modo che a questi toglieva la vita
in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel
breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti che in
chi ella s'appiccava ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile,
perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto
proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il
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