Annali d'Italia, vol. 8 - 73

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le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si
tacquero quelle del Piemonte, onde chi sperava pel re ebbe cagione di
più sperare, chi temeva, di più temere. In tali intricate occorrenze
avvenne di verso Borea un caso di grandissima importanza, perchè nella
notte del 13 marzo 1801 morì di morte violenta Paolo, imperadore
di Russia; della quale non così tosto fu avvisato il consolo, che
trovandosi libero dalle instanze di lui, e volendo preoccupare il
passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un
decreto, mettendovi una data anteriore, il quale, sebbene ancora non
importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava
però manifestamente che sua volontà fosse che l'unione si effettuasse:
costituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di Francia.
Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non
difficilmente sarebbe per consentirvi. Importava il decreto dato ai 2
d'aprile del 1801, che il Piemonte formerebbe una divisione militare
della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi
della repubblica, rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali, vi
si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero
comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse;
che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei
dipartimenti, dell'Eridano, poi detto del Po, con Torino, di Marengo
con Alessandria, del Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della
Dora con Ivrea, della Stura con Cuneo. Mandava Jourdan a Parigi per
ringraziare e promettere obbedienza deputati. Furono veduti molto
volontieri, massime i nobili, perchè il consolo li voleva allettare.
Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro
ed a congiungerselo in amicizia; e, siccome astutissimo ch'egli era e
sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia e d'Egitto, avendo
udito che il novello imperadore era di natura generosa, e tendente
al governare gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se
gli mise intorno da tutte le parti tentandolo. E ai dolci suoni,
alla magnificenza e giocondità delle parole, come benevolo, si
calava Alessandro. Quindi il consolo, fatto sicuro dell'amicizia
di Russia, insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze
lusinghiere, ei dava mano alla realtà, incamminandosi al dominio
del mondo. Cominciando dal Piemonte, che stimava essere necessario
congiungersi per avere senza impedimenti di mezzo la signoria
d'Italia, comandava che il decreto dei 2 d'aprile fosse in ogni sua
parte mandato ad effetto. L'Austria pei patiti danni, la Inghilterra
per la lontananza, nè consentirono, nè contrastarono. Arrivarono a
Torino i commissarii parigini ad ordinar lo Stato, chi per le finanze,
chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi per gli studii,
chi pei giudizii. Voleva il consolo ridurre lo Stato alla forma di
monarchia; i repubblicani in Francia, eccettuati i più furibondi che
aveva confinati in carcere o banditi in lidi lontani, il secondavano.
Quanto ai repubblicani italiani, due mezzi gli si paravano davanti,
o di vezzeggiarli come quei di Francia, o di spegnerli, non già
coll'ammazzarli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue, ma
col torre loro l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultimo; al che
diede anche favore la ricchezza degli avversarii, che mandavano doni,
presenti e denari nelle corrotte Tuilerie, il che era cagione che a
quello, a che di propria volontà inclinava, fosse anche stimolato da
altri.
Buon procedere sarebbe stato questo quanto all'utile se mai non
avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè
per esso si perdevano gli amici e non si acquistavano i nemici; ma il
consolo sempre aspettava prosperità. Restava Jourdan ch'era stimato
repubblicano. Deliberossi a torre anche questo capo ai repubblicani,
quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro; partì
Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou
in Torino, in luogo di Jourdan. Raccontare le lepidezze e gli arbitrii
che vi fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo
più piacevole che la gravità della storia comporti. A questa guisa
passarono i tempi fra i Subalpini infino alla unione definitiva:
partigiani di Francia perseguitati, partigiani di Sardegna accarezzati,
partigiani d'Italia usati come stromenti di calunnie e di vendette, il
giardino del re difformato da una sucida baracca ad uso d'una Turca.
A questo modo incominciava il promesso legale dominio del generoso e
sfortunato Piemonte.
Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat.
Voleva, come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze;
nè Murat era di cattiva natura, solo aveva poco cervello e l'animo
molto vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava
volontieri alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte
dell'esercito che egli governava, mandata primieramente in Italia
per rinforzare l'ala destra di Brune e per alloggiare in Toscana,
fu, dopo la pace di Luneville, mandata nello Stato romano, con star
pronta ad assaltare il regno di Napoli. Conclusa poi la pace, entrava
nel regno fino a Taranto, in nome dal re, per isforzare il governo
ad osservar il trattato ed i perdoni verso i novatori, in fatto per
minacciar gl'Inglesi e per vivere a spese del regno. Quanto allo
Stato romano, concluso il concordato, Murat ritirava le genti che
vi aveva, in Ancona, per tener quel freno in bocca al pontefice;
si coloriva il fatto col pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi
occupavano quanto potevano in Italia e nelle sue isole per impedire,
come dicevano, il predominio e la tirannide dei Franzesi, questi
facevano lo stesso per impedire, come protestavano, ii predominio e
la tirannide degl'inglesi; fra entrambi intanto l'Italia non aveva
nè posa nè speranza. Murat girando per Toscana e stando in Firenze,
ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno ed ora a Lucca, riceveva in
ogni luogo come cognato del consolo, onorevoli accoglienze; cagione
per lui d'incredibile contentezza. Si mostrava cortese ed affabile con
tutti, nè amava le rapine, manco il sangue; purchè il lodassero, se
ne veniva contento. Pure trascorse ad un atto, nel quale non si sa se
sia o maggior barbarie, o maggior ingratitudine, o maggiore insolenza.
Comandava con bando pubblico che tutti gl'Italiani, erano la maggior
parte Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche,
dovessero sgombrare dalla Toscana, e ritornare ne' proprii paesi, in
cui, secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita
sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse
per forza condotto ai confini ed espulso.
Murat contento di comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi
un re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava
aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e
riconoscerlo come re di Etruria, quest'era il titolo che gli si dava,
Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Feroni. Assunse il nome di Lodovico I;
nominò suo legato a ricever il regno Cesare Ventura. Murat annunziando
l'assunzione di Lodovico, parlava di civiltà e di dottrina ai Toscani,
lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i Franzesi
in luogo di un popolo amico. Cesare Ventura prendeva possesso del
regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonella, Tommaso Magnani,
Orlando del Benino. Vidervisi due donne complimentate da Gian Batista
Grisoni, l'una sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di
Spagna. Venne Lodovico a Firenze, resse con dolcezza, le leopoldiane
vestigia calcando.
Era tempo di costituzioni transitorie, fatte non perchè durassero,
ma perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo
legato, Salicetti a riformar Lucca, oppressa dall'impero dei forastieri
e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato
per ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro
ordini antichi, l'introdurre nei nuovi nomi i vecchi. Cominciavasi
a parlar di aristocrazia per far passo alla monarchia. Costituiva
Salicetti la repubblica di Lucca con un Collegio o Gran Consiglio di
duecento proprietarii più ricchi e di cento principali negozianti,
artisti e letterati: avesse questo consiglio la facoltà di eleggere i
primi magistrati. Fossevi un corpo d'anziani con la potestà esecutiva;
presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai colleghi, una volta
ogni due mesi: un consiglio amministrativo, nel quale gli anziani
entrassero, e quattro magistrati di tre membri ciascuno, esercesse le
veci di ministri: proponessero gli anziani le leggi e le eseguissero;
una congregazione di venti eletti dal collegio le discutessero e le
statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la repubblica, le leggi
promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse. I cantoni del
Serchio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli Apennini con
borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima volta trasse
Salicetti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi, ma il tempo
li guastava.
Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo
il duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella
repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di Stato Moreau
di Saint-Mery ad amministrarlo. Resse Saint-Mery, che buona e leale
persona era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato,
non senza lettere ed amatore sì di letterati che d'opere letterarie:
ogni generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità,
e siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni
generali, venne in disgrazia del consolo, nè potè costituire in Parma
ordini stabili.
Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel
proseguire cautamente anche pel corso di molti anni, i suoi disegni,
impazienza di conseguire precipitosamente il fine quando ad esso
approssimava. Riconciliatosi col papa, quieta l'Austria, ingannato
Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a
mandar ad effetto ciò che nella mente aveva da sì luogo tempo concetto
e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero
dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni e di desiderii
repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche malgiuoco
sotto, se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio.
Deliberossi adunque prima di scoprirsi in Francia di fare sue sperienze
italiane, confidando che gli Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo
più pieghevole. Così con le armi franzesi aveva conquistato Italia,
con le condiscendenze italiane voleva conquistar Francia. Sapeva che
le cose insolite allettano tutti, spezialmente i Franzesi nati con
fantasia potente. Perciò volle alle sue italiane arti dare pomposo
cominciamento.
Spargevansi ad arte dai più fidi in Cisalpina voci che la repubblica
pericolava con quei governi temporanei; che era oggimai tempo di
costituirla stabilmente e come a potenza independente si conveniva;
che ordini forti erano necessarii perchè diventasse quieta dentro,
rispettata fuori; che niuno era più capace di darle questi necessari
ordini di colui che prima l'aveva creata, poi riscattata; non potersi
più lei costituire con gli ordini dati dall'eroe Buonaparte del 1797,
perchè avviliti dalla invasione, ricordatori di discordie, sospetti
per democrazia ai potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia:
non doversi più la felice concordia turbare con ordini incomposti;
volersi vivere in repubblica, ma non troppo disforme dai governi
antichi conservati in Europa; sola potenza essere la Cisalpina
in Italia che a favor di Francia stando, fosse in grado di tener
in equilibrio l'Austria tanto potente per l'acquisto de' dominii
veneziani, nè essere la repubblica per acquistare la forza necessaria,
se non con leggi conducenti a stabilità: varii essere gli umori,
gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle cisalpine popolazioni,
nè Veneziani, Milanesi, Modanesi, Novaresi, Bolognesi nel medesimo
desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere; rimanere i vestigii
dell'antiche emolazioni: parti separate e non consenzienti non poter
comporre un corpo unito e forte, se un governo stretto, se una mano
gagliarda in uno e medesimo volere non le costringessero: richiedere
adunque un reggimento nuovo, concorde e virile la pace d'Europa,
richiederlo la quiete della Cisalpina, richiederlo le condizioni felici
alle quali era chiamata.
Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della
Cisalpina negoziava affinchè i comandamenti imperativi del consolo
avessero a parere desiderii e supplicazioni spontanee dei popoli.
Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione,
usciva un decreto della consulta legislativa del governo: ordinava
che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo
ufficio sarebbe ordinare le leggi fondamentali dello Stato ed informare
il consolo intorno alle persone che nei tre collegi elettorali
dovessero entrare: sarebbe l'assemblea composta dei membri attuali
della consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre
per restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di
curati, e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della
università degli studii, della guardia nazionale, dei reggimenti
della truppa soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di
commercio. Sommò il numero a quattrocento cinquanta. Risplendeanvi un
Visconti, arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un
Opizzoni, un Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni,
un Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un
Lecchi, un Borromeo, un Triulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili,
un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un
Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono
a Lione, chi per amore, chi per forza, chi per ambizione: grande
aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva
un fallo mirabile che una nazione italiana si conducesse in Francia
per regolare le sue sorti. Il governo cisalpino esortava con pubblico
manifesto i deputati; gissero a fondare gli ordini salutari della
repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore e del
restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse; mostrassero
con le egregie qualità loro, quanto la cisalpina nazione valesse: a lei
amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero;
nel lionese congresso livor nissuno, parzialità nissuna recassero;
al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente, affettuosamente
verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi Cisalpini che
nell'inevitabile tumulto di tante passioni, nell'avviluppamento di
tante vicende, nell'alternativa di politici eventi tanto contrarii,
mai non attesero a vendette, a discordie, a fazioni, a persecuzioni,
a sangue: pruovassero che non invano aveva il cisalpino popolo nome
di leale e di buono; pruovassero che se a sublime grado fra le nazioni
erano destinati, a sublime grado ancora meritavano d'essere innalzati;
dovere a sè stessa dei propri ordini restare la Cisalpina obbligata;
solo sè medesima potrebbe accagionare, se tanti lieti augurii, se tante
concepite speranze fossero indarno.
Questi nobili sentimenti verso la cisalpina patria e questa
rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un
Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro
Talleyrand, che aveva in sè raccolti tutti i pensieri del consolo;
trovarono Marescalchi che riconosciuto da Francia per ministro degli
affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso
Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era che vi fosse sembianza
di discutere liberamente quello che già il consolo aveva ordinato
imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della
Cisalpina, volere consigliarsi con gli uomini savi di lei; niuna cosa
più desiderare che la independenza e la salute sua; amarla come sua
figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria; l'arte
allignava, bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in
cinque congregazioni che rappresentavano i cinque popoli, esaminassero
la costituzione già data dal consolo per Petiel a Milano, e come per
leggi organiche si potesse mandar ad esecuzione.
Discutevasi a Lione dai mandatarii; la licenza soldatesca straziava
intanto i mandatori, un inesorabile governo con le tasse li conquideva.
Dolevansi e delle perdute sostanze e degli innumerevoli oltraggi e
della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono
soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva
e si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto
potesse parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il
consolo: era l'11 gennaio. Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano.
Era spettacolo grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi
dentro, perchè là si macchinava di spegnere per legge la libertà che
già innanzi era perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza e la
semplicità del consolo: pareva loro che fossero parte di grandezza; le
adulazioni sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano,
ma s'infingevano non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per
non esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava
a chiamarli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i
presidenti delle congregazioni e con loro discorreva intorno alla
costituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio.
Contradditor benigno e docile alle risposte, pareva che da altri
ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava
l'arte; chi l'ignorava, la modestia. Infine dai discorsi permessi si
venne alla conclusione comandata: fu approvata la costituzione; parve
buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli
per la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle
congregazioni.
Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui mezza Italia era
stata fatta venire in Francia. Meno una costituzione che un esempio si
aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un presidente della
Cisalpina. Importava la persona, importava la durata del magistrato:
a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data l'intesa ai
cisalpini perchè il chiamassero capo della repubblica e gli dessero
il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e potesse essere
rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due deliberazioni
qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte colle potenze per la
evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse padrone della
Cisalpina. Importava anche il confessare che niun cisalpino fosse
atto a governare: alcuni andavano alla volta di Melzi. I ministri di
Buonaparte fecero diligenze coi partigiani, ora lodando Melzi, ora
asseverando che avrebbe grande autorità nei nuovi ordini. Ebbero le
arti il fine desiderato. Appresentaronsi con la deliberazione fatta i
Cisalpini al consolo, nella quale era tanta adulazione di lui e tanta
depressione di loro medesimi, che non è da credere che nelle storie
vi sia un atto più umile o più vergognoso di questo. Confessarono, e
si forzarono anche di pruovare con loro ragioni, a tanto di viltà eran
ridotti, che nissun Cisalpino era che idoneamente li potesse governare.
Gradì il consolo nelle umili parole i proprii comandamenti; disse
che domani fra i convocati cisalpini in pubblica adunanza sederebbe.
Accompagnato dai ministri di Francia, dai consiglieri di Stato, dai
generali, dai prefetti e dai magistrati municipali di Lione, fra le
liete accoglienze ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio
recatosi, così loro favellava: «Hovvi in Lione, come principali
cittadini della Cisalpina repubblica appresso a me adunati; voi mi
avete bastanti lumi dato, perchè l'augusto carico a me imposto, come
primo magistrato del popolo franzese e come primo creator vostro,
riempire io potessi. Le elezioni dei magistrati io feci senza amore
di parti o di luoghi; quanto al supremo grado di presidente, niuno ho
trovato fra di voi che per servigi verso la patria, per autorità nel
popolo, per sceveramento di parti abbia meritato ch'io un tal carico
gli commettessi. Muovonmi i motivi da voi prudentemente addotti: ai
vostri desiderii consento. Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran
mole delle faccende vostre. Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la
confermazione dello Stato vostro e la prosperità dei vostri popoli. Voi
non avete leggi generali, non eserciti forti; ma Dio vi salva, poichè
possedete quanto li può creare, dico popolazioni numerose, campagne
fertili, esempio da Francia.» (Versione del Botta.)
Questo favellare superbo fu da altissimi plausi e di Franzesi e
di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati mitigata
dall'imperio sopra i forastieri, dall'altro amareggiata dal vilipendio;
pure lietissimamente applaudivano i servi doppii, come se onorati
e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica, non più
cisalpina, ma italiana si chiamasse, cosa molto pregna, massimamente in
mano di Buonaparte. Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando,
le parole Prina Novarese, il quale, essendo di natura severa ed
arbitraria, molto bene aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui.
Chiamarono gl'Italici ad alla voce il consolo presidente per dieci
anni, e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vicepresidente.
Era Melzi uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva
all'assoluto, ma piuttosto per grandezza che per vanità.
Restava che si ordinasse la costituzione: cominciossi dagli ordini
ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e romana
religione dello Stato: ciò non ostante, i riti acattolici liberamente
si potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi,
gl'instituisse la santa Sede; nominassero i vescovi ed instituissero
i parrochi, il governo gli appruovasse: ciascuna diocesi avesse
un capitolo metropolitano ed un seminario; i beni non alienati
si restituissero al clero; si definissero le congrue in beni pei
vescovi, pei capitoli, pei seminarii, per le fabbriche, fra tre mesi;
si assegnassero pensioni convenienti ai religiosi soppressi; non
s'innovassero i confini delle diocesi; per gl'innovati si domandasse
la approvazione della santa Sede; gli ecclesiastici delinquenti con
le pene canoniche fossero dai vescovi puniti; se gli ecclesiastici
non si rassegnassero, i vescovi ricorressero al braccio secolare;
se un ecclesiastico fosse condannato per delitto, si avvisasse il
vescovo della condanna, acciocchè quanto dalle leggi canoniche fosse
prescritto potesse fare: ogni atto pubblico che o i buoni costumi
corrompesse, od il culto o i suoi ministri offendesse, fosse proibito;
niun parroco potesse essere sforzato da nissun magistrato a ministrare
il sacramento del matrimonio a chiunque fosse vincolato da impedimento
canonico. A questo modo fu ordinata la Chiesa italiana nella lionese
consulta. Alcuni capi, ancorchè forse laudabili e sani, toccavano la
giurisdizione ecclesiastica, e sarebbe stato necessario, l'intervento
del pontefice. Nondimeno con acconcio discorso a nome di tutto il
clero italico assentiva lo arcivescovo di Ravenna, assentimento
non necessario se l'autorità civile aveva dritto di fare quello che
fece, non sufficiente, se l'intervento dell'autorità pontificia era
necessario. Ma il consolo su quelle prime tenerezze di amicizia col
papa non aveva timore.
Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti
e dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica:
in loro era investita la autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse
nominare i membri della censura, della consulta di Stato, del corpo
legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera
dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata costituzione
e per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il
governo per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in
Milano, i dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si
adunassero.
Magistrato supremo era la censura: componessesi da nove possidenti,
di sei dotti, di sei commercianti: sedesse in Cremona: desse per sè
e giudicasse le accuse date per violata costituzione e per peculato;
cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse;
dieci giorni, e non più, sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età
servile il rendeva inutile.
Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad
un vicepresidente, ad una consulta di Stato, ai ministri, ad un
consiglio legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, e il
vicepresidente nominasse: fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto
verso lo Stato.
Uffizio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le
instruzioni pei ministri presso le potenze e l'esaminare i trattati.
Potesse nei casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini
ed all'esercizio della costituzione: provvedesse in qualunque modo alla
salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse
necessaria in uno o più ordini della costituzione, sì la proponesse ai
collegi, ed i collegi definissero.
Avesse il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai
progetti di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra
quanti affari fosse da lui richiesto.
Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non
discutesse nè parlasse: solo squittinasse.
Tali furono i principali ordini della costituzione dell'Italiana
repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di
censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare.
Letta ed accettata la costituzione, se ne tornava il consolo, traendo a
calca e con acclamazioni il popolo, nel suo palazzo. Poscia, ricevute
le salutazioni degl'Italici e nominati i ministri, si avviava,
contento del successo del suo italiano sperimento, al maraviglioso e
maravigliato Parigi.
Fecersi molte allegrezze nell'italiana repubblica per la data
costituzione e per l'acquistato presidente. Le adulazioni montarono
al colmo. Presersi solennemente i magistrati secondo gli ordini
nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente del consolo,
modestamente di sè, acerbamente dei predecessori: toccò principalmente
delle corruttele. Intanto i soldati si descrivevano, ed i buoni
reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè
prospera la rendita dello Stato, che, nonostante il tributo annuo che
pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le
lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere.
Buon modo avea trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori
non facessero scarriere: questo fu di arricchirli e di chiamarli
ai primi gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto
vivere, tacevano o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli
assaliva, e negl'intimi simposii loro si sfogavano e si divertivano a
spese del presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non li
temeva. Insomma la letteratura servile, le finanze prospere, i soldati
ordinati, l'independenza nulla.
Fra tutto questo sorgevano opere di singolare maguificenza: il
foro Buonaparte, come il chiamavano, fondessi nel luogo dove prima
s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso
disegno che molto ritraeva della romana grandezza. Diessi mano al
finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu
promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavoro che in
parecchi secoli. Da ogni parte si acquistava la bellezza. Tutte queste
cose e quel nome di repubblica italiana singolarmente allettavano i
popoli della penisola. Così vissesi qualche tempo in lei, finchè nuovi
disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi pericoli ed a nuovi
destini.
A questo nome di repubblica Italiana ed all'esserne Buonaparte fatto
capo, si insospettarono giustamente le potenze, massimamente l'Austria,
alla quale stavano per le sue possessioni più a cura le italiane cose.
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