Annali d'Italia, vol. 8 - 72
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sentire l'impressione dell'armi franzesi nel Vicentino, nel Padovano e
nel Trivigiano. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige,
mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè
serrasse la strada a Laudon ed a Wukassovich, che già scendevano dal
Tirolo, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là dond'erano
venuti, li perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald,
procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in
quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla
superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne
scoscese e rotte sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il
suo effetto, Laudon e Wukassovich, combattuti sopra da Macdonald,
sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente
il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente
gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei
successivi passaggi, ora dei Franzesi, ora di Tedeschi. Bellegarde,
informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione
per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato
solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco
dopo si arrese sulle rive del Brenta. Al tempo stesso accortosi quanto
la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassovich, aveva loro
comandato che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la
valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con
lui nei contorni di Bassano.
In questo punto pervennero le novelle che dopo la vittoria di
Hohenlinden, guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era
stata conclusa a Steyer il giorno 25 dicembre una tregua tra il
generale franzese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un
trattato simile di sospensione di offese; ma, esigendo, conforme alle
istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e
porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si
continuò la guerra.
Anno di CRISTO MDCCCI. Indizione IV.
PIO VII papa 2.
FRANCESCO II imperadore 10.
Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano
a serrare da ogni parte Wukassovich e Laudon, per impedir loro la
facoltà del ritirarsi. Ma il primo, alloggiato superiormente al
secondo, e prestamente obbedendo a Bellegarde, entrato per Pergine
nella valle del Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la
sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo;
il secondo, pel contrario, si trovava in molto ardua condizione,
imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin
sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzi
che Macdonald vi arrivasse. Era, oltre a ciò, aspramente combattuto da
Moncey dalla parte inferiore, per modo, che cacciato all'insù da un
sito all'altro, aveva anche abbandonato al vincitore la possessione
di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza che
Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassovich aveva fatto a
Trento, s'impadroniva di questa ultima capitale del Tirolo italiano.
Era dunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra
speranza gli restava che quella di condursi, per le strette ripide
e malagevoli di Cadonazzo, a Levico. Ma illuso Moncey colla notizia
d'una tregua, frettolosamente marciando per approfittar dell'inganno,
a Levico arrivava a salvamento, donde calando con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali
della repubblica, dolenti ambidue dell'essere stati ingannati. Restava
a Macdonald che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le
imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige sino a Bolzano
ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per uscire alle
spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria.
Infatti, già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi
gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con
quattro mila soldati; non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald
l'esecuzione del suo animoso disegno.
Eransi Wukassovich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna, ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dal Brenta,
riducendosi sulle sponde del Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria, si concluse, il dì
16 gennaio, a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera
e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la
cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero
ai Franzesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani ad ottocento
braccia dallo spalto, con facoltà al presidio di procacciarsi viveri
di dieci in dieci giorni; i magistrati austriaci si rispettassero;
la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per
fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al
consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito che
l'Austria possedesse Mantova. Fu forza cedere, e, per un nuovo accordo
fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei
Franzesi.
La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli,
perchè per lei potevano i Franzesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo Stato
romano era, andato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro
lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi e coi
fuorusciti aretini s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato
a rumore le parti superiori del granducato. Al quale moto sollevati
gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, si incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove
il generale franzese aveva la sua principale stanza. Queste cose
accadevano sul principiare del presente anno. Disperando Miollis,
perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti
di Franzesi, Cisalpini e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due
nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combatterli separati,
usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani, condotti
dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti cisalpini
e di cavalli piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa
colonna di cinque o sei mila fanti napolitani, e valorosamente urtando
con le baionette, li voltava in fuga. Volle il conte far testa in
Siena; ma Pino, guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal
fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e, fracassate
coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il
conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini; ma pressando
viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad
abbandonar tostamente i territorii toscani, ritirandosi in quei di Roma
per l'oscurità della notte.
Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis per valore
de' suoi e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde.
Queste erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione
di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del
regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome
gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in
Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per
invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una
forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla
riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua
ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal
settentrione.
Carolina regina, donna di mente forte, e che non dava molta fede alle
matte credenze ed alle parole gonfie, si era risoluta, voltando tutto
l'animo alle speranze russe, e non isperando in altro modo congiunzione
con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad
intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque
la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il
generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due
potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè
secondava i suoi fini. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a
trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo
le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a
Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu dunque il dì 18 febbraio
accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità
della Russia, una tregua, principali capitoli della quale furono che
i soldati regi sgombrassero dallo Stato romano; che i repubblicani
occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti
i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e
contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferraio e
Porto-longone nell'isola d'Elba fintantochè gl'Inglesi non avessero
sgombrato da Porto-ferraio; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di
Messina; che si restituissero gli ufficiali ed i generali franzesi;
che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni
di Francia per coloro che fossero o banditi o carcerati per opinioni
politiche.
Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il
territorio della Chiesa; prevenendo le istanze del consolo, aboliva
tribunali straordinarii, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat,
tra per vanagloria d'entrar qual liberatore in Roma e per adescare
ai futuri disegni, venutovi dentro e concorrendo a lui il popolo, si
condusse a far riverenza al pontefice.
Ogni cosa si componeva a concordia. Negoziavasi a Luneville per
l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe
Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere.
Dopo qualche contenzione, pigliarono forma che il trattato definitivo
di pace fosse sottoscritto il dì 9 di febbraio. I capitoli principali
quanto all'Italia furono quelli stessi del trattato di Campoformio,
solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo
infino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli Stati
d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago
spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava
l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa dal
perduto ducato; rinunziasse il granduca alla Toscana ed all'isola
d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma: il
granduca si ricompensasse con Stati competenti in Germania; conoscesse
e riconoscesse l'imperatore le repubbliche cisalpina e ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territori della
Cisalpina; consentisse all'unione dei feudi imperiali colla repubblica
ligure. Del Piemonte nulla si stipulava.
Il re di Napoli, ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana
di Paolo ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze, il dì 28 di marzo,
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia
da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio che il re
rinunziasse primieramente e per sempre a Porto-longone ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba; secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria e da farne ogni voler suo, gli Stati dei Presidii ed
il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico
commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse
i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse
loro restituita ogni proprietà; da ambe le parte si dimenticassero le
offese.
Le cose si fermarono anche con nuova composizione con la Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid, il dì 21 marzo, da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia; che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca col titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri Stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re di Etruria collo Stato di Piombino;
che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che
se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re
di Spagna.
Così, in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedette ai buonapartiani
fatti. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per
diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le
controversie, il consolo contrasse amicizia coll'imperatore Paolo,
s'accordò coll'imperatore Francesco, e rialzò la Francia da bassa ad
eminente fortuna.
Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea costituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica, rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi,
qual era stata accordata tra Leone X e Francesco I, e tolto i beni
alla Chiesa, con appropriargli alla nazione. I governi che vennero
dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero
gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine
religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni
anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato e le
proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora
confinandoli nell'esilio, ora serrandoli nelle prigioni, e sempre
impedendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente
celebrassero i riti divini. Era quindi nato un desiderio in Francia
di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Franzesi
in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile
sembrava la reintegrazione. Buonaparte non era uomo da non vedersi
queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza
e per arrivare a' suoi fini smisurati. Adunque, divenuto libero dai
pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava
viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne
con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Alcuni accidenti
aiutavano queste pratiche, altri le disaiutavano. Dava favore al
consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che, dipendentemente
da un altro tenuto nel 1797 con suo consentimento espresso era per
adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva
che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare,
quantunque fossero giurati e contrarii a quella pienezza di potestà che
i papi sostengono spettarsi alla Sedia apostolica. Da un'altra parte la
romana curia ardentemente impugnava le loro dottrine. Le disputazioni,
come accade, s'inasprivano.
Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli
dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il
papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori
della santa Sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che
desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi
erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura e per uso e
per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del
papa che il governo largo e popolare degli avversarii, e gli pareva
che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale,
fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i
giansenisti gente di molta fede e di ristretti pensieri; nè gli pareva
che la costituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di
molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace
pensiero, e più conforme ai desiderii dei popoli, gli pareva che
abbisognasse.
Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati, e non
istava senza timore che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, che avevano e con
fatti perseguitato e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì in quei primi principii la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda
dei beni della Chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere
dal papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e
sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna
espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era
fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati
erano di gran nome e di qualche autorità, e il consolo li voleva
vezzeggiare; ma l'impetrare dal papa che non solamente gli assolvesse
e nel grembo suo li riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai
primi seggi della gallicana Chiesa li sollevasse, appariva intricato
e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli
ecclesiastici della parte contraria che avevano conservato i seggi loro
anche ai tempi dell'esilio, ed ai quali non avrebbero forse voluto
rinunziare, parte per insistenza nelle antiche opinioni, parte per
affezione alla famiglia reale di Francia.
Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il
capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè, essendo i
medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo
di scandalo, in mezzo a popolazioni infette di usi e di opinioni
contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente e secondo
tutti gli usi della Chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero
enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione che
edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa
insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione,
volendo indugiare a tempo più propizio i desiderii di Roma.
Nonostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta
importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire,
mandava Pio VII a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario
di Stato, Giuseppe Spina, arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli,
teologo consultore della santa Sede. Dal canto suo dava il consolo
facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet,
consigliere di Stato, ed a Bernier, curato di San-Lodo d'Angeri. Da
questi si venne, il dì 15 luglio, al trattato definitivo tra la santa
Sede e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta
importanza, poichè per lui si restituiva alla Chiesa cattolica una
parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di
coscienza timorata e pia.
Confessatosi dal governo franzese che la religione cattolica,
apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Franzesi, e
confessatosi altresì da Sua Beatitudine che dalla sua reintegrazione in
Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore,
convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica
apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a
quelle regole conformandosi che il governo giudicherebbe necessarie per
la quiete dello Stato; s'accorderebbero la santa Sede ed il governo
ad ordinare una nuova circoscrizione delle diocesi; esorterebbe il
pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e, se nol
facessero, con la elezione di nuove titolari provvederebbe, nominerebbe
il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di sua Santità,
gli arcivescovi ed i vescovi secondo la nuova circoscrizione, e
conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole
costituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse; le
sedi vescovili, che in progresso vacassero, ugualmente con nominazioni
fatte dal consolo si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme
al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi
e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla
repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria
allo Stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli;
i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parrocchie nè
nominare parochi se non a beneplacito del governo; le chiese non
vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto
riguardo alla pace ed alla reintegrazione della religione in Francia,
che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli
acquisitori dei beni ecclesiastici alienati, e che, per conseguente,
la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessivi, fossero
e restassero incomutabilmente in loro, nei loro eredi e negli aventi
causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui
assegnamenti ai vescovi ed ai parrochi, e provvedere che i fedeli di
Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione.
Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e
prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi
sovrani di Francia. Se accadesse che un consolo cattolico arrivasse
al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così
ancora la forma delle elezione dei vescovi si regolassero per un nuovo
accordo.
Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone
più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei
vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo servirono alla
reintegrazione dell'autorità papale piena in Francia.
Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò
gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle
massime della curia romana apertamente biasimavano i plenipotenziari
dello avere troppo largheggiato nelle concessioni e grandemente offeso
i diritti e le prerogative della Chiesa cattolica. Il papa medesimo,
siccome quegli che molto timorato era e delle prerogative della santa
Sede zelantissimo, se ne stava in forse non sapendo risolversi al
ratificare. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi
più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinal Albani e frate
Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'Officio.
S'accordarono ambidue che il papa, salva coscienza, potesse ratificare.
Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario,
non soprastette più lungamente Pio VII a dare il suo assenso e ratificò
il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari,
acciocchè alle sedi loro rinunziassero. Alcuni rinunziarono; la maggior
parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra,
ricusarono. Dei giurati, Primat, le Blanc di Beaulieu, Perrier, Lecoz,
Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse e nelle sedi destinate
dal consolo gl'instituisse, impetrarono.
Anno di CRISTO MDCCCII. Indizione V.
PIO VII papa 3.
FRANCESCO II imperadore 11.
Rimossi tutti gl'impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua
del presente anno il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare in
cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai
Franzesi col solito stile discorreva che da una rivoluzione prodotta
dall'amor della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse
il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze
dei nemici; uomini insensati aver atterrato gli altari, spento la
religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un
l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore
di tutti, si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i
moribondi quella voce consolatrice che chiama i cristiani a miglior
vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti
distrutti dall'ire religiose, forastieri chiamati a danni della patria,
passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza,
dissoluzione di società: sola religione avere potuto portarvi rimedio;
averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice,
averlo i legislatori della repubblica approvato: così essere sorto
il concordato, così spenti i semi delle discordie, così svanire gli
scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace.
Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni,
le disgrazie, gli errori; con la patria la religione li riconciliasse;
con la patria li ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle
leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero: consigliassero,
predicassero, inculcassero che il Dio della pace era peranco il Dio
degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a
favor di coloro che la libertà della Francia difendevano.
Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la reintegrata
religione; gioinne anche maravigliosamente Roma: ma non fu il
contento del pontefice senza amarezze; conciossiachè il consolo aveva
accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di
disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto che, secondo taluni,
offendevano le prerogative della santa Sede, o ristringevano l'autorità
dei vescovi, o difficoltavano l'ingresso allo Stato ecclesiastico. Le
quali regole, quantunque potessero parer giuste e necessarie sì per
la sicurezza della potestà temporale come pel buon ordine dello Stato,
ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in
altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, rendevano mal suono; ma
il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava
la giurisdizione, e questa fu, che i vicarii generali delle diocesi
vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile anche dopo la morte
del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse.
Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse.
Orava in concistoro Pio VII, descrivendo con singolare facondia i
negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia.
Quindi instò perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo che,
ottenuto il concordato, voleva essere padrone della Chiesa, non che la
Chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugi, ora con minaccie,
nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale
conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove
condiscendenze del pontefice e nuove ambizioni del consolo mandarono
ogni cosa in ruina ed in conquasso. A questo modo travagliava Roma con
Francia; nè noi abbiam creduto d'interrompere il filo della narrazione
per riferire altri fatti, de' quali ora riprenderemo il discorso.
Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in
Piemonte. Aveva il consolo voglia di serbar questo paese per sè, ma
indugiava al risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni.
Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a
Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze
e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la
battaglia di Marengo e la presenza del marchese a Parigi tenevano in
pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo
di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma o Napoli, dove
abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emmanuele. Sorsero
nel Trivigiano. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige,
mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè
serrasse la strada a Laudon ed a Wukassovich, che già scendevano dal
Tirolo, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là dond'erano
venuti, li perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald,
procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in
quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla
superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne
scoscese e rotte sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il
suo effetto, Laudon e Wukassovich, combattuti sopra da Macdonald,
sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente
il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente
gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei
successivi passaggi, ora dei Franzesi, ora di Tedeschi. Bellegarde,
informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione
per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato
solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco
dopo si arrese sulle rive del Brenta. Al tempo stesso accortosi quanto
la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassovich, aveva loro
comandato che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la
valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con
lui nei contorni di Bassano.
In questo punto pervennero le novelle che dopo la vittoria di
Hohenlinden, guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era
stata conclusa a Steyer il giorno 25 dicembre una tregua tra il
generale franzese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un
trattato simile di sospensione di offese; ma, esigendo, conforme alle
istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e
porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si
continuò la guerra.
Anno di CRISTO MDCCCI. Indizione IV.
PIO VII papa 2.
FRANCESCO II imperadore 10.
Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano
a serrare da ogni parte Wukassovich e Laudon, per impedir loro la
facoltà del ritirarsi. Ma il primo, alloggiato superiormente al
secondo, e prestamente obbedendo a Bellegarde, entrato per Pergine
nella valle del Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la
sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo;
il secondo, pel contrario, si trovava in molto ardua condizione,
imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin
sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzi
che Macdonald vi arrivasse. Era, oltre a ciò, aspramente combattuto da
Moncey dalla parte inferiore, per modo, che cacciato all'insù da un
sito all'altro, aveva anche abbandonato al vincitore la possessione
di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza che
Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassovich aveva fatto a
Trento, s'impadroniva di questa ultima capitale del Tirolo italiano.
Era dunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra
speranza gli restava che quella di condursi, per le strette ripide
e malagevoli di Cadonazzo, a Levico. Ma illuso Moncey colla notizia
d'una tregua, frettolosamente marciando per approfittar dell'inganno,
a Levico arrivava a salvamento, donde calando con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali
della repubblica, dolenti ambidue dell'essere stati ingannati. Restava
a Macdonald che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le
imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige sino a Bolzano
ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per uscire alle
spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria.
Infatti, già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi
gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con
quattro mila soldati; non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald
l'esecuzione del suo animoso disegno.
Eransi Wukassovich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna, ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dal Brenta,
riducendosi sulle sponde del Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria, si concluse, il dì
16 gennaio, a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera
e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la
cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero
ai Franzesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani ad ottocento
braccia dallo spalto, con facoltà al presidio di procacciarsi viveri
di dieci in dieci giorni; i magistrati austriaci si rispettassero;
la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per
fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al
consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito che
l'Austria possedesse Mantova. Fu forza cedere, e, per un nuovo accordo
fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei
Franzesi.
La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli,
perchè per lei potevano i Franzesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo Stato
romano era, andato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro
lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi e coi
fuorusciti aretini s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato
a rumore le parti superiori del granducato. Al quale moto sollevati
gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, si incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove
il generale franzese aveva la sua principale stanza. Queste cose
accadevano sul principiare del presente anno. Disperando Miollis,
perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti
di Franzesi, Cisalpini e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due
nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combatterli separati,
usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani, condotti
dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti cisalpini
e di cavalli piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa
colonna di cinque o sei mila fanti napolitani, e valorosamente urtando
con le baionette, li voltava in fuga. Volle il conte far testa in
Siena; ma Pino, guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal
fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e, fracassate
coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il
conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini; ma pressando
viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad
abbandonar tostamente i territorii toscani, ritirandosi in quei di Roma
per l'oscurità della notte.
Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis per valore
de' suoi e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde.
Queste erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione
di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del
regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome
gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in
Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per
invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una
forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla
riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua
ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal
settentrione.
Carolina regina, donna di mente forte, e che non dava molta fede alle
matte credenze ed alle parole gonfie, si era risoluta, voltando tutto
l'animo alle speranze russe, e non isperando in altro modo congiunzione
con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad
intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque
la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il
generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due
potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè
secondava i suoi fini. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a
trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo
le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a
Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu dunque il dì 18 febbraio
accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità
della Russia, una tregua, principali capitoli della quale furono che
i soldati regi sgombrassero dallo Stato romano; che i repubblicani
occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti
i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e
contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferraio e
Porto-longone nell'isola d'Elba fintantochè gl'Inglesi non avessero
sgombrato da Porto-ferraio; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di
Messina; che si restituissero gli ufficiali ed i generali franzesi;
che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni
di Francia per coloro che fossero o banditi o carcerati per opinioni
politiche.
Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il
territorio della Chiesa; prevenendo le istanze del consolo, aboliva
tribunali straordinarii, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat,
tra per vanagloria d'entrar qual liberatore in Roma e per adescare
ai futuri disegni, venutovi dentro e concorrendo a lui il popolo, si
condusse a far riverenza al pontefice.
Ogni cosa si componeva a concordia. Negoziavasi a Luneville per
l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe
Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere.
Dopo qualche contenzione, pigliarono forma che il trattato definitivo
di pace fosse sottoscritto il dì 9 di febbraio. I capitoli principali
quanto all'Italia furono quelli stessi del trattato di Campoformio,
solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo
infino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli Stati
d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago
spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava
l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa dal
perduto ducato; rinunziasse il granduca alla Toscana ed all'isola
d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma: il
granduca si ricompensasse con Stati competenti in Germania; conoscesse
e riconoscesse l'imperatore le repubbliche cisalpina e ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territori della
Cisalpina; consentisse all'unione dei feudi imperiali colla repubblica
ligure. Del Piemonte nulla si stipulava.
Il re di Napoli, ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana
di Paolo ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze, il dì 28 di marzo,
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia
da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio che il re
rinunziasse primieramente e per sempre a Porto-longone ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba; secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria e da farne ogni voler suo, gli Stati dei Presidii ed
il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico
commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse
i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse
loro restituita ogni proprietà; da ambe le parte si dimenticassero le
offese.
Le cose si fermarono anche con nuova composizione con la Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid, il dì 21 marzo, da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia; che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca col titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri Stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re di Etruria collo Stato di Piombino;
che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che
se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re
di Spagna.
Così, in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedette ai buonapartiani
fatti. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per
diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le
controversie, il consolo contrasse amicizia coll'imperatore Paolo,
s'accordò coll'imperatore Francesco, e rialzò la Francia da bassa ad
eminente fortuna.
Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea costituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica, rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi,
qual era stata accordata tra Leone X e Francesco I, e tolto i beni
alla Chiesa, con appropriargli alla nazione. I governi che vennero
dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero
gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine
religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni
anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato e le
proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora
confinandoli nell'esilio, ora serrandoli nelle prigioni, e sempre
impedendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente
celebrassero i riti divini. Era quindi nato un desiderio in Francia
di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Franzesi
in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile
sembrava la reintegrazione. Buonaparte non era uomo da non vedersi
queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza
e per arrivare a' suoi fini smisurati. Adunque, divenuto libero dai
pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava
viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne
con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Alcuni accidenti
aiutavano queste pratiche, altri le disaiutavano. Dava favore al
consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che, dipendentemente
da un altro tenuto nel 1797 con suo consentimento espresso era per
adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva
che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare,
quantunque fossero giurati e contrarii a quella pienezza di potestà che
i papi sostengono spettarsi alla Sedia apostolica. Da un'altra parte la
romana curia ardentemente impugnava le loro dottrine. Le disputazioni,
come accade, s'inasprivano.
Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli
dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il
papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori
della santa Sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che
desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi
erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura e per uso e
per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del
papa che il governo largo e popolare degli avversarii, e gli pareva
che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale,
fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i
giansenisti gente di molta fede e di ristretti pensieri; nè gli pareva
che la costituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di
molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace
pensiero, e più conforme ai desiderii dei popoli, gli pareva che
abbisognasse.
Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati, e non
istava senza timore che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, che avevano e con
fatti perseguitato e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì in quei primi principii la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda
dei beni della Chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere
dal papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e
sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna
espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era
fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati
erano di gran nome e di qualche autorità, e il consolo li voleva
vezzeggiare; ma l'impetrare dal papa che non solamente gli assolvesse
e nel grembo suo li riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai
primi seggi della gallicana Chiesa li sollevasse, appariva intricato
e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli
ecclesiastici della parte contraria che avevano conservato i seggi loro
anche ai tempi dell'esilio, ed ai quali non avrebbero forse voluto
rinunziare, parte per insistenza nelle antiche opinioni, parte per
affezione alla famiglia reale di Francia.
Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il
capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè, essendo i
medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo
di scandalo, in mezzo a popolazioni infette di usi e di opinioni
contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente e secondo
tutti gli usi della Chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero
enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione che
edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa
insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione,
volendo indugiare a tempo più propizio i desiderii di Roma.
Nonostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta
importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire,
mandava Pio VII a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario
di Stato, Giuseppe Spina, arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli,
teologo consultore della santa Sede. Dal canto suo dava il consolo
facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet,
consigliere di Stato, ed a Bernier, curato di San-Lodo d'Angeri. Da
questi si venne, il dì 15 luglio, al trattato definitivo tra la santa
Sede e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta
importanza, poichè per lui si restituiva alla Chiesa cattolica una
parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di
coscienza timorata e pia.
Confessatosi dal governo franzese che la religione cattolica,
apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Franzesi, e
confessatosi altresì da Sua Beatitudine che dalla sua reintegrazione in
Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore,
convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica
apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a
quelle regole conformandosi che il governo giudicherebbe necessarie per
la quiete dello Stato; s'accorderebbero la santa Sede ed il governo
ad ordinare una nuova circoscrizione delle diocesi; esorterebbe il
pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e, se nol
facessero, con la elezione di nuove titolari provvederebbe, nominerebbe
il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di sua Santità,
gli arcivescovi ed i vescovi secondo la nuova circoscrizione, e
conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole
costituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse; le
sedi vescovili, che in progresso vacassero, ugualmente con nominazioni
fatte dal consolo si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme
al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi
e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla
repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria
allo Stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli;
i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parrocchie nè
nominare parochi se non a beneplacito del governo; le chiese non
vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto
riguardo alla pace ed alla reintegrazione della religione in Francia,
che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli
acquisitori dei beni ecclesiastici alienati, e che, per conseguente,
la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessivi, fossero
e restassero incomutabilmente in loro, nei loro eredi e negli aventi
causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui
assegnamenti ai vescovi ed ai parrochi, e provvedere che i fedeli di
Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione.
Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e
prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi
sovrani di Francia. Se accadesse che un consolo cattolico arrivasse
al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così
ancora la forma delle elezione dei vescovi si regolassero per un nuovo
accordo.
Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone
più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei
vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo servirono alla
reintegrazione dell'autorità papale piena in Francia.
Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò
gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle
massime della curia romana apertamente biasimavano i plenipotenziari
dello avere troppo largheggiato nelle concessioni e grandemente offeso
i diritti e le prerogative della Chiesa cattolica. Il papa medesimo,
siccome quegli che molto timorato era e delle prerogative della santa
Sede zelantissimo, se ne stava in forse non sapendo risolversi al
ratificare. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi
più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinal Albani e frate
Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'Officio.
S'accordarono ambidue che il papa, salva coscienza, potesse ratificare.
Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario,
non soprastette più lungamente Pio VII a dare il suo assenso e ratificò
il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari,
acciocchè alle sedi loro rinunziassero. Alcuni rinunziarono; la maggior
parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra,
ricusarono. Dei giurati, Primat, le Blanc di Beaulieu, Perrier, Lecoz,
Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse e nelle sedi destinate
dal consolo gl'instituisse, impetrarono.
Anno di CRISTO MDCCCII. Indizione V.
PIO VII papa 3.
FRANCESCO II imperadore 11.
Rimossi tutti gl'impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua
del presente anno il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare in
cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai
Franzesi col solito stile discorreva che da una rivoluzione prodotta
dall'amor della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse
il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze
dei nemici; uomini insensati aver atterrato gli altari, spento la
religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un
l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore
di tutti, si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i
moribondi quella voce consolatrice che chiama i cristiani a miglior
vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti
distrutti dall'ire religiose, forastieri chiamati a danni della patria,
passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza,
dissoluzione di società: sola religione avere potuto portarvi rimedio;
averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice,
averlo i legislatori della repubblica approvato: così essere sorto
il concordato, così spenti i semi delle discordie, così svanire gli
scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace.
Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni,
le disgrazie, gli errori; con la patria la religione li riconciliasse;
con la patria li ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle
leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero: consigliassero,
predicassero, inculcassero che il Dio della pace era peranco il Dio
degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a
favor di coloro che la libertà della Francia difendevano.
Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la reintegrata
religione; gioinne anche maravigliosamente Roma: ma non fu il
contento del pontefice senza amarezze; conciossiachè il consolo aveva
accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di
disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto che, secondo taluni,
offendevano le prerogative della santa Sede, o ristringevano l'autorità
dei vescovi, o difficoltavano l'ingresso allo Stato ecclesiastico. Le
quali regole, quantunque potessero parer giuste e necessarie sì per
la sicurezza della potestà temporale come pel buon ordine dello Stato,
ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in
altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, rendevano mal suono; ma
il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava
la giurisdizione, e questa fu, che i vicarii generali delle diocesi
vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile anche dopo la morte
del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse.
Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse.
Orava in concistoro Pio VII, descrivendo con singolare facondia i
negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia.
Quindi instò perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo che,
ottenuto il concordato, voleva essere padrone della Chiesa, non che la
Chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugi, ora con minaccie,
nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale
conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove
condiscendenze del pontefice e nuove ambizioni del consolo mandarono
ogni cosa in ruina ed in conquasso. A questo modo travagliava Roma con
Francia; nè noi abbiam creduto d'interrompere il filo della narrazione
per riferire altri fatti, de' quali ora riprenderemo il discorso.
Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in
Piemonte. Aveva il consolo voglia di serbar questo paese per sè, ma
indugiava al risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni.
Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a
Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze
e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la
battaglia di Marengo e la presenza del marchese a Parigi tenevano in
pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo
di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma o Napoli, dove
abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emmanuele. Sorsero
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