Annali d'Italia, vol. 8 - 71

magnifico, di cui solo si trovano modelli negli Stati Uniti d'America
per munificenza del congresso, com'erano in Polonia per munificenza
dell'imperatore Alessandro.
Fu questo conforto piccolo pei tempi, perchè le disgrazie sormontavano.
Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente,
famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte
d'incamminarlo a più certo destino.
Le sorti di Genova erano del pari infelici, parte pei medesimi motivi,
parte per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria, abbandonava
Hohenzollern Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas,
esatto dai sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in
presto ad uso dei soldati. I Franzesi, condotti da Suchet, entrarono
nella desolata città il dì 24 giugno. Quante sventure e quanti dolori
abbiano in sè queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può
giudicare. Trattaronla i Franzesi duramente, come se fosse sana ed
intera.
Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione
di governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa;
creava una consulta colla potestà legislativa; creava finalmente presso
il governo ligure un ministro straordinario, chiamandovi il generale
Dejean. Nella presa del magistrato sorsero le solite adulazioni,
maggiori però da parte del ministro straordinario che del governo.
Più certo e più chiaro era il destino di Genova che quel di Piemonte;
perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione che fosse
maggior forza nel governo ligure che nel piemontese, e che le parti
avverse meno si ardissero di contrastargli.
Erano quei della commissione di governo uomini pacifici e dabbene.
Pure, mossi dalle grida dei democrati, stanziarono una legge
d'indennità, della quale il minor male che si possa dire è, ch'era
contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti e
nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato) i
danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire, risarcissero
per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi arbitrii.
Con questi accidenti si viveva il governo povero, obbligato a sopperire
allo Stato ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari e serrava i
porti; Genova, sempre in servitù o periva di fame o periva per ferro;
contristava vieppiù la città, venuta a crudeli strette per la forza,
la malattia pestilenziale che, non che cessasse, montava al colmo.
Due mila perirono in un mese. Brevemente, le condizioni dei tre Stati
contermini era questa; in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria,
incertezza di avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario
sufficiente, maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato
nuovo; in Genova fame, peste e povertà d'erario. Nel resto, in tutti
tre servitù; i governi, fattori di Francia.
Sospinti dalle gravi combinazioni della guerra italica, non si è
fatto fin qui menzione d'un fatto importantissimo, e che avrà non meno
importanti conseguenze. I cardinali, già adunati, come si è detto, in
conclave a Venezia per intendere alla elezione del successore a Pio VI,
nel dì 13 marzo del presente anno assunsero al pontificato il cardinale
Gregorio Barnaba Chiaramonti, vescovo d'Imola, che sotto il nome di
Pio VII fu, nel giorno 21 di detto mese, incoronato nella chiesa di
San Giorgio Maggiore di quell'unica città. Così la fortuna preparava a
Buonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi
disegni, fondamento più potente delle armi, più potente della fama;
poichè il consolo confidava di ridurlo ai suoi pensieri con accarezzar
la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza.
Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle
della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani:
speravano che il signore proprio avesse a liberarli dal signore alieno.
Partiva papa Pio il dì 9 di giugno da Venezia e dopo travagliosa
navigazione arrivava ai 25 a Pesaro. Mandati avanti con suprema
autorità per ricevere lo Stato dagli agenti del re Ferdinando e per
dare qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali Albani, Roverella
e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di luglio in mezzo
alle consuete allegrezze dei Romani.
Provvide alla Chiesa con la creazione di nuovi pastori, allo Stato
con quella di nuovi magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil
fosse, alla forma antica. Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso;
i partigiani della repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al
tempo del dominio franzese alla camera apostolica tornassero, salvo il
rimborso del quarto, ai possessori. Nè molto tempo corse che, volendo
provvedere dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse
dei comuni e dei particolari, tolse alcune tasse, ne pose di nuove.
Volle che i comuni si liberassero dai debiti, sulla camera pontificia
trasferendoli, salvo i debiti contratti per l'annona e gl'interessi
corsi dei debiti anteriori; liberava i comuni dai luoghi di monte,
sullo Stato investendogli, ma al tempo medesimo statuiva che, finchè
l'erario non fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti
si pagassero. Comandava che i quattro quinti si corrispondessero ai
possessori dei monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui
che vacabili fossero esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione.
Aboliva le gabelle privilegiate, quali quelle dei bargelli, del bollo
estinto, dei cavalli morti, o le trasferiva a benefizio dei comuni.
L'opera poi delle contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme
condizione: creava due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine
antica che fosse contraria. Chiamò l'una reale e l'altra dativa.
Quattro erano le parti della prima; un terratico di paoli sei per
ogni centinaio di scudi d'estimo pei fondi rustici, una imposizione
di due paoli per ogni centinaio di scudi di valuta sui palazzi e case
urbane, un balzello di scudi cinque sui cambii per ogni centinaio di
frutti, una contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta
parte di tutte le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed
urbani sopra coloro che consumassero le loro rendite fuori di Stato.
La dativa consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della
mulenda o macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino
che s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici
figliuoli e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi,
fatti anche migliori dal benefizio di aver cassa del tutto la carta
pecuniaria.
Non omise il consolo di considerare le romane cose. Prevedeva
che come la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così
maggiore sarebbe la pace con la Chiesa. Quando poi seppe che il
cardinale Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì
maggiori speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e
però più facile ad essere tirato. Era gran cosa quella che veniva
offerendo il consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in
Francia importava non solamente la restituzione di un gran reame alla
santa Sede, ma ancora la conservazione pura ed intatta degli altri;
conciossiachè non era da dubitare che se la Francia avesse perseverato
nell'andare sviata in materia di religione, anche gli altri paesi
sarebbero stati, o tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la
qual cosa papa Pio VII prestava benigne orecchie a quanto il consolo
gli mandava dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e
dall'ultra, si venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente
alla conclusione, come sarà a suo luogo raccontato.
Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Dopo la vittoria di
Aboukir, comparve questi colla vincitrice armata davanti a Malta, già
bloccata, e tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione
ai Franzesi assediati. Fece più volte, ma invano Nelson, la chiamata
a Vaubois, che la comandava. Incominciava a patire maravigliosamente
di vitto, d'abiti, di denaro; le malattie si moltiplicavano. Non
per questo rimetteva Vaubois della solita costanza, nè allentava
la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambii, costrinse i
principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi in Francia
alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per vestirli, si
fe' dare tele e drappi; per pascerli, farine; spianava pane, obbligava
gl'isolani a venir levare le farine da lui, moltiplicava i conigli ed
il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva lo scorbuto;
il combattevano col coltivare a molta cura nei luoghi più acconci
gli ortaggi. Un Nicolò Isvard di Malta, maestro di musica, componeva
opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame pressava.
Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il Guglielmo
Tell; ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava attento,
e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti. Fecero
i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le scopriva;
davano assalti, e li risospingeva; pruove mirabili di chi si moriva
di fame e di morbo. In cospetto degli assediati, tre navi tolonesi,
cariche di tre mila soldati e di munizioni sì da bocca che da guerra,
venivano in potere di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora, la fame
cresceva. Mandava fuori le bocche disutili; gl'Inglesi, barbaramente,
come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano.
Parecchi morirono di fame sotto le mura, gli altri, più morti che vivi,
furono di nuovo ricettati dai Franzesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi
l'ultima fine. La fame sopravanzò il valore. Vennesi a resa, ma
onorevole, il dì 5 settembre.
Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva
la chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza
sicura con l'espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia
e la Porta Ottomana le condizioni delle possessioni ioniche. A questo
modo le veneziane isole arrivarono, in mezzo a tante guerre, ad una
condizione non solo tollerabile, ma buona, ed in lei vissero parecchi
anni assai felicemente; vennero poi nuove guerre e nuove ambizioni
nuovamente a turbarle.
La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra
nè dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che, mentre si combatteva
in Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove
genti, ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le
mandava ad ingrossare ora l'esercito germanico ed ora l'italico. Un
grosso corpo specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la
condotta di Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad
ambedue. Dal canto suo l'Austria non ometteva di levar nuovi soldati,
massimamente dall'Ungheria, e gli inviava a rinforzar quelli che
alloggiavano ai confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava
tuttavia intero, ed era pronto a contendere di nuovo della vittoria.
Ma non piccolo fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna
sulle mosse di Toscana, che, posta pei capitoli d'Alessandria fuori del
dominio franzese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava
i desiderii dell'imperatore.
Grande odio annidava ancora in Toscana contro i repubblicani,
perchè e troppo oltre era trascorso, nè si cessava di fomentarlo.
Al medesimo fine indirizzava gli animi la reggenza creata in nome
del duca. Il marchese Sommariva, mandato perchè desse forma a quelle
masse incomposte, le ingrossasse e le armasse, con indefessa attività
attendeva a compir l'ufficio che gli era stato commesso. Quelle genti,
siccome quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse
da odio contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui
monti che dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano
molti insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani.
Per la qual cosa, usando l'occasione, non solamente richiedevano la
Toscana e Sommariva che frenassero e punissero i violatori dei confini,
ma ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece
Sommariva risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo
piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al
consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana.
A questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli
Apennini e s'impadronisse di Firenze; a Monnier, andasse a combattere
e a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati; a Clement,
marciasse più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso
l'esito dalle intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la
capitale della Toscana, e l'ultimo partendosi da Lucca, arrivava a
Livorno, dove pose le mani adesso a cinquanta bastimenti inglesi e
ad una quantità grandissima di frumenti. Le cose non successero di
questo dalla parte di Arezzo. Gli Aretini si difendevano virilmente.
Fu presa d'assalto il 19 di ottobre, con moltissimo sangue. Seguitava
una strage, una insolenza, un sacco tale, quale si doveva aspettare da
soldati irritati per ingiurie nuove, che avevano risuscitata la memoria
delle antiche. Il terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in
gran parte le masse toscane. Sommariva si ritirava nel Ferrarese.
Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non
aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati
a Parigi il dì 8 luglio tra il conte San Giuliano ed il ministro
Taleyrand. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra
l'imperadore alla guerra, perchè, avendo rifiutato la pace, abborriva
dal restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo
al pensiero che i Paesi Bassi avessero a restare in possessione della
potenza emola a lei: offeriva adunque sussidii di denaro ed aiuti
di forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperadore non
sapeva risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli
che fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia finchè quella
fortezza fosse in potestà di uno Stato dipendente intieramente dalla
Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione
dell'imperadore Paolo, giustamente confidava di poter fare fortunata
guerra da sè stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e
di Magnano, e considerando che si era perduta la giornata di Marengo un
sol momento, dopo ch'era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore
ne' suoi soldati.
Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente modo.
Al germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il germanico
d'Austria governato da Kray; all'italico di Francia che obbediva a
Brune, l'Italico d'Austria cui era proposto Bellegarde. Fra i due e per
congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei Grigioni
un franzese governato da Macdonald, nel Tirolo un austriaco capitanato
da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con Hiller,
Brune con Bellegarde avevano a combattere.
La sollevazione del paese toscano che aveva obbligato Brune a smembrar
parte delle sue forze ed a mandarle oltre il suo fianco destro, aveva
debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove
genti, con comandare a Macdonald, che, lasciati grossi presidii nei
Grigioni, si calasse prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla
Valtellina sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar
Brune dove alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde,
ed obbligarlo a ritirarsi indietro dalla fronte del Miurio, dove allora
aveva le sue stanze. Aspro e difficile comandamento era questo del
consolo; ciò non ostante, non si perdeva d'animo Macdonald, stimolando
il fatto del San Bernardo, e volendolo emulare. L'antiguardo condotto
da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e partito più presto
e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga, parte il monte
dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli gravissimi,
sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio. Acquistava per tal
modo Baraguey l'impero della Valtellina, e facilitava la strada allo
scendere di Macdonald. I Valtellini, al veder comparire quelle genti,
si maravigliavano, come se venissero dal cielo; tanto pareva loro
impossibile che elleno per quei luoghi ed in quella stagione (novembre)
fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a Macdonald.
Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente incappellato di
nevi e di ghiacci, pareva che la natura fosse divenuta insuperabile.
Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada, già di per sè
stessa sdrucciolevole, stretta, rotta e precipitosa; pure, come al
San Bernardo, si posero le artiglierie sui traini, le provvigioni sui
muli; marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo
condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga; donde restava
a salirsi l'erta precipitosa che porta al sommo giogo. Mettevansi
in viaggio, e con penosi passi ed infinito anelito procedendo, alla
bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante
furiosissimo, che, innalzando un immenso nembo di nevosa polvere e
negli occhi dei soldati gettandolo, rendeva impossibile ogni passo.
La forza della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso
delle nevi ammonticchiate sopra quegli sdrucciolenti gioghi, levava
un'orribile sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso
sulle sottoposte valli piombando, portò con sè a precipizio quanto le
si era parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono;
gli altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente
notte nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che,
separato da' suoi, precedeva con le guide, a male stento e quasi morto
aggiungeva alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi,
che, come quei del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla
salute dei viaggiatori.
Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato
Macdonald, il quale, spinto da ardente desiderio di emolare il consolo,
e prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza
dei viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed
atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti
buoi a pestar le nevi: seguitavano quaranta palaiuoli ad appianarle
ed a fare il sentiero: i zappatori, venendo dopo, l'assodavano; due
compagnie di fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro
passo ciò che ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano
le altre genti, fanti e cavalli; le artiglierie, le bestie da soma
viaggiavano alla coda; questo era l'antiguardo. Arrivata sulla cima
all'ospizio, con infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato
Laboissiere. Poi seguitando il cammino per la pianura del Cardinello,
giungeva a campo Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì 2 e 3 di
dicembre due altre squadre di fanti, di cavalli e d'artiglierie; il
tempo freddo e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il
passo. Solo alcuni soldati, per la forza di quell'insolito rigore,
o morivano gelati o, perdute le estremità, con le membra monche
restavano. Crudo era il viaggio, ma con isperanza di terminarlo
felicemente, quando il dì 4 (rimaneva a varcarsi il retroguardo in
cui si trovava Macdonald) si levava una spaventevole bufera, che
e gli uomini col soffio violentissimo arrestava e sotto monti di
lanciata neve li seppelliva, ed ogni traccia che fatta si fosse di
strada intieramente scassava. La disperazione entrava negli animi:
le guide, uomini del paese, atterrite, attestavano l'impossibilità
del passare, e l'opera loro ricusarono. Era per perire Macdonald
sotto monti di neve come era perito Cambise sotto monti di arena.
Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere piuttosto
da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i soldati.
Accorreva e gridava: «Franzesi, ha l'esercito di riserva vinto il San
Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra quello
che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano in
Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e
l'armi.» La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino.
Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto
terrore tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi,
spesso la stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di
neve; là era un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa
ogni strada. S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore quanto più
si saliva e che gli animi attristava e prostrava, e le membra, con
renderle inutili, aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso
si rinnovavano, l'inesorabile inverno spaziava largamente e dominava;
le Rezie Alpi in atto di sorbirsi gli audaci Franzesi. Rifulse in
tanto estremo caso mirabilmente quanto possa questa portentosa umana
natura; perchè, non restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale
pericolo, aprivano ciò ch'era chiuso, spianavano ciò ch'era montuoso,
rompevano ciò che era ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole,
sgretolavano ciò che era sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò
che era abisso. Per tale modo, quantunque un rovinoso inverno li
chiamasse a distruzione ed a morte, l'inverno vincevano, e contrastando
a quanto hanno di più terribile e di più insuperabile i furibondi
elementi, riuscivano nella Valtellina valle a salvamento. Rallegravansi
dell'acquistata vita l'uno con l'altro, perchè si erano creduti
morti; godevasi Macdonald il raccolto frutto dell'invitta costanza.
Imprese son queste che paiono impossibili, e più a coloro che le hanno
effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il secolo nostro, tanto
abbondante raccontatore, non una, ma cento testimonianze non fosse
per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o antica o moderna fatto più
maraviglioso o più erculeo di questo.
Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano da
effettuarsi le due altre che avevano anch'esse gran momento di
difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle
Camonica, cioè dalle acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo
dalla Valtellina nel Trentino, cioè delle acque dell'Adda a quelle
dell'Adige. Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale.
Non ebbe prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli
Alemanni vi si erano fortemente trincierati, e sebbene Macdonald due
volte con grande vigoria li combattesse, aiutati dalla stagione, dalla
fortezza del sito e dal proprio valore, il risospinsero.
Da un'altra parte sortiva esito felice il passo della Priga.
Traversato, non senza gravi difficoltà e pericoli, quell'aspro monte,
vedevano i repubblicani le acque dell'Oglio, e, passato Breno, si
raccoglievano a Pisogna, terra posta sulla settentrional punta del lago
d'Iseo, cui l'Oglio con le sue acque forma e nudrisce. Vi trovavano la
legione italiana di Lecchi e vettovaglie fresche, provvidenza di Brune,
che ve le aveva mandate a ristoro di quelle stanche ed eroiche genti.
Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua e denunziate le ostilità
da una parte e dall'altra; ma non si venne tosto alle mani in Italia,
perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald,
occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi
con lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse,
stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la
maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in
quel paese Miollis con tre o quattro mila soldati. Oltre a ciò il re
di Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare con l'Austria,
aveva radunato un esercito campale sotto la condotta del conte
Ruggiero di Damas; il quale, traversato lo Stato pontificio, già si
avvicinava alla Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando
che Macdonald si accostasse, e che i soldati novelli, che già erano
arrivati in Piemonte, gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la
guerra Bellegarde, volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero
scesi dal Tirolo. Inoltre, trovandosi alloggiato in sito forte per
natura e per arte, amava meglio essere assaltato che assaltare.
Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald
sui campi donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo
secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere
minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio
alle ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva
posto alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare
il fiume. Restava ch'egli medesimo il passasse, difficil opera,
perchè gli Austriaci, forti di numero e di sito, si erano risoluti
a difendere gagliardamente il fiume. Erano i Franzesi partiti in tre
schiere. Fece Brune pensiero di varcare al passo di Mozambano, perchè
quivi le rive essendo meno paludose, facilitavano l'accostarsi ed il
combattere più fermamente ne' luoghi occupati. Perchè poi il passo gli
riuscisse più facile, avvisò d'ingannar il nemico col fargli credere
ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e Pozzuolo. Correva il
giorno 25 dicembre, cui il generalissimo di Francia aveva destinato
al passaggio del Mincio. Fu il primo Dupont a mandar ad effetto la
fazione che gli era commessa, d'ingannare, cioè, il generale tedesco,
però contentandosi di una dimostrazione sulla riva sinistra, senza
prendervi alloggiamento stabile, senza ingaggiare battaglia giusta.
Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a
caso, poi, accomodate le piatte, costruiva il ponte e varcava con la
maggior parte delle genti. S'impadroniva, dopo breve contrasto, della
terra di Pozzuolo, e, senza aver rispetto alle condizioni delle cose,
vi fermava le sue stanze; felice ad un tratto ed infelice pensiero. Ne
sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune, avendo trovato le strade
molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno 25: il che
fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca,
terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi
contro Dupont. Si difese virilmente il Franzese, ancorchè Bellegarde
si fosse scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero
i suoi soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi
si poteva fare. Ma tanto preponderava il nemico, che già Dupont, non
essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva e si vedeva
vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la pena
dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di
fermarsi a far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe
adunque stata l'ala destra dei Franzesi conquisa intieramente e rotta,
se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet,
che dall'eminenza della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal
nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente che
con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato
che andasse ad aiutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava
al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet, ristorava la fortuna
della giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci, grossi e sicuri
sul destro fianco, facevano una battaglia forte e molto ostinata. Tre
volte s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti.
Infine fu costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca,
lasciando i repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in
questa battaglia, nè però senza strage fu la vittoria dei Franzesi.
Il seguente giorno, come aveva destinato, passava Brune il fiume a
Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di Francia si trovava
condotto sulla sinistra del Mincio.
Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè
volendo avventurarsi a battaglie campali in quelle facile largura
tra il Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavalleria,
accomodava le sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava
le genti sulla sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra
alcuni corpi, non per signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio
difendere il passo del fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria,
applicava l'animo a cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far