Annali d'Italia, vol. 8 - 69

l'arte de' suoi ufficiali e dei patriotti fuorusciti del Piemonte,
che andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo
pericolo loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di
quanto accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava, più lungamente che
possibil fosse tenerla per la ragione contraria. Nacquero da questa sua
ostinazione fatti molto memorandi e tali che raramente si leggono nei
ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di
anfiteatro, donde ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra
la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più
largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni
e di cortine consenzienti alla natura del luogo, aspra, scoscesa
e disuguale. Le difese di Genova, quando stava in propria balia,
bastavano, perchè con un breve assedio non si poteva prendere, i lunghi
erano impossibili per le emulazioni delle potenze.
Consistevano le difese vive di Massena in dieci mila soldati franzesi;
aveva con sè Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi
a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati
da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli
Piemontese, uomo di natura molto generosa e di gran cuore. Le
corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore
di Francia, parte per odio ai nemici, parte per paura del sacco,
se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti
unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente
per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione
per le vettovaglie, massime di grani. Gl'Inglesi, governati da Keit,
impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia.
La forzo che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo
consisteva in Tedeschi; ma con essi andavano congiunte torme numerose
di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali,
non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta e
dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di un Azzeretto, uomo
ch'era stato incomposto e rotto quando militava coi Franzesi, ed ora
si mostrava incomposto e rotto militando coi Tedeschi. Nè piccolo
momento recavano alla oppugnazione le navi inglesi e napolitane, non
con solamente intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'aiutare,
fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente
verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa
che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio,
il dì 23 aprile, una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera.
Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Franzesi da Rivarolo,
si impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla
vigesimaquinta, li rincacciava. Sapevano gli assalitori che la parte
più debole della piazza era verso levante; però si deliberarono a darvi
un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì 30 aprile, prima che
aggiornasse, givano all'assalto da quella parte, e per consuonar con
tutti quei moti, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon
fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi, ed era un gran pericolo pei
Franzesi, perchè, se avessero conservati i luoghi conquistati, Genova
non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la
fortuna. Mandava Soult al conquisto del monte dei Due Fratelli, Daruaud
al rincalzo di Grottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi.
Vinsero tutti. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal
prospero successo, usciva nuovamente alla campagna il dì 11 maggio. Il
suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie. Soult recava
in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol
conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont,
mandati da Otto, il ricuperavano. Massena intanto raccoglieva i viveri
alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare
il monte Creto; i Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia.
Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando
la fortuna dei Franzesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo;
abbuiossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati
a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani;
l'accidente diè tempo ad Hohenzollern d'arrivare con genti fresche:
ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi
in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult,
mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente
nella gamba destra e fatto prigione.
Questa infelice spedizione pose fine al sortire di Massena; perchè,
perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire
alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza che gli alleati
nol potessero sforzare; ma quello che le armi degli avversarli non
potevano, operava la fame. Keit per mare non lasciava entrar viveri,
Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate.
Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono
i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e
sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci,
i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci
impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva
più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei
del caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò
dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi
più grossi un uomo solo poteva macinare uno staio di grano al giorno.
In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle
case private, fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il
facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi
altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di caccao, di
mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli
stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele e
cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi
avesse potuto sostentare un giorno di più sè e la famiglia con lino,
o panico, o tre granelli di caccao. La crusca, materia tanto ribelle
alla nutrizione, si macinava ancora essa e cotta con miele serviva di
cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame; le fave stimate
preziosissime; felice non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni
tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti
più tristi ancora per la fame e per le spaventate fantasie. Mancati i
semi, pensossi alle erbe. I romici, i lapazi, le malve, le bismalve,
le cicorie salvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano
e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano
lunghe file di gente, uomini d'ogni condizione, donne nobili e donne
plebee, visitare ogui verde sito, massime i fertili orti di Bisagno e
le amene colline di Albaro, per cavarne quegli alimenti cui la natura
ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il
zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri canditi, ogni
maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici
pubblicamente li vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro
cestellini adornando: erano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi,
scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo
che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole
e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati.
Basta: e' furono viste donne e gentil donne, nutritesi con sorci la
mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria
estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo
manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette
di Genova; conciossiachè uomini privi d'ogni senso di umanità, per un
vile guadagno, non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine
nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne
restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame e di
veleno.
Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di
riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo
soldi trentadue, una di farina lire dieci o dodici, le uova lire
quattordici la serqua, la crusca soldi trenta ciascuna libbra. Poi,
venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane
biscotto di oncie tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori
agevolezze dei particolari non vollero Massena nè gli altri generali;
apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare
star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano
quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattia o per ferite
negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angosce della
fame e della disperazione empievano l'aria dei loro gemiti e delle
loro strida. Talvolta, così gridando, e le fameliche viscere con le
rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano.
Nissuno gli aiutava, perchè ognuno pensava a sè; nissuno anche a
loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure
alcuni tra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con iscosse e contorte
membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli
abbandonati da parenti morti o da parenti disperati imploravano con
atti con pianti e con voci miserabili, la pietà di chi passava. Nissuno
gli aiutava ed aveva di loro compassione, perchè il dolore proprio
aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quelle innocenti
creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli
sfoghi dei lavatoi, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta o
qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se lo
mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la
mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano
i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente
se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei
Franzesi, alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per sè stessi si
ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano, protestando
non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri, una
disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano,
Inglesi ed Austriaci di quella pietà e di quei cibi richiedendo, che
tra Franzesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi ed oltre ogni
dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra tedeschi
ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima
delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già
da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, le
pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano se non
avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale, che si tolsero
loro le guardie franzesi, perchè si temette che, sforzati del famelico
furore, non si avventassero contro di loro, e sbranatele, non se le
divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le
barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque
che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame
la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita
con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico,
sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei
ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi
moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido
per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie.
Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava
la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato dell'una volta ricca
ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il
soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo.
Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè
aveva la mente fissa nel pensiero di aiutar la impresa del consolo e
di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine,
venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare
quei sozzi e velenosi cibi che per due giorni, tanta era l'estremità
del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che
da vinto. Si accordarono (volle Massena che l'accordo s'intitolasse
convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua
domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi ufficiali e soldati,
in numero di circa otto mila, liberi della fede e delle persone loro;
per la via di terra potessero tornare in Francia, e chi non potesse per
terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo o nel golfo di
Juan; i prigionieri tedeschi si restituissero, nissun potesse essere
riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in
libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova
a' dì 4 giugno si consegnasse alle forze austriache ed inglesi.
Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna,
le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto
l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit. I democrati più vivi se
ne andarono coi Franzesi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi
gl'inni, accesersi i fuochi dai partigiani per amore, più ancora dagli
avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il
pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza
freno, in quel primo fervor della fame, se ne morì. Pruovaronsi i
villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come
dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern,
posto a guardia della città da Otto, con militare imperio li frenava.
Creava il capitano tedesco una reggenza imperiale e reale; frenava la
reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole;
veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma duro nella
misera Genova.
Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava. Aveva il
consolo con meravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di
riserva a Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia.
Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli
fu fatto abilità di condursi su quei campi in cui tuttavia vivevano
i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa che gli era
cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era
sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque, mentre Melas se ne stava
martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si
avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia.
Varii, molti e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua
impresa: i soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse,
generali esperti e valorosi, artiglierie formidabili, cavalleria
sufficiente. Aveva apprestato, per pascere i soldati sull'erme
solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e
giù, secondo i casi, le artiglierie per quei sentieri rotti, stretti
ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini
sdrucciolevoli che si usano in quei paesi per iscendere dai nevosi
gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont,
che soprantendeva alle artiglierie, per facilitar loro il passo per
luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa
di truogoli, tronchi d'alberi grossissimi, a fine di potervele posar
dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso
di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per
le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi, si confidava nell'Italia.
Per muovere le opinioni degl'Italiani, aveva chiamato a sè la legione
italiana capitanata da un Lecchi, la quale, fuggendo il furore nemico
per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona
gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con sè gl'Italiani che più
ne erano pratici; e siccome l'intento suo era di varcare il gran San
Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano nel
Canavese, giovane di natura molto generosa, e che in queste bisogna con
molto affetto camminava.
Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar
l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito
il gran San Bernardo, col fine di calarsi per la valle di Aosta
nelle pianure piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte
consuonassero, e, giunte al piano, potessero e muovere i popoli a
romore contro il nemico e congiungersi con lui a qualche importante
fatto, aveva ordinato che il generale Thureau, pei passi dei monti
Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattro mila soldati si
calasse a Susa; al tempo medesimo comandava al generale Moncey che
pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con una eletta schiera di
circa dodici mila soldati. Imponeva infine al generale Bethancourt che
facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola
sulle sponde del lago Maggiore. Siccome poi non ignorava quali e
quante difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran
San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinque mila soldati che
passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso
nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano
circa a sessanta mila combattenti. Così il consolo, tutta la regione
dell'Alpi abbracciando che si distendeva dal San Gottardo al monte
Ginevra, minacciava invasione al sottoposto piano del Piemonte e della
Lombardia.
Lusingati, per la città loro passando, con discorsi di umanità, di pace
e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo
alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di
Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo.
Guardavano con maraviglia e con desiderio quelle alte cime. Parlava
loro Berthier, quartiermastro, ed il suo parlare di gloria e di
Buonaparte infinitamente infiammava quegli animi già da per sè stessi
tanto incitati e valorosi. Partivano il dì 17 maggio da Martigny per
andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa
l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere.
Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carrelli
sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni,
basti da bagaglie, basti da artiglierie, impedimenti di ogni sorte,
e fra tutto questo soldati affaticantisi ed ufficiali affaticantisi
al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli
scherzi, le piacevolezze alla franzese. Non a guerra terribile, ma a
festa, non a casi dubbii, ma a vittoria certa pareva che andassero.
Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitarii, e
da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per
voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto,
al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin
dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime,
fosse sassose, capi di valli sdrucciolanti si appresentavano; i carri,
i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a
braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano
e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte
graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I
tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto
dai tugurii e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì
allegra, non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo.
Invitati e pagati per aiuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna
faceva un Franzese che tre Vallesani. Così arrivarono i repubblicani
a San Pietro, Lannes con la sua schiera il primo, siccome quello
che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non
solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e
più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo in cui pareva che
la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da
San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dov'è fondato l'eremo dei
religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno,
non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti
e pieghevoli su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia
del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu
posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi
le artiglierie grosse nei truogoli, i truogoli negli sdruccioli, e
dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui
robusti e pratici muli si caricarono. Così se Gian Giacopo Triulzi
montò e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella
stagione più rigida dell'anno le artiglierie di Francesco I, tirò
Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli e sulle
bestie raunate a questo intento. Seguitavano le salmerie al medesimo
modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di
ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era
pervenuto all'alto vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici
voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino
s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano.
Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi
risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio
di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva
il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri,
e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva
un'arte eccellente, gl'induceva a star forti ed a trovar facile quello
che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed
incominciavano a scorgere l'adito che, in mezzo a due monti altissimi
aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutarono, qual fine
delle fatiche loro, con gioiose voci i soldati, e con isforzi maggiori
intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: _Di
cotesto non vi caglia_, rispondevano, _badate a salir voi, e lasciate
fare a noi_. Stanchi facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si
rinfrancavano e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non
così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come
di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso
all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza
del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino,
pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci
e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti
dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte
s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler
dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla
religione: parlò di sè e dei re modestamente, della pace bramosamente.
I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè
necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se
tratto da quella aria, da quelle quiete, da quella solitudine, da
quella scena insolita, si lasciasse piegare a voler fare per affezione
quello che faceva per disegno, niuno il sa, nè si ardirebbe giudicare;
perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella
pietà e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente e
sprezzatrice delle umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel
benigno ospizio un'ora.
Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove
l'italico cielo cominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la
salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè
le nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi e
davano malfermo sostegno. Oltre a ciò, la china vi era più ripida che
dalla parte settentrionale. Quindi accadeva che era lento lo scendere,
e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le
nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti.
Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano.
Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso,
scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si
calavano, sdrucciolando fino ad Etrubles. Era un pericolo, eppure era
una festa; tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel
volare, di quell'essere involti chi in neve grossa e chi in polverio
di neve. Quelli che erano rimasti al governo delle salmerie arrivarono
più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti ad Etrubles, gli uni con
gli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando
verso le gelate e scoscese cime che testè passato avevano, non potevano
restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti
avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da
sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori
d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle
future imprese felicemente auguravano. Pareva loro che a chi aveva
superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana.
Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si
squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano
e si rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce
spirare; gridavano: Italia; con discorsi espressivi ai nuovi la
descrivevano; nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un
mirabile desiderio di rivederla e di vederla; l'esperienza ricordava
il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva, le volontà
diventarono efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti
che l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle
battaglie.
La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quegli alpestri
luoghi erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si
doveva dar tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi
arrivasse. Importava altresì che il romore già sparso della ritornata
dei Franzesi non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente
per la sponda della Dora, e con assalti di poca importanza dati
all'antiguardo condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito
del paese, s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra
di Chatillon. Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard,
posto sopra un sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in
quella stretta gola che quivi forma, restringendosi, la valle. Il fatto
pruovò che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una gran fortuna.
Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non voler dare
la fortezza. S'avvicinarono i Franzesi; entrarono facilmente nella
terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto; ricevuti
con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie volte la
batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi e di una
infinita pazienza si travagliavano, nel vedere che una piccola presa
di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento soldati, ed
un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie.
Già sorgevano i primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e
nol trovavano. Batterono la rocca dalle case della terra, batterono
con un cannone tirato sul campanile; ma essendo il luogo ben difeso
e di macigno, non facevano frutto. Avvisarono se potessero passare
continuando il forte in possessione dell'inimico. Fabbricarono con
opera molto maravigliosa una nuova strada; varcarono gli uomini
sicuramente, con nuovo strattagemma, varcarono le artiglierie.
S'accorgeva il castellano dell'arte usata dagli avversarii, e folgorava
con grandissimo favore fra il buio della notte, ma la oscurità da
una parte, la celerità dall'altra furono cagione che i repubblicani
patirono poco danno in questa straordinaria passata; con tutte le armi
allestite e pronte si apprestavano ad inondare il piemontese dominio.
Poco stante Chabran, divallatosi dal piccolo San Bernardo, costringeva
alla dedizione il comandante di Bard, salvo l'avere e le persone, e con
fede di non militare fino agli scambi.
Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per