Annali d'Italia, vol. 8 - 67
tempi tanto sinistri. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse,
non perchè virtuoso, dotto e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè
aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato,
non volere domandar grazia, e poichè i suoi fratelli morivano, voler
morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con sè di un mondo
che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La
costanza medesima che mostrò coi detti mostrò coi fatti; perì per mano
del carnefice, ma perì immacolato e sereno. Francesco Conforti, per
dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi
tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue
segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare,
fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più
inesorabile della rabbia civile, e che la gratitudine non ha luogo
fra gli sdegni politici. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli
diè di mano il boia in Napoli. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo
per altezza d'animo e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri
supplizio del buon volere in tempi malvagi; dopo gli strazi, infiniti
che nella sua prigione furono fatti di lui, e che sopportò con costanza
ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe'
atto alcuno indegno di lui; serbò non solo la equalità dell'animo, ma
ancora la serenità. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile
della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi
grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione col
testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di
Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo
supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere
una sentenza di morte. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto
alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante
rispondeva: «Ho capitolato.» Avvertito apprestasse le difese, rispose:
«Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri
mezzi.» Condannato a morte, camminava col capestro al collo, in mezzo
a' suoi compagni, con fronte alta e serena, tra sdegnoso e generoso.
Salite, senza mutare nè viso nè atto, le fatali scale, dimostrò che
l'uomo, quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che
non lo spaventa la morte. I raccontati supplizi, siccome d'uomini,
partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di
ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà:
il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia;
pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca
Piementel, donna ornata d'ogni genere di letteratura, ed ancor più
di virtù, da Metastasio lodata, fu condannata a perder la vita sulle
forche piantate in piazza del mercato.
Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente
chi meno. I casi d'un Velasso, d'un Fiani destan raccapriccio ed
orrore. Un Pasquale Battistessa, impiccato e portato in chiesa, ivi diè
segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò
dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto.
Narransi qui storie d'uomini o di fiere?
Morirono in Napoli per l'estremo supplizio, e tutti con invitto
coraggio, Ignazio Ciaia, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia,
ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo,
Giuseppe Albanese, Marcello Scotti, letterato eruditissimo ed autore
del catechismo de' marinai, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo,
con molti altri, ornamento e fiore delle napolitane contrade. Fu anche
affetto con l'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam
detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì qual era
vissuto, indomito, animoso ed imperturbabile.
La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono
parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo
onore e primo lume della napolitana marineria, amato dal re, stimato
dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece
ancor esso una compassionevole fine. Scoperto da un suo domestico,
fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da
villani ferocissimi, a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di
Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente al bordo della sua nave
il Fulminante un consiglio militare, a cui diede facoltà ed ordine di
giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il
re delle Due Sicilie per avere combattuto la fregata napolitana la
Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma
nol potè pruovare. Dannavanlo il consiglio a morte. Nelson comandava
s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse
al mare. Il misero principe pregava, dicendo, essere vecchio, non
aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non
desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il
facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono
udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna che era a
bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro
adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli;
il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un
principe napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico
generoso in guerra; ed il giudizio di morte venne da una nave del re
Giorgio.
Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizii, sì per la rabbia
popolare. Non fu minore nelle provincie: perironvi in modo sempre
violento, spesso crudele, quattro mila persone, quasi tutte eminenti
o per dottrina o per lignaggio o per virtù; carnificina orribile.
Pure ne tocca raccontare un altro caso. Domenico Cimarosa, cui tutta
la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili
melodie, cui chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire,
era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed
annuvolatici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano
le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizii. Pregato, egli
aveva composto la musica per un inno repubblicano. Venuta Napoli in
mano dei sicarii, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi
il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per
le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato
in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato ancora,
se i Russi ausiliarii del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il
caso, e non avendo potuto ottenere dal governo napolitano, al quale
l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero
al carcere, e l'italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una
Napoli, la salute venne a Cimarosa dall'Orsa.
Essendo caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Franzesi,
restava ancor in poter loro la romana repubblica, ma non sì che non
si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte.
Suonavano dentro e d'intorno le armi dei confederati o regolari o
collettizie. Avevano gli Aretini, sempre infiammati nell'impresa loro
contro i Franzesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due
città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emulazioni,
fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia
ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in
mezzo, onde i Franzesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi
circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne
stavano assediati in Ancona. Lo Stato romano quasi tutto tumultuava,
e tornava all'obbedienza pontificia. Furonvi al solito uccisioni,
rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte le altre pesti indotte
dai popoli mossi a romore. Da una altra parte nè Froelich, che aveva
nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la
ricuperazione del regno, avevano trasandato le romane cose. Ad essi
accostavansi gl'Inglesi con qualche squadra di genti da terra e con
navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia.
Adunque la repubblica romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè
il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni
speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta
piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana,
ed avendola occupata, facilmente si incamminava a Roma dalla parte
bassa, salivano i Napolitani, condotti da un Burcard, Svizzero, e
turbavano tutto il paese sulla riva sinistra del Tevere. Erano con
loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua
e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier
alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che
per combattere per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i
repubblicani sì franzesi che romani da una parte, e i Napolitani
dall'altra, presso a Monte rotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi
più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati
dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che li conduceva contro
Froelich; ma, sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a
ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze
di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto
diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte.
Perlochè, riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo
contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta,
i Napolitani a Portaromana ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier
il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe
non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani
di Roma, che avevano seguitato la fortuna franzese, aveva introdotto
una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione e
sottoscritta da ambe le parti il dì 25 settembre.
Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Franzesi
da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra;
serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero
in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo
e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani che volessero
imbarcarsi coi presidii franzesi, e trasportar le proprietà loro, il
potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero
mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere
nè delle parole nè degli scritti nè delle opere passate, e fossero
lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente e
secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo;
commise ancora qualche ostilità; ma finalmente vi accomodò l'animo,
e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio di
Ancona, sola piazza che nello stato romano ancora si tenesse pei
repubblicani. S'imbarcarono i Franzesi a Civitavecchia, e con essi
tutti coloro fra' Romani che stimarono più sicuro lo esilio che il
commettersi ad un governo provocato con tante ingiurie.
Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei
principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare
e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla
rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito.
Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo;
aggiunse un tribunale di giustizia sotto il nome di giunta di Stato,
ufficio del quale fosse che la quiete dello Stato non si turbasse, e
chi la turbasse fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti
ai tempi della repubblica come nazionali, ed abrogò le vendite fatte,
riserbando agli spossessati il ricorso pei compensi: contenne il
libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle
donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del
Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse
comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero
avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo Stato romano i
cinque notai capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità
del popolo e della deposizione del sommo pontefice. Oltre a ciò, i
beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati:
gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente,
dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono
gettati in carcere. Violavasi così la capitolazione; del resto, non si
fece, come a Napoli, sangue, moderazione degna di molta lode. Ma la
sfrenatezza delle soldatesche napolitane suppliva in questo, perchè,
oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la
notte, uccisero anche parecchie persone che vollero difendersi dalla
loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Roma, offesa dai
Napolitani, era compresa da un altro terrore.
Le vittorie di Kray e Suwarow avevano posto in mano degli alleati la
valle del Po, quelle di Ruffo e le mosse dei sollevati di Toscana,
tolto al dominio dei Franzesi e dei repubblicani il regno di Napoli,
lo Stato romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia
non avevano più i Franzesi che Genova con la riviera di Ponente, sulla
sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato,
perchè, siccome prossimo ai loro territorii, poteva facilmente servir
loro di scala al racquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto
lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il
volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama
e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti
della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier,
che stava al governo della piazza con un presidio che, tra Franzesi,
Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno
arrivava a questo numero. La piazza, la quale, ancorchè munita di
una forte cittadella, non ha in sè molta fortezza per essere dominata
dalle eminenze vicine, era, per la diligenza usata da Monnier, divenuta
fortissima: non si poteva venir agli approcci della piazza, se prima
non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a
conseguirsi per la natura dei luoghi.
Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati.
Una flotta turca e russa, governata dall'ammiraglio Woinowich, e
comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto,
perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui
lidi circonvicini. Quest'era la flotta che, già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sulle italiche terre coi
Turchi e coi Russi i Barbari dell'Epiro. Quivi veniva pure un navilio
sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra ed infestare
le spiaggie marittime. Dalla parte del regno, gli abitatori delle
rive del Tronto si erano levati a romore, ed, accompagnati da qualche
nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di
stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della
Romagna, tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro
e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta
importanza. Sinigaglia stessa titubava. Niuna cosa più restava sicura
ai repubblicani che le anconitane muraglie.
Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da sè stesse, ma
s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del
generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Franzesi
per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe, aveva
militato con lui, e, com'egli, nodriva l'animo volto a libertà. Mutò
poi linguaggio e fatti, sì che Montrichard, a cui era subordinato,
risapendone i maneggi, e veduta l'importanza del caso, gli toglieva
l'autorità sul dipartimento del Rubicone, mandando Hullin per
arrestarlo. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si
era schivato, e mandando fuori apertamente quello che si aveva concetto
nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro
Francia.
A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle che Froelich
conduceva dallo Stato romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Sciaboloni, Cellini e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano molto
confortava questi capi, perchè speravano che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie,
le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del
combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi,
e fecero massa tale che da Ascoli passando per Calderola, Belforte,
Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non
interrotte fino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il
paese all'intorno d'Ancona.
Monnier, non volendo lasciarsi ristringere nella piazza, usciva
fuori alla campagna per combattere fazioni che non potevano portare
che danno per lui, perchè aveva poche genti e non modo di ristorare
i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati, per avere i mari
aperti e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente
aggiungere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa
risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a
distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente
la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro ed
altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per
forza parecchie volte, ora dall'una delle parti ed ora dall'altra,
pruovarono quanto la licenza militare ha in sè di più atroce e di
più barbaro. Finalmente successe quello che era impossibile che non
succedesse, cioè che, moltiplicando sempre più le genti collettizie di
Lahoz e le regolari de' collegati, e venute in mano loro Jesi, Fiume,
Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, Castelfidardo e perfino
Camurano, terra posta a poca distanza da Ancona, fu costretto Monnier
a serrarvisi dentro ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di
lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono
della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una
batteria di diciassette cannoni, con la quale bersagliavano il forte
dei Cappuccini, il monte Gardetto e la cittadella.
Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizii della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso,
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le
tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyraud,
il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur
un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte
Pelago, se ne era fatto padrone, e qui con trincee si approssimava a
monte Galeazzo; che anzi, fatto un subito impeto contro di esso, vi
si era alloggiato; ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
ricacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'anconitana guerra, nè si vedea che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di que' di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati, per l'imperizia loro e la mala altitudine dei
loro istrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza.
Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich coi suoi Tedeschi, e rendeva
tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava
in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte
Galeazzo, confidando anche, per mandarlo ad esecuzione, nell'aiuto dei
collettizii di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di
battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di
questa eminenza consisteva principalmente la vittoria di Ancona. Due
volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne
era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente se stesse più lungamente padrone di monte
Pelago e delle trincee che vi aveva fatte e che si distendevano verso
monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la
possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
del 9 ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere.
Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi
di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in
viso i combattenti, quando Lahoz, impaziente di quella lunga battaglia,
usciva dall'alloggiamento e dava addosso agli assalitori. Siccome
poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a
caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico
fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro
l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad
Italiani. Ed ecco in questo un soldato cisalpino prender di mira Lahoz
conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i
repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo,
gli tolsero le armi ed il pennacchio, che a guisa di trionfo portarono
in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se
non fossero stati presti i sollevati a soccorrerlo.
Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si
ritirava il Franzese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel
nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo, si andò prima dell'ultima
ora rammaricando e giustificando della sua condotta, finchè passava da
questa all'altra vita.
Froelich, piantate le artiglierie in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi, procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava
al monte Gardetto. Poscia, usando il favore di questa vittoria, dava
il dì 2 di novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito e correva
anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano
le porte di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore,
e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere
quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e
coraggio proprio e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora
dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierie la
piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella,
rompevansi le artiglierie degli assediati, la piazza già difettava
di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del
monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il
generale Skal, portatore delle sinistre novelle de' repubblicani rotti
in tutta Italia, specialmente della novità di Napoli, di Roma e di
Toscana.
Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però volere solamente arrendersi alle armi austriache,
non a quelle dei Russi o dei Turchi o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore
di guerra, avesse segurtà di passare in Francia per dove volesse, fino
agli scambi non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una
guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno, di
qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in
Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro
potesse essere riconosciuto o castigato od in qualunque modo molestato
nè per fatti nè per scritti nè per parole in favore della repubblica,
e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia,
il potesse fare liberamente. Fu e sarà questa capitolazione egregio
e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così
fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano
di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani e quelli che si erano aderiti
ai Franzesi: tutti gli altri ottennero, o almeno domandarono, la
salvazione di coloro che combattendo o consentendo coi Franzesi,
avevano con tanta cecità contro di sè concitato l'odio degli antichi
signori.
Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre, già conculcate e peste da sì lunga
guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio
dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa
natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori: il
che accrebbe i mali umori e le cause di disunione che già correvano.
Intanto era il direttorio costituito in assai difficile condizione.
Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui.
La nazione franzese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor
più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione per
appagamento proprio a' suoi reggitori delle rotte ricevute e della
perduta Italia. Molteplici querele si muovevano in ogni parte contro
di loro, e il meno che si dicesse era che non sapevano governare.
Quell'impeto ch'era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le
ultime rotte svanito. Dominava nei consigli legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio. I soldati nuovamente descritti non
marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti,
le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile
lacerava le provincie occidentali; chi voleva le opinioni estreme, chi
le mezzane; molti, che sapevano molto bene quello che si volessero, e
molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa
mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia
alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare.
La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese
fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il
soldatesco, guardava intorno se qualche bandiera chiamatrice di novità,
ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si
spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome
della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose
vedevansi gli uomini savii, nemici della licenza; vedevanle i faziosi,
amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.
In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri
il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto
dai forastieri. Per mille discorsi, nasceva in Francia un desiderio
accesissimo del capitano invitto. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Insomma, la materia era ben disposta a
ricevere le buonapartiane impronte.
Adunque, già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia,
era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare
Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente,
e si mandò ad effetto quando portò la fama essere morto Joubert,
combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes
quinqueviro, Barras quinqueviro, i generali superstiti dell'esercito
non perchè virtuoso, dotto e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè
aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato,
non volere domandar grazia, e poichè i suoi fratelli morivano, voler
morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con sè di un mondo
che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La
costanza medesima che mostrò coi detti mostrò coi fatti; perì per mano
del carnefice, ma perì immacolato e sereno. Francesco Conforti, per
dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi
tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue
segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare,
fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più
inesorabile della rabbia civile, e che la gratitudine non ha luogo
fra gli sdegni politici. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli
diè di mano il boia in Napoli. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo
per altezza d'animo e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri
supplizio del buon volere in tempi malvagi; dopo gli strazi, infiniti
che nella sua prigione furono fatti di lui, e che sopportò con costanza
ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe'
atto alcuno indegno di lui; serbò non solo la equalità dell'animo, ma
ancora la serenità. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile
della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi
grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione col
testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di
Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo
supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere
una sentenza di morte. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto
alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante
rispondeva: «Ho capitolato.» Avvertito apprestasse le difese, rispose:
«Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri
mezzi.» Condannato a morte, camminava col capestro al collo, in mezzo
a' suoi compagni, con fronte alta e serena, tra sdegnoso e generoso.
Salite, senza mutare nè viso nè atto, le fatali scale, dimostrò che
l'uomo, quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che
non lo spaventa la morte. I raccontati supplizi, siccome d'uomini,
partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di
ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà:
il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia;
pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca
Piementel, donna ornata d'ogni genere di letteratura, ed ancor più
di virtù, da Metastasio lodata, fu condannata a perder la vita sulle
forche piantate in piazza del mercato.
Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente
chi meno. I casi d'un Velasso, d'un Fiani destan raccapriccio ed
orrore. Un Pasquale Battistessa, impiccato e portato in chiesa, ivi diè
segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò
dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto.
Narransi qui storie d'uomini o di fiere?
Morirono in Napoli per l'estremo supplizio, e tutti con invitto
coraggio, Ignazio Ciaia, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia,
ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo,
Giuseppe Albanese, Marcello Scotti, letterato eruditissimo ed autore
del catechismo de' marinai, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo,
con molti altri, ornamento e fiore delle napolitane contrade. Fu anche
affetto con l'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam
detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì qual era
vissuto, indomito, animoso ed imperturbabile.
La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono
parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo
onore e primo lume della napolitana marineria, amato dal re, stimato
dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece
ancor esso una compassionevole fine. Scoperto da un suo domestico,
fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da
villani ferocissimi, a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di
Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente al bordo della sua nave
il Fulminante un consiglio militare, a cui diede facoltà ed ordine di
giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il
re delle Due Sicilie per avere combattuto la fregata napolitana la
Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma
nol potè pruovare. Dannavanlo il consiglio a morte. Nelson comandava
s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse
al mare. Il misero principe pregava, dicendo, essere vecchio, non
aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non
desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il
facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono
udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna che era a
bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro
adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli;
il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un
principe napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico
generoso in guerra; ed il giudizio di morte venne da una nave del re
Giorgio.
Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizii, sì per la rabbia
popolare. Non fu minore nelle provincie: perironvi in modo sempre
violento, spesso crudele, quattro mila persone, quasi tutte eminenti
o per dottrina o per lignaggio o per virtù; carnificina orribile.
Pure ne tocca raccontare un altro caso. Domenico Cimarosa, cui tutta
la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili
melodie, cui chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire,
era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed
annuvolatici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano
le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizii. Pregato, egli
aveva composto la musica per un inno repubblicano. Venuta Napoli in
mano dei sicarii, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi
il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per
le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato
in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato ancora,
se i Russi ausiliarii del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il
caso, e non avendo potuto ottenere dal governo napolitano, al quale
l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero
al carcere, e l'italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una
Napoli, la salute venne a Cimarosa dall'Orsa.
Essendo caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Franzesi,
restava ancor in poter loro la romana repubblica, ma non sì che non
si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte.
Suonavano dentro e d'intorno le armi dei confederati o regolari o
collettizie. Avevano gli Aretini, sempre infiammati nell'impresa loro
contro i Franzesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due
città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emulazioni,
fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia
ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in
mezzo, onde i Franzesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi
circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne
stavano assediati in Ancona. Lo Stato romano quasi tutto tumultuava,
e tornava all'obbedienza pontificia. Furonvi al solito uccisioni,
rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte le altre pesti indotte
dai popoli mossi a romore. Da una altra parte nè Froelich, che aveva
nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la
ricuperazione del regno, avevano trasandato le romane cose. Ad essi
accostavansi gl'Inglesi con qualche squadra di genti da terra e con
navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia.
Adunque la repubblica romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè
il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni
speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta
piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana,
ed avendola occupata, facilmente si incamminava a Roma dalla parte
bassa, salivano i Napolitani, condotti da un Burcard, Svizzero, e
turbavano tutto il paese sulla riva sinistra del Tevere. Erano con
loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua
e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier
alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che
per combattere per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i
repubblicani sì franzesi che romani da una parte, e i Napolitani
dall'altra, presso a Monte rotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi
più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati
dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che li conduceva contro
Froelich; ma, sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a
ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze
di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto
diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte.
Perlochè, riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo
contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta,
i Napolitani a Portaromana ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier
il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe
non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani
di Roma, che avevano seguitato la fortuna franzese, aveva introdotto
una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione e
sottoscritta da ambe le parti il dì 25 settembre.
Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Franzesi
da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra;
serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero
in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo
e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani che volessero
imbarcarsi coi presidii franzesi, e trasportar le proprietà loro, il
potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero
mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere
nè delle parole nè degli scritti nè delle opere passate, e fossero
lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente e
secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo;
commise ancora qualche ostilità; ma finalmente vi accomodò l'animo,
e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio di
Ancona, sola piazza che nello stato romano ancora si tenesse pei
repubblicani. S'imbarcarono i Franzesi a Civitavecchia, e con essi
tutti coloro fra' Romani che stimarono più sicuro lo esilio che il
commettersi ad un governo provocato con tante ingiurie.
Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei
principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare
e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla
rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito.
Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo;
aggiunse un tribunale di giustizia sotto il nome di giunta di Stato,
ufficio del quale fosse che la quiete dello Stato non si turbasse, e
chi la turbasse fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti
ai tempi della repubblica come nazionali, ed abrogò le vendite fatte,
riserbando agli spossessati il ricorso pei compensi: contenne il
libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle
donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del
Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse
comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero
avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo Stato romano i
cinque notai capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità
del popolo e della deposizione del sommo pontefice. Oltre a ciò, i
beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati:
gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente,
dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono
gettati in carcere. Violavasi così la capitolazione; del resto, non si
fece, come a Napoli, sangue, moderazione degna di molta lode. Ma la
sfrenatezza delle soldatesche napolitane suppliva in questo, perchè,
oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la
notte, uccisero anche parecchie persone che vollero difendersi dalla
loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Roma, offesa dai
Napolitani, era compresa da un altro terrore.
Le vittorie di Kray e Suwarow avevano posto in mano degli alleati la
valle del Po, quelle di Ruffo e le mosse dei sollevati di Toscana,
tolto al dominio dei Franzesi e dei repubblicani il regno di Napoli,
lo Stato romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia
non avevano più i Franzesi che Genova con la riviera di Ponente, sulla
sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato,
perchè, siccome prossimo ai loro territorii, poteva facilmente servir
loro di scala al racquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto
lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il
volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama
e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti
della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier,
che stava al governo della piazza con un presidio che, tra Franzesi,
Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno
arrivava a questo numero. La piazza, la quale, ancorchè munita di
una forte cittadella, non ha in sè molta fortezza per essere dominata
dalle eminenze vicine, era, per la diligenza usata da Monnier, divenuta
fortissima: non si poteva venir agli approcci della piazza, se prima
non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a
conseguirsi per la natura dei luoghi.
Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati.
Una flotta turca e russa, governata dall'ammiraglio Woinowich, e
comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto,
perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui
lidi circonvicini. Quest'era la flotta che, già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sulle italiche terre coi
Turchi e coi Russi i Barbari dell'Epiro. Quivi veniva pure un navilio
sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra ed infestare
le spiaggie marittime. Dalla parte del regno, gli abitatori delle
rive del Tronto si erano levati a romore, ed, accompagnati da qualche
nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di
stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della
Romagna, tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro
e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta
importanza. Sinigaglia stessa titubava. Niuna cosa più restava sicura
ai repubblicani che le anconitane muraglie.
Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da sè stesse, ma
s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del
generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Franzesi
per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe, aveva
militato con lui, e, com'egli, nodriva l'animo volto a libertà. Mutò
poi linguaggio e fatti, sì che Montrichard, a cui era subordinato,
risapendone i maneggi, e veduta l'importanza del caso, gli toglieva
l'autorità sul dipartimento del Rubicone, mandando Hullin per
arrestarlo. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si
era schivato, e mandando fuori apertamente quello che si aveva concetto
nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro
Francia.
A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle che Froelich
conduceva dallo Stato romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Sciaboloni, Cellini e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano molto
confortava questi capi, perchè speravano che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie,
le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del
combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi,
e fecero massa tale che da Ascoli passando per Calderola, Belforte,
Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non
interrotte fino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il
paese all'intorno d'Ancona.
Monnier, non volendo lasciarsi ristringere nella piazza, usciva
fuori alla campagna per combattere fazioni che non potevano portare
che danno per lui, perchè aveva poche genti e non modo di ristorare
i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati, per avere i mari
aperti e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente
aggiungere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa
risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a
distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente
la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro ed
altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per
forza parecchie volte, ora dall'una delle parti ed ora dall'altra,
pruovarono quanto la licenza militare ha in sè di più atroce e di
più barbaro. Finalmente successe quello che era impossibile che non
succedesse, cioè che, moltiplicando sempre più le genti collettizie di
Lahoz e le regolari de' collegati, e venute in mano loro Jesi, Fiume,
Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, Castelfidardo e perfino
Camurano, terra posta a poca distanza da Ancona, fu costretto Monnier
a serrarvisi dentro ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di
lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono
della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una
batteria di diciassette cannoni, con la quale bersagliavano il forte
dei Cappuccini, il monte Gardetto e la cittadella.
Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizii della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso,
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le
tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyraud,
il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur
un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte
Pelago, se ne era fatto padrone, e qui con trincee si approssimava a
monte Galeazzo; che anzi, fatto un subito impeto contro di esso, vi
si era alloggiato; ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
ricacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'anconitana guerra, nè si vedea che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di que' di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati, per l'imperizia loro e la mala altitudine dei
loro istrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza.
Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich coi suoi Tedeschi, e rendeva
tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava
in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte
Galeazzo, confidando anche, per mandarlo ad esecuzione, nell'aiuto dei
collettizii di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di
battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di
questa eminenza consisteva principalmente la vittoria di Ancona. Due
volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne
era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente se stesse più lungamente padrone di monte
Pelago e delle trincee che vi aveva fatte e che si distendevano verso
monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la
possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
del 9 ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere.
Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi
di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in
viso i combattenti, quando Lahoz, impaziente di quella lunga battaglia,
usciva dall'alloggiamento e dava addosso agli assalitori. Siccome
poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a
caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico
fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro
l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad
Italiani. Ed ecco in questo un soldato cisalpino prender di mira Lahoz
conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i
repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo,
gli tolsero le armi ed il pennacchio, che a guisa di trionfo portarono
in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se
non fossero stati presti i sollevati a soccorrerlo.
Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si
ritirava il Franzese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel
nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo, si andò prima dell'ultima
ora rammaricando e giustificando della sua condotta, finchè passava da
questa all'altra vita.
Froelich, piantate le artiglierie in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi, procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava
al monte Gardetto. Poscia, usando il favore di questa vittoria, dava
il dì 2 di novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito e correva
anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano
le porte di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore,
e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere
quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e
coraggio proprio e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora
dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierie la
piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella,
rompevansi le artiglierie degli assediati, la piazza già difettava
di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del
monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il
generale Skal, portatore delle sinistre novelle de' repubblicani rotti
in tutta Italia, specialmente della novità di Napoli, di Roma e di
Toscana.
Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però volere solamente arrendersi alle armi austriache,
non a quelle dei Russi o dei Turchi o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore
di guerra, avesse segurtà di passare in Francia per dove volesse, fino
agli scambi non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una
guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno, di
qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in
Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro
potesse essere riconosciuto o castigato od in qualunque modo molestato
nè per fatti nè per scritti nè per parole in favore della repubblica,
e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia,
il potesse fare liberamente. Fu e sarà questa capitolazione egregio
e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così
fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano
di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani e quelli che si erano aderiti
ai Franzesi: tutti gli altri ottennero, o almeno domandarono, la
salvazione di coloro che combattendo o consentendo coi Franzesi,
avevano con tanta cecità contro di sè concitato l'odio degli antichi
signori.
Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre, già conculcate e peste da sì lunga
guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio
dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa
natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori: il
che accrebbe i mali umori e le cause di disunione che già correvano.
Intanto era il direttorio costituito in assai difficile condizione.
Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui.
La nazione franzese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor
più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione per
appagamento proprio a' suoi reggitori delle rotte ricevute e della
perduta Italia. Molteplici querele si muovevano in ogni parte contro
di loro, e il meno che si dicesse era che non sapevano governare.
Quell'impeto ch'era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le
ultime rotte svanito. Dominava nei consigli legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio. I soldati nuovamente descritti non
marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti,
le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile
lacerava le provincie occidentali; chi voleva le opinioni estreme, chi
le mezzane; molti, che sapevano molto bene quello che si volessero, e
molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa
mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia
alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare.
La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese
fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il
soldatesco, guardava intorno se qualche bandiera chiamatrice di novità,
ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si
spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome
della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose
vedevansi gli uomini savii, nemici della licenza; vedevanle i faziosi,
amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.
In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri
il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto
dai forastieri. Per mille discorsi, nasceva in Francia un desiderio
accesissimo del capitano invitto. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Insomma, la materia era ben disposta a
ricevere le buonapartiane impronte.
Adunque, già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia,
era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare
Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente,
e si mandò ad effetto quando portò la fama essere morto Joubert,
combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes
quinqueviro, Barras quinqueviro, i generali superstiti dell'esercito
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 8 - 01
- Annali d'Italia, vol. 8 - 02
- Annali d'Italia, vol. 8 - 03
- Annali d'Italia, vol. 8 - 04
- Annali d'Italia, vol. 8 - 05
- Annali d'Italia, vol. 8 - 06
- Annali d'Italia, vol. 8 - 07
- Annali d'Italia, vol. 8 - 08
- Annali d'Italia, vol. 8 - 09
- Annali d'Italia, vol. 8 - 10
- Annali d'Italia, vol. 8 - 11
- Annali d'Italia, vol. 8 - 12
- Annali d'Italia, vol. 8 - 13
- Annali d'Italia, vol. 8 - 14
- Annali d'Italia, vol. 8 - 15
- Annali d'Italia, vol. 8 - 16
- Annali d'Italia, vol. 8 - 17
- Annali d'Italia, vol. 8 - 18
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