Annali d'Italia, vol. 8 - 64
Sulla destra dei Franzesi, cioè verso il Po, si combatteva anche
egregiamente per la repubblica e per l'impero. Così durò lunga pezza
la battaglia, succedendo molto strazio e molte morti da ambe le
parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di
fanterie e di cavalleria. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald
sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar
ricovero, straziati dalle ferite e bruttati di sangue, sulla destra
della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi:
in ogni parte uomini e cavalli morti o moribondi; in ogni parte gemiti
e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti
gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che
rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi
delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano
sangue.
Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova
battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani
innanzi che Moreau gli romoreggiasse alla spalle. Pensava medesimamente
Macdonald, per la sua pertinacia insolita ad esser vinta od a piegarsi,
di assaltare alla nuova luce quel nemico che già per due volte aveva
tentato con tanto danno de' suoi e con sì poco frutto.
Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio.
Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad
assaltare, muoveva alle 11 della mattina del 19 di giugno le sue genti
contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima
che ne' giorni precedenti. Con singolare intrepidezza passarono i
repubblicani la Trebbia, ancorchè fossero aspramente bersagliati dalle
artiglierie nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle
che ferivano a scaglia. Nissuno creda che maggior valore nelle più
aspre battaglie si sia mostrato mai di quello che in questa mostrarono
e Franzesi, e Polacchi, e Russi, ed Austriaci. Senza scendere ai
particolari è da notare che bene fu combattuta questa battaglia dalle
due ale dell'esercito franzese sul principio, male sulla fine; il
che fu cagione che se esse si ritirarono intiere sulla destra della
Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta.
Avevano i Franzesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla
sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma
questi, bravamente resistendo, li rincacciava. Venuta la seconda fila
repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra
breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere
di lontano, vennero tosto alle prese con le baionette: fu quest'urto
tanto micidiale sostenuto quindi e quinci con un valore inestimabile.
Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle
file, i viventi vi si gettavano e facevano battaglia con le sciabole,
e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi
morsi e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio
di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il
primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo
in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi che
diede animo ai Russi, lo scemò ai Franzesi; caricando e smagliando la
cavalleria che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento
di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo
disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè
Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse tanto
pensiero e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione
del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow, accortosi della favorevole
occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta,
si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo,
ed assaliva il generale franzese per fianco. Pensò allora Victor al
ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto
quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei
repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera e fieramente
seguitata dalla cavalleria nemica, si era ritirata a salvamento oltre
quel fiume che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima
passato.
Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti;
fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto
che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi,
quantunque a ciò di mala voglia e costretto dal parere dei compagni
si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta
esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda
del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume
alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita,
s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce
illustrasse l'italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo
Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar
l'assalto al nemico ne' suoi propri alloggiamenti. Nè avendolo trovato
ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per
la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i
Russi a Zema il retroguardo franzese governato da Victor e l'assalirono
con molto valore e con ugual valore fu loro risposto dai Franzesi,
cosa maravigliosa dopo gli infortuni recenti: la sola diciassettesima
dovè darsi prigioniera. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso
ai Franzesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime
feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm e Cambray.
Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva
ad un tratto che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova,
era sboccato dalla Bocchetta, minacciava trarre a mal partito gli
assediatori di Tortona e di Alessandria. Deliberossi pertanto a
tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern ed a Klenau
che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male che
potessero.
Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di
ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera
di Levante condurre le sue genti all'unione di Genova con quelle di
Moreau. Ei ne venne, ciò nonostante, a capo con uguale e perizia e
felicità. Ordinava a Victor che salisse per la valle del Taro, e che,
varcati i sommi gioghi dello Apennino, calasse per quello della Magra
nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga,
ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e
felicemente più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla
volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoia. Disperse le genti
leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare
il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che
pose a grossa taglia, mandò presidii a Bologna ed al forte Urbano:
poscia salendo s'internava nelle valle del Panaro ed arrivava al
suo alloggiamento di Pistoia. Poco stettero Bologna ed il forte ad
arrendersi ai confederati. Nè il generale franzese voleva pei disegni
avvenire e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana.
Perlochè, chiamate a sè le guernigioni di Livorno e dell'isola
d'Elba, che avevano capitolato, e poste sulle navi per a Genova le
artiglierie e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla
volta dei territorii Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi
stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite,
se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto
per lo smisurato valore dimostrato. Con l'esercito di Macdonald si
ritirarono ancora le genti franzesi che tenevano Firenze; tutta la
Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando.
Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone,
Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta,
e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di
Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa
di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava,
essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti.
Il giorno 18 assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona,
e, quantunque si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo
i Franzesi in numero, furono costretti a cedere, e perdettero San
Giuliano, disordinati e rotti ritirandosi oltre la Bormida.
Questa, vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità
a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Scaramucciossi il
giorno 19 ed il 20 sulle rive della Bormida. Il 21, messosi Bellegarde
all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria e
da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè
volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf
con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del
fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano. Accorreva
Bellegarde, accorreva Moreau. Divenne allora molto aspro il conflitto:
da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la
vittoria. Alfine Grouchy, serrandosi addosso con molto impeto agli
Austriaci, li rompeva e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a
cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Quivi Moreau ebbe
le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo
che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che
la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito
era quella di ritirarlo prestamente là donde era venuto, condottosi con
frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i
soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con
un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure
tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle.
Oltre a ciò aveva per maggior sicurezza ordinato un forte campo con
trincee tra la Bocchetta e Serravalle che aveva raccomandato alla fede
del marchese Colli, assunto al grado di generale ed a lui congiunto
d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono
le strade delle piauure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal
generale di Francia fortificate e munite con buoni presidii.
Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Franzesi in Italia
che non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto
principio in questo anno, perdute sette battaglie campali e le fortezze
di Peschiera e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella
di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la
cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva che i gioghi dei
monti liguri ed alcune fortezze. Conoscevano gli alleati che l'impero
d'Italia non si rimarrebbe in mano loro sicuro se non quando tutte
quelle fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era
quello dell'acquisto di Mantova e delle fortezze del Piemonte. Per
la qual cosa non così Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio
di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella
d'Alessandria con potentissimi apparecchi, sperando per l'efficacia del
batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte,
ad essere sforzata alla dedizione.
Era dentro Alessandria un presidio di circa tre mila soldati sottomessi
al generale Gardanne, soldato che, pel suo valore in queste guerre
italiche, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai
maggiori. Risolutosi egli a difendersi fino agli estremi, animava
continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva
ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla
difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava
per venire a capo dell'espugnazione. Aveva con sè venti mila soldati
tra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi d'artiglierie assai
grosse, con obici e mortai in giusta proporzione. Si convenne da
ambe le parti che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato
della città e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata
ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la
chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato che difendesse
la fortezza e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi
centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortai.
Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il
pondo delle sue artiglierie. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu
sì grande che in poco d'ora, o per proprio colpo o per riverberazione
ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierie, sboccò le restanti,
uccise non pochi cannonieri, arse una caserma ed una conserva di
polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo o debolmente trasse
la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e si spinsero avanti coi
lavori; tentava Gardanne di impedirgli. Ciò non ostante tanto fecero
che si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina
dedizione. Già erano alzate le batterie per battere in breccia, già le
scale pronte, già le artiglierie della piazza più non rispondevano. Di
tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi
missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente
giorno si preparava; una presa di soldati fortissimi trascelti a questo
mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle
mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe
stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso
i soldati; però inclinando l'animo alla concordia, chiese ed ottenne
patti molto onorevoli il dì 21 luglio. Uscisse il presidio con tutti i
segni d'onore che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati
ereditarii e vi stesse fino agli scambi; avesse Gardanne facoltà di
tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati
sino allo scambio. Fu celebrata la conquista d'Alessandria con ogni
maniera di pubblica dimostrazione.
Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista
d'Alessandria dai collegati, ch'ebbero occasione d'un'altra maggiore
prosperità per l'espugnazione di Mantova. Avea Buonaparte due anni
innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per
carestia di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò
Kray piuttosto per forza che per assedio, perciocchè si arresero i
repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve
loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate ed il
cinto della piazza rotto li costrinsero in breve a quella risoluzione
cui il fare ed il non fare tanto importava a loro ed agli alleati.
Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo
dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto
avanti con le trincee, perchè non aveva forze sufficienti a circuire
ed a sforzare una piazza di tanta vastità e difesa da una guernigione
di dieci mila soldati. Ma quando, dopo le rotte di Macdonald, Suwarow
fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio per forma
che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di
quaranta mila soldati, il generale tedesco, nel quale non si poteva
desiderare nè maggior animo nè miglior arte, si accinse a voler fare
quello che fino allora avea solamente accennato. Trovossi egli in
grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco.
Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione del dove far la
breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico, ostinato
oltre il dovere resistesse, perchè la parte di porta Pradella gli
si appresentò tostamente come la più debole. Ma a volere che gli
approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per
gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione e del mulino di Ceresa.
Quindi, senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo;
il che fu cagione che le acque del canale di questo nome, trovando uno
scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto
abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza.
Spesseggiavano i Russi con tiri contro la cittadella, gli Austriaci
contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria Alta,
dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da Casa
Rossa, da Paiolo, da Valle e da Spanavera; quivi il generalissimo
d'Austria avendo piantato le più grosse e più numerose artiglierie, per
battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella,
i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le
fortificazioni dell'isola del Te e del Migliaretto.
Mentre con tanto fracasso e con sì viva tempesta fulminava Kray la
parte più debole della piazza, tempesta alla quale gagliardamente
anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con
le trincee all'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di
guastatori, di zappatori e di palaiuoli insistevano a scavare e ad
ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati
facessero ogni sforzo per isturbarli, la prima parallela: poi con gli
approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterie.
Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallela, e da
questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la
notte bombe: era infinito il terrore della città. Molti assalti e molti
vantaggi diedero indi abilità al corpo principale degli assedianti
d'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello
spalto gli Austriaci scavarono ed alzarono la loro terza circondazione.
Non potendo più resistere, i Franzesi se ne ritirarono. Accortisi
gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono e voltando
dal bastione acquistato, come da luogo più vicino, l'artiglierie
contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta
intera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La
tempesta continuava da ogni lato: più di dieci mila o palle o bombe si
lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per
lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa e tanto violenta.
Tuttavia la guernigione, benchè assottigliata dalle stragi, indebolita
dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro
mila abili alla battaglia, certo a gran pezza non più pari a tanta
bisogna, tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti e perseverava
nelle difese, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro
il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e
certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta
delle genti franzesi sulla Trebbia e l'essersi Moreau del tutto
ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò
Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, che
fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo
a' 28 di luglio; i capitoli di maggior momento furono i seguenti:
onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione; avessero i
gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi:
il comandante e gli ufficiali, soggiornato tre mesi negli Stati
ereditarii, avessero facoltà di tornare nei paesi loro; i Cisalpini,
Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Franzesi a stimarsi, e
come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e
dei feriti; dessersi tre carri coperti al generale, due agli ufficiali;
perdonerebbesi la vita ai disertori austriaci.
Entrarono i confederati il dì 29 nella lacerata Mantova, e per questa
espugnazione fu dimostrato al mondo che per viva forza si può espugnare
in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi
in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Successe tosto
alla dedizione di Mantova quella di Serravalle.
Le rotte d'Italia e la presa di tante fortezze, massimamente quella di
Mantova, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè
potevano restar capaci, siccome quelli che ancora avevano la memoria
fresca di tante vittorie, del come soldati sì sovente ed in tanti
segnalati fatti superati dai repubblicani fossero adesso e tutto ad un
tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque
fazione che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore,
chi i tradimenti per opinione. Si accusava Scherer, si accusava
Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante
che era stato del castello di Milano; nè trovava animi meglio inclinati
verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento
a Moreau, gli si dava quello dell'amministrare la guerra non con quella
vigorìa che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi accagionavano
il direttorio delle calamità presenti e facevano ogni opera per
espugnarlo, e insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli
scritti, e col subornare e col sobillare, che tre quinqueviri furono
cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri. Stettero contenti i
zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi ricominciarono a gridare
contro i surrogati più fortemente di prima. Ma intanto, su quei primi
calori dei nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze; chè applicarono
l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome
franzese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva, ogni
giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni
valendosi, mandavano alle frontiere in Isvizzera, in Savoia, nel
Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria, quante genti regolari
poteano risparmiare dei presidii interni. Poi per procurar nuove radici
alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati
nuovi marciavano volontieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie
passate, con la necessità di mantener illibato il nome franzese,
con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori,
dai magistrati: poi le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si
dipingevano.
Questi tentativi su quegli animi pronti efficacemente operavano, e già
Francia si moveva confidente contro la lega europea. Pensiero era di
assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte e Italia. A tanta mole
erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera
Massena animosamente combatteva contro l'arciduca Carlo. Restava che
agli eserciti che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro
l'Italia venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati,
accetti agl'Italiani. Championnet e Joubert più di tutti maggiormente
lodavansi di queste condizioni. Furono eletti.
De' due eserciti che il direttorio aveva intenzione di mandare contro
gli alleati in Italia, il primo, governato da Championnet, aveva
carico di minacciar il Piemonte superiore e preservare le fortezze
di Cuneo e Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare,
per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il
Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio e di
combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si
mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano. Era
intenzione che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero
verso i luoghi a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva
ancora messo insieme tante genti che fossero abbastanza a così grave
bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi
essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non
poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come
sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva
l'esercito pronto e capace di combattere; erano in lui i forti veterani
di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della
Vandea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo.
Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini ed
infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidii necessarii,
perchè abbondavano di artiglierie e munizioni; solo desideravano un
maggior nervo di cavalleria. Temevano che Tortona, che dopo la perdita
di Alessandria era il solo forte che potesse facilitare la strada ai
repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con
forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet
non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato
a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in
battaglia campale il nemico, e, se ciò non gli venisse fatto, sperava
almeno che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere
Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne
dovea partire per andare al governo della guerra del Reno: «Generale,
gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco che il
primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi
che restiate con noi, e che governiate le genti come supremo duce voi
medesimo: ciò mi fia caro oltremodo. Sarommi il primo ad obbedirvi
e ad adoprarmi qual vostro primo aiutante.» Tant'era la venerazione
che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza
del suo animo. Ciò fu cagione che Moreau restasse ed aiutasse col suo
consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano.
Le genti venute da Napoli con Macdonald e l'antico esercito di Moreau
si calavano la maggior parte per la Bocchetta; le venute frescamente da
Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Aqui. Bellegarde fece
qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più
alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che,
prevalendo di cavalleria, voleva aspettare i repubblicani al piano.
Entrarono questi in Aqui: il mandarono a sacco per vendetta di compagni
uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti liguri.
Quando l'ala sinistra dei Franzesi, di cui abbiam favellato, e che
era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy,
Lemoine e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e
della destra, ordinava Joubert il suo esercito ed il disponeva agli
ulteriori disegni. La mezzana obbediva a Joubert; la destra era
commessa al valore del generale Saint Cyr, che aveva con sè Vatrin,
Laboissiere e Dambrowski. Questa ultima scesa dalla Bocchetta arrivava
per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva
intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale polacco,
il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezzana
alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada
nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra
aveva le sue stanze verso Basalazzo. Così l'oste di Francia, nella
quale si noveravano circa quaranta mila soldati, si distendeva dalla
Bormida sin oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della
Bormida, dell'Erro ed Orba, del Lemmo e Scrivia. Nè contento Joubert
alla fortezza naturale di quei luoghi erti e montuosi, con trincee, con
fossi e con batterie di cannoni, piantate nei siti più acconci alle
difese, gli affortificava. Per tal modo i Franzesi sovrastavano dai
monti alla sottoposta pianura.
Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua
dritta, composta massimamente di quei Tedeschi che Kray aveva condotto
dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo
governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara: la mezzana,
a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi
tutta consisteva in soldati russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro
di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri
austriaci e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine
di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la ricuperazione
di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne
fosse: erano nel novero di circa settanta mila soldati. Apparivano
l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia
poteva differirsi, battaglia ardentemente desiderata da Joubert sì per
ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che volea che
non si stesse ad indugiare, per far inclinar del tutto le sorti dall'un
egregiamente per la repubblica e per l'impero. Così durò lunga pezza
la battaglia, succedendo molto strazio e molte morti da ambe le
parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di
fanterie e di cavalleria. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald
sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar
ricovero, straziati dalle ferite e bruttati di sangue, sulla destra
della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi:
in ogni parte uomini e cavalli morti o moribondi; in ogni parte gemiti
e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti
gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che
rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi
delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano
sangue.
Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova
battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani
innanzi che Moreau gli romoreggiasse alla spalle. Pensava medesimamente
Macdonald, per la sua pertinacia insolita ad esser vinta od a piegarsi,
di assaltare alla nuova luce quel nemico che già per due volte aveva
tentato con tanto danno de' suoi e con sì poco frutto.
Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio.
Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad
assaltare, muoveva alle 11 della mattina del 19 di giugno le sue genti
contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima
che ne' giorni precedenti. Con singolare intrepidezza passarono i
repubblicani la Trebbia, ancorchè fossero aspramente bersagliati dalle
artiglierie nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle
che ferivano a scaglia. Nissuno creda che maggior valore nelle più
aspre battaglie si sia mostrato mai di quello che in questa mostrarono
e Franzesi, e Polacchi, e Russi, ed Austriaci. Senza scendere ai
particolari è da notare che bene fu combattuta questa battaglia dalle
due ale dell'esercito franzese sul principio, male sulla fine; il
che fu cagione che se esse si ritirarono intiere sulla destra della
Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta.
Avevano i Franzesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla
sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma
questi, bravamente resistendo, li rincacciava. Venuta la seconda fila
repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra
breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere
di lontano, vennero tosto alle prese con le baionette: fu quest'urto
tanto micidiale sostenuto quindi e quinci con un valore inestimabile.
Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle
file, i viventi vi si gettavano e facevano battaglia con le sciabole,
e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi
morsi e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio
di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il
primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo
in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi che
diede animo ai Russi, lo scemò ai Franzesi; caricando e smagliando la
cavalleria che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento
di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo
disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè
Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse tanto
pensiero e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione
del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow, accortosi della favorevole
occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta,
si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo,
ed assaliva il generale franzese per fianco. Pensò allora Victor al
ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto
quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei
repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera e fieramente
seguitata dalla cavalleria nemica, si era ritirata a salvamento oltre
quel fiume che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima
passato.
Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti;
fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto
che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi,
quantunque a ciò di mala voglia e costretto dal parere dei compagni
si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta
esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda
del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume
alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita,
s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce
illustrasse l'italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo
Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar
l'assalto al nemico ne' suoi propri alloggiamenti. Nè avendolo trovato
ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per
la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i
Russi a Zema il retroguardo franzese governato da Victor e l'assalirono
con molto valore e con ugual valore fu loro risposto dai Franzesi,
cosa maravigliosa dopo gli infortuni recenti: la sola diciassettesima
dovè darsi prigioniera. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso
ai Franzesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime
feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm e Cambray.
Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva
ad un tratto che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova,
era sboccato dalla Bocchetta, minacciava trarre a mal partito gli
assediatori di Tortona e di Alessandria. Deliberossi pertanto a
tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern ed a Klenau
che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male che
potessero.
Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di
ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera
di Levante condurre le sue genti all'unione di Genova con quelle di
Moreau. Ei ne venne, ciò nonostante, a capo con uguale e perizia e
felicità. Ordinava a Victor che salisse per la valle del Taro, e che,
varcati i sommi gioghi dello Apennino, calasse per quello della Magra
nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga,
ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e
felicemente più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla
volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoia. Disperse le genti
leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare
il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che
pose a grossa taglia, mandò presidii a Bologna ed al forte Urbano:
poscia salendo s'internava nelle valle del Panaro ed arrivava al
suo alloggiamento di Pistoia. Poco stettero Bologna ed il forte ad
arrendersi ai confederati. Nè il generale franzese voleva pei disegni
avvenire e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana.
Perlochè, chiamate a sè le guernigioni di Livorno e dell'isola
d'Elba, che avevano capitolato, e poste sulle navi per a Genova le
artiglierie e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla
volta dei territorii Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi
stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite,
se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto
per lo smisurato valore dimostrato. Con l'esercito di Macdonald si
ritirarono ancora le genti franzesi che tenevano Firenze; tutta la
Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando.
Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone,
Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta,
e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di
Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa
di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava,
essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti.
Il giorno 18 assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona,
e, quantunque si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo
i Franzesi in numero, furono costretti a cedere, e perdettero San
Giuliano, disordinati e rotti ritirandosi oltre la Bormida.
Questa, vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità
a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Scaramucciossi il
giorno 19 ed il 20 sulle rive della Bormida. Il 21, messosi Bellegarde
all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria e
da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè
volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf
con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del
fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano. Accorreva
Bellegarde, accorreva Moreau. Divenne allora molto aspro il conflitto:
da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la
vittoria. Alfine Grouchy, serrandosi addosso con molto impeto agli
Austriaci, li rompeva e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a
cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Quivi Moreau ebbe
le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo
che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che
la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito
era quella di ritirarlo prestamente là donde era venuto, condottosi con
frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i
soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con
un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure
tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle.
Oltre a ciò aveva per maggior sicurezza ordinato un forte campo con
trincee tra la Bocchetta e Serravalle che aveva raccomandato alla fede
del marchese Colli, assunto al grado di generale ed a lui congiunto
d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono
le strade delle piauure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal
generale di Francia fortificate e munite con buoni presidii.
Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Franzesi in Italia
che non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto
principio in questo anno, perdute sette battaglie campali e le fortezze
di Peschiera e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella
di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la
cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva che i gioghi dei
monti liguri ed alcune fortezze. Conoscevano gli alleati che l'impero
d'Italia non si rimarrebbe in mano loro sicuro se non quando tutte
quelle fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era
quello dell'acquisto di Mantova e delle fortezze del Piemonte. Per
la qual cosa non così Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio
di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella
d'Alessandria con potentissimi apparecchi, sperando per l'efficacia del
batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte,
ad essere sforzata alla dedizione.
Era dentro Alessandria un presidio di circa tre mila soldati sottomessi
al generale Gardanne, soldato che, pel suo valore in queste guerre
italiche, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai
maggiori. Risolutosi egli a difendersi fino agli estremi, animava
continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva
ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla
difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava
per venire a capo dell'espugnazione. Aveva con sè venti mila soldati
tra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi d'artiglierie assai
grosse, con obici e mortai in giusta proporzione. Si convenne da
ambe le parti che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato
della città e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata
ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la
chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato che difendesse
la fortezza e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi
centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortai.
Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il
pondo delle sue artiglierie. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu
sì grande che in poco d'ora, o per proprio colpo o per riverberazione
ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierie, sboccò le restanti,
uccise non pochi cannonieri, arse una caserma ed una conserva di
polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo o debolmente trasse
la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e si spinsero avanti coi
lavori; tentava Gardanne di impedirgli. Ciò non ostante tanto fecero
che si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina
dedizione. Già erano alzate le batterie per battere in breccia, già le
scale pronte, già le artiglierie della piazza più non rispondevano. Di
tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi
missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente
giorno si preparava; una presa di soldati fortissimi trascelti a questo
mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle
mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe
stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso
i soldati; però inclinando l'animo alla concordia, chiese ed ottenne
patti molto onorevoli il dì 21 luglio. Uscisse il presidio con tutti i
segni d'onore che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati
ereditarii e vi stesse fino agli scambi; avesse Gardanne facoltà di
tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati
sino allo scambio. Fu celebrata la conquista d'Alessandria con ogni
maniera di pubblica dimostrazione.
Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista
d'Alessandria dai collegati, ch'ebbero occasione d'un'altra maggiore
prosperità per l'espugnazione di Mantova. Avea Buonaparte due anni
innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per
carestia di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò
Kray piuttosto per forza che per assedio, perciocchè si arresero i
repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve
loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate ed il
cinto della piazza rotto li costrinsero in breve a quella risoluzione
cui il fare ed il non fare tanto importava a loro ed agli alleati.
Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo
dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto
avanti con le trincee, perchè non aveva forze sufficienti a circuire
ed a sforzare una piazza di tanta vastità e difesa da una guernigione
di dieci mila soldati. Ma quando, dopo le rotte di Macdonald, Suwarow
fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio per forma
che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di
quaranta mila soldati, il generale tedesco, nel quale non si poteva
desiderare nè maggior animo nè miglior arte, si accinse a voler fare
quello che fino allora avea solamente accennato. Trovossi egli in
grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco.
Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione del dove far la
breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico, ostinato
oltre il dovere resistesse, perchè la parte di porta Pradella gli
si appresentò tostamente come la più debole. Ma a volere che gli
approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per
gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione e del mulino di Ceresa.
Quindi, senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo;
il che fu cagione che le acque del canale di questo nome, trovando uno
scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto
abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza.
Spesseggiavano i Russi con tiri contro la cittadella, gli Austriaci
contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria Alta,
dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da Casa
Rossa, da Paiolo, da Valle e da Spanavera; quivi il generalissimo
d'Austria avendo piantato le più grosse e più numerose artiglierie, per
battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella,
i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le
fortificazioni dell'isola del Te e del Migliaretto.
Mentre con tanto fracasso e con sì viva tempesta fulminava Kray la
parte più debole della piazza, tempesta alla quale gagliardamente
anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con
le trincee all'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di
guastatori, di zappatori e di palaiuoli insistevano a scavare e ad
ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati
facessero ogni sforzo per isturbarli, la prima parallela: poi con gli
approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterie.
Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallela, e da
questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la
notte bombe: era infinito il terrore della città. Molti assalti e molti
vantaggi diedero indi abilità al corpo principale degli assedianti
d'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello
spalto gli Austriaci scavarono ed alzarono la loro terza circondazione.
Non potendo più resistere, i Franzesi se ne ritirarono. Accortisi
gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono e voltando
dal bastione acquistato, come da luogo più vicino, l'artiglierie
contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta
intera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La
tempesta continuava da ogni lato: più di dieci mila o palle o bombe si
lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per
lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa e tanto violenta.
Tuttavia la guernigione, benchè assottigliata dalle stragi, indebolita
dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro
mila abili alla battaglia, certo a gran pezza non più pari a tanta
bisogna, tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti e perseverava
nelle difese, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro
il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e
certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta
delle genti franzesi sulla Trebbia e l'essersi Moreau del tutto
ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò
Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, che
fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo
a' 28 di luglio; i capitoli di maggior momento furono i seguenti:
onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione; avessero i
gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi:
il comandante e gli ufficiali, soggiornato tre mesi negli Stati
ereditarii, avessero facoltà di tornare nei paesi loro; i Cisalpini,
Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Franzesi a stimarsi, e
come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e
dei feriti; dessersi tre carri coperti al generale, due agli ufficiali;
perdonerebbesi la vita ai disertori austriaci.
Entrarono i confederati il dì 29 nella lacerata Mantova, e per questa
espugnazione fu dimostrato al mondo che per viva forza si può espugnare
in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi
in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Successe tosto
alla dedizione di Mantova quella di Serravalle.
Le rotte d'Italia e la presa di tante fortezze, massimamente quella di
Mantova, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè
potevano restar capaci, siccome quelli che ancora avevano la memoria
fresca di tante vittorie, del come soldati sì sovente ed in tanti
segnalati fatti superati dai repubblicani fossero adesso e tutto ad un
tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque
fazione che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore,
chi i tradimenti per opinione. Si accusava Scherer, si accusava
Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante
che era stato del castello di Milano; nè trovava animi meglio inclinati
verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento
a Moreau, gli si dava quello dell'amministrare la guerra non con quella
vigorìa che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi accagionavano
il direttorio delle calamità presenti e facevano ogni opera per
espugnarlo, e insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli
scritti, e col subornare e col sobillare, che tre quinqueviri furono
cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri. Stettero contenti i
zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi ricominciarono a gridare
contro i surrogati più fortemente di prima. Ma intanto, su quei primi
calori dei nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze; chè applicarono
l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome
franzese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva, ogni
giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni
valendosi, mandavano alle frontiere in Isvizzera, in Savoia, nel
Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria, quante genti regolari
poteano risparmiare dei presidii interni. Poi per procurar nuove radici
alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati
nuovi marciavano volontieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie
passate, con la necessità di mantener illibato il nome franzese,
con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori,
dai magistrati: poi le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si
dipingevano.
Questi tentativi su quegli animi pronti efficacemente operavano, e già
Francia si moveva confidente contro la lega europea. Pensiero era di
assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte e Italia. A tanta mole
erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera
Massena animosamente combatteva contro l'arciduca Carlo. Restava che
agli eserciti che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro
l'Italia venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati,
accetti agl'Italiani. Championnet e Joubert più di tutti maggiormente
lodavansi di queste condizioni. Furono eletti.
De' due eserciti che il direttorio aveva intenzione di mandare contro
gli alleati in Italia, il primo, governato da Championnet, aveva
carico di minacciar il Piemonte superiore e preservare le fortezze
di Cuneo e Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare,
per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il
Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio e di
combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si
mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano. Era
intenzione che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero
verso i luoghi a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva
ancora messo insieme tante genti che fossero abbastanza a così grave
bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi
essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non
poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come
sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva
l'esercito pronto e capace di combattere; erano in lui i forti veterani
di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della
Vandea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo.
Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini ed
infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidii necessarii,
perchè abbondavano di artiglierie e munizioni; solo desideravano un
maggior nervo di cavalleria. Temevano che Tortona, che dopo la perdita
di Alessandria era il solo forte che potesse facilitare la strada ai
repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con
forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet
non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato
a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in
battaglia campale il nemico, e, se ciò non gli venisse fatto, sperava
almeno che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere
Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne
dovea partire per andare al governo della guerra del Reno: «Generale,
gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco che il
primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi
che restiate con noi, e che governiate le genti come supremo duce voi
medesimo: ciò mi fia caro oltremodo. Sarommi il primo ad obbedirvi
e ad adoprarmi qual vostro primo aiutante.» Tant'era la venerazione
che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza
del suo animo. Ciò fu cagione che Moreau restasse ed aiutasse col suo
consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano.
Le genti venute da Napoli con Macdonald e l'antico esercito di Moreau
si calavano la maggior parte per la Bocchetta; le venute frescamente da
Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Aqui. Bellegarde fece
qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più
alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che,
prevalendo di cavalleria, voleva aspettare i repubblicani al piano.
Entrarono questi in Aqui: il mandarono a sacco per vendetta di compagni
uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti liguri.
Quando l'ala sinistra dei Franzesi, di cui abbiam favellato, e che
era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy,
Lemoine e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e
della destra, ordinava Joubert il suo esercito ed il disponeva agli
ulteriori disegni. La mezzana obbediva a Joubert; la destra era
commessa al valore del generale Saint Cyr, che aveva con sè Vatrin,
Laboissiere e Dambrowski. Questa ultima scesa dalla Bocchetta arrivava
per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva
intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale polacco,
il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezzana
alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada
nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra
aveva le sue stanze verso Basalazzo. Così l'oste di Francia, nella
quale si noveravano circa quaranta mila soldati, si distendeva dalla
Bormida sin oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della
Bormida, dell'Erro ed Orba, del Lemmo e Scrivia. Nè contento Joubert
alla fortezza naturale di quei luoghi erti e montuosi, con trincee, con
fossi e con batterie di cannoni, piantate nei siti più acconci alle
difese, gli affortificava. Per tal modo i Franzesi sovrastavano dai
monti alla sottoposta pianura.
Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua
dritta, composta massimamente di quei Tedeschi che Kray aveva condotto
dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo
governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara: la mezzana,
a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi
tutta consisteva in soldati russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro
di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri
austriaci e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine
di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la ricuperazione
di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne
fosse: erano nel novero di circa settanta mila soldati. Apparivano
l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia
poteva differirsi, battaglia ardentemente desiderata da Joubert sì per
ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che volea che
non si stesse ad indugiare, per far inclinar del tutto le sorti dall'un
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