Annali d'Italia, vol. 8 - 61
vicine a Napoli, più quiete; gente sfrenata guidata da capi ancor più
sfrenati, commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo
regio e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno
Sciarpa, antico soldato, uomo tanto audace quanto feroce, aveva posto
a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno.
Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo,
suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo
dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Dall'altra
parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande,
risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti
sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più
importante sommossa, dopo quella del cardinale ardeva nella Puglia, sì
perchè era molto grossa per sè, sì perchè a lei si erano congiunti gli
Abruzzesi, sì perchè alle abruzzesi rive avevano adito le armate russe,
ottomane ed inglesi, e sì perchè la Puglia per la feracità delle sue
terre nodriva la popolosa Napoli.
A questo modo, nonostante la gloriosa vittoria di Championnet, da
Napoli in fuori e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i
repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato che con
isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore del
re, quantunque i modi che si usavano non fossero degni nè del re nè
di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le
cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i
Franzesi, per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione,
ed ogni giorno più si rendeva necessario che con qualche nuovo e
segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie
di Napoli il valore.
Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano
prima della sua partenza) a fare due spedizioni, una contro la
Puglia, l'altra contro la Calabria, commettendo la prima alla fede
ed al pruovato valore di Duhesme, la seconda al generale Olivier.
Accompagnava Duhesme, da parte del governo napolitano con una legione
napolitana ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di
Ruvo, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce e capace di tentare
qualunque difficile e pericolosa impresa. Dopo varie vicende, era
venuto con Championnet, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del
regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo napolitano,
conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre
pasceva l'animo di pensieri smisurati e si mostrava più inclinato a
comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano
le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio e pieno
di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità e per
pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanche se
questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie e
fece depredazioni incredibili, non considerando nè come nè contro chi,
o repubblicani o regi che si fossero: soldati e denari per pagargli,
questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure
era il solo uomo capace di puntellare quello Stato cadente: l'avrebbe
anche fatto, ma forse per sè, non per la repubblica.
Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani,
piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura
tale che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa e dell'astuto ed
animoso cardinale. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano
cauti per paura d'agguati e di assalti improvvisi in un paese
sollevato; marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente
il paese: con loro marciavano i consigli militari, sempre pronti a
dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono
incontanente uccisi. Così dall'un canto Duhesme ed il conte Ettore
incrudelivano coi supplizii contro i regi, dall'altro Sciarpa, Mammone
e Ruffo incrudelivano anche coi suplizii contro i repubblicani.
Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano
le vendette, le vendette le ire. Marciava Duhesme spartito in due
colonne. Vinte parecchie città, si deliberava ad andare all'assalto
di San Severo, perchè distrutto quel nido principale, sperava che
gli altri si sottometterebbero. Erano i regi in San Severo grossi
di dodici mila combattenti fra soldati vecchi e gente collettizia.
Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la
pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni
piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito.
Accorgendosi i regi che i repubblicani si distendevano a sinistra
per assaltarli di fianco e alle spalle, si calarono con grandissimo
ardire ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Durò
lunga pezza, con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore
era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regi di numero,
prevalevano i repubblicani in perizia. Infine andarono i primi in
volta, e già al punto stesso il generale Forest arrivava alle loro
spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione. Tre mila
soldati vi perdettero la vita: tutti o la più parte l'avrebbero
perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido
e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente
ed istantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei
figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse
molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti.
La fama della vittoria di San Severo ridusse all'obbedienza le contrade
vicine, aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza
pei Franzesi. Intanto licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto
il governo, e non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia,
ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso Napoli.
Le quali cose saputesi dai regii, inondavano di nuovo la provincia
e tagliavano le strade dalla Puglia a Napoli. Fu ben forza allora,
se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistare le
terre perdute ed a rompere quella testa di regii, che si era adunata
in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni
vecchie e nuove; pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti a
difendersi. S'incamminava l'assalto da Andria: ad estremo pericolo era
per succedere estrema barbarie.
Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli
assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minore animo si
difendevano gli assaliti, nè i primi facevano frutto di momento. Già
venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar
di un obice atterrava la porta di Andria. Precipitaronsi i Franzesi;
a loro si accostavano i napolitani. Continuarono ciò non ostante a
difendersi furiosamente da tutte le case i regi. Non venne la città
intieramente in poter dei repubblicani se non dopo che tutte le case,
le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante
morti nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino se non alla
distruzione totale della misera terra. Sei mila Andriotti furono in
poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i
vecchi, le donne, i fanciulli, e nè anche tutti, furono risparmiati.
Trani tuttavia si teneva pei regi, nè lo sterminio d'Andria
gl'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con otto mila
difensori usi alle armi, accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva
piuttosto atta a pigliarsi per assedio che per assalto. Ma il tempo
stringeva, ed i repubblicani, sì franzesi che napolitani, erano pronti
a qualunque più pericolosa fazione. Andavano dunque all'assalto di
Trani. I regi, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi
ad aspettarli al luogo minacciato. Ardeva la battaglia e succedevano
molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le
parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutti intenti a tener lontani
dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato
a riva il mare: della quale occasione prevalendosi i repubblicani, se
ne impadronirono e voltarono i loro cannoni contro la città. Questo
grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però
molto scempio loro, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a
loro favore. Tuttavia i regi continuavano a difendersi ostinatamente,
essendo come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezza.
Finalmente sparso molto sangue in una pertinacissima difesa i regi
abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto
erano allestite per fuggire. Ma nemmeno in queste trovarono scampo;
poichè i Franzesi, avendo preveduto il caso, avevano armato alcune
navi che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per
assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul
lido era senza misericordia e remissione alcuna ucciso dai trionfanti
repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco
ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli che o portavano o potevano
portar armi, mandati a fil di spada. Quietava, ma non del tutto, la
Puglia per queste vittorie.
Schipani mandato a combattere i sollevati ed a sopire le cose di
Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e
conflisse infelicemente ed irritò con parole ed atti repubblicani molto
estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo
provocasse. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà d'unirsi
con le bande del cardinale Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le
Calabrie e la terra di Bari sollevata a rumore impugnavano coll'armi
in mano la recente repubblica. Nè i Franzesi potevano porvi rimedio,
perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della
città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo,
pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale che a conquistare
le provincie. Schipani, tentato invano le Calabrie, se ne giva a
far la guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli
tumultuavano. Ma i popoli lo combatterono per guisa che fu costretto
ad andarsene. Vi si condussero i Franzesi; saccheggiarono Lauro, poi
se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed
i Lauriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di
Salerno; e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del
regno. Accresceva il pericolo l'avere gli Inglesi occupato, non senza
un valoroso fatto di Francesco Caracciolo che li combattè per molte
ore, le isole d'Ischia e di Procida, che per essere situate alle bocche
del golfo di Napoli, ne danno la signoria a chi le tiene. Così ardeva
la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno,
s'incominciava a temere che l'impresa di Championnet fosse stata più
imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da
ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regii poscia
i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le cose
e gli edifizii tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era
questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima
degli abitanti e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e
religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli
contro i padri, fratelli contro i fratelli, e per fino mariti contro le
mogli e mogli contro i mariti. Per atterrire chi atterriva, Macdonald
mandava fuori, a dì 4 marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio
del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini.
Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani
instituiti in Italia e contro i Franzesi, si accresceva vieppiù dalle
sommosse che, nate ora in un luogo ed ora in un altro, travagliavano
lo Stato romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini
ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto; già Rieti pericolava.
Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo
il generale Merlin a sottometterla, ancorchè con palle infuocate la
combattesse. Stroncone e Alatri parimente rumoreggiavano; Orvieto
anch'esso aveva fatto mutazione ed ostinatissimamente si difendeva
contro i repubblicani. L'incendio si dilatava; ogni luogo era o mosso
con le armi impugnate o poco sicuro anche nella quiete.
Nonostante i pericoli che correvano, il direttorio di Francia, o non
curandoli o facendo sembianza di non curarli, si era risoluto a far
mutazioni nel governo di Napoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario
del direttorio, il quale, prevalendosi dei buoni si sforzava di
consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle
finanze e fecene di lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava;
gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo
di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della costituzione
proposto dalla congregazione napolitana e di cui abbiamo di sopra
parlato. Creò fra gli altri un direttorio; imitazione servile. Ma
quel che l'ordine aveva in sè di cattivo, correggeva con le persone:
chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe
Albanesi, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi e di non
ordinaria virtù.
Diede ancora Abrial prova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo
civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi
casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e
Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Franzesi;
imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti dei poeta,
quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse.
Vollero riconoscere la conservata salute, offrendo a Macdonald, perchè
non sapendo di Abrial, a lui riferivano, il ritratto del Tasso dipinto
dal vivo, come si credea, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald,
facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed
essa, l'immagine del porta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con
segno di gratitudine unico al mondo, un immenso benefizio. L'accettava
di buon animo Abrial e molto caro se lo serbava, dolce e pietosa
conquista.
Restava che i due fiori d'Italia, Lucca e Toscana, si guastassero.
Entrava sul principiare del presente anno in Lucca, accompagnato da
quattrocento cavalli, Serrurier: tosto pubblicava le solite lusinghe.
Il fine primo ma non primario dell'invasione lucchese era il prestito
di due milioni di franchi che dai Lucchesi si richiedeva pei servigi
dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè
le parole suonassero in contrario. Già Lucca era serva, poichè l'antico
governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno se non approvato
da Serrurier. Miallis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi
s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà
di gennaio tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna,
addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello Stato
popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e
forastiere.
Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che
deliberanti, e, cedendo al tempo, stanziarono che fosse abolita la
nobiltà, che il popolo lucchese riassumesse la sovranità, che dodici
deputati si eleggessero per ordinare una costituzione democratica
secondo il modello di quella che reggeva Lucca prima della legge
Martiniana. Furono eletti, la maggior parte nobili. I democrati pazzi
non vollero udire parole italiche; però fecero accettare le forme
franzesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a
Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi
a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerie d'armi, i
granai di vettovaglie; in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile
provvidenza lucchese furono dissipati e guasti. Quindi sorsero le
parti, perchè chi voleva vivere Lucchese e chi unito alla Cisalpina. Si
aggiunsero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere alloggiare,
pagare i soldati forastieri che andavano e venivano o stanziavano,
ora Liguri, ora Cisalpini, ora Franzesi, con molte altre molestie,
accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente, la fiorita
ed intemerata Lucca divenne sentina di mali e ne fu desolata.
Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione
del re, un governo che non si saprebbe con qual nome chiamare, si
conobbe tostamente che le recenti mutazioni non erano grado dei
popoli. I soldati massimamente non si potevano accomodare, perchè
ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Franzesi, e
questi in grado di vinti tenendoli, non li trattavano da compagni.
Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un
popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era dunque in Piemonte
quiete apparente e sostanza minacciosa. Grande scapito aveva patito
il governo e per lo spoglio del palazzo del re, non da' Piemontesi, e
per aver mandato i capi di famiglia di primaria nobiltà come ostaggi,
e pei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il
valore, e poi il risecava di due terzi, il che fu grave ferita a coloro
che li possedevano. Sobbissava il Piemonte sì pei debiti, nè poteva
bastare alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi,
del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forastieri.
Rovinava a precipizio lo Stato: in tre mesi, sebbene si estremassero
le spese pei servigii piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata
ed in sostanze meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse,
nissuno il sapeva: la desolazione e la solitudine erano imminenti.
Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già
abbiamo detto in parte ciò che rendeva il governo poco accetto.
Seguitava che i municipali di Torino, imitando quei di Parigi ai
tempi della rivoluzione, l'emulavano e traevano con sè molto seguito.
A questo erano stimolati da alcuni repubblicani franzesi, i quali si
lamentavano di non aver avuto dal governo piemontese quelle ricompense
che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese
aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.
I musei intanto e le librerie si spogliavano rapivasi la tavola Isiaca,
rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio e quanto si credeva poter
ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo
a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci ed il conte Laville
deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data
libertà, il tenessero bene edificato ed esplorassero qual fosse il suo
pensiero intorno alle sorti future del Piemonte.
Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò
vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione
fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che
si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di
nobiltà e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.
Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti piemontesi, si
moltiplicavano e s'inasprivano. Chi voleva esser Franzese, chi
Italiano, chi Piemontese. Si viveva in queste incertezze, quando
arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo.
Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da
Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del
Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto
con chi comandava che con chi obbediva, si era deliberato a proporre
in cospetto del governo il partito della unione con la Francia.
Seguì tosto l'effetto, perchè avendo parlato con singolare eloquenza,
da quell'uomo d'ingegno piuttosto mirabile che raro ch'egli era, e
confermato il suo favellare con raziocinii speciosissimi, perciocchè
nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il
partito; non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero,
altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi
dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine
i municipali di Torino. Vi aderirono volontieri. La deliberazione
della capitale fu di grandissima importanza, perchè, essendo conforme
a quella del governo, facilmente tirava con sè tutto il paese. Si
mandarono commissarii nelle provincie a far gli squittini per le
unioni. I popoli non l'intendevano e certamente ripugnavano. Ma
l'autorità del governo e la presenza dei Franzesi facevano chiarire
i magistrati in favore. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi
Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore
e di gran fama in Piemonte; ma vissuti, discordi a Parigi, produssero
discordia nella patria loro.
Questa risoluzione del governo lo scemò di riputazione, perchè il
popolo non amava l'imperio dei forastieri; gl'Italiani si adoperavano
per farlo vieppiù odioso. Fu anche non cagione, ma occasione di un moto
più feroce e ridicolo che nobile e pericoloso nella provincia d'Aqui.
Dieci mila sollevati, compromessi molti luoghi, si disperdevano e della
loro imbecillità pativano i danni Strevi, Aqui, ed altri comuni ancora.
Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia
che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli
era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di
commissario politico e civile, affinchè vi ordinasse il paese alla
foggia franzese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei
si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degli
Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali,
i magistrati distrettuali e municipali secondo gli ordini usati in
Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate, chiamava a sè
Prina, che molto ed anche troppo se n'intendeva. S'ingegnava di sopire
le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo
grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando
timori e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le
passioni già tanto accese.
Così, come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte.
Meglio Genova e Milano si mantenevano per aver governi più ordinati,
ma più la prima che il secondo, perchè l'amor della adulazione verso i
forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini
avari e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano
apparecchiate le occasioni alla tempesta, che già si avvicinava ai
confini d'Italia.
Le arti dell'Inghilterra, delle quali abbiamo altrove parlato,
partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già
tutt'Europa novellamente si muoveva a danni della Francia e dei nuovi
Stati che ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito
in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al
tempo stesso aveva operato che la parte che nei Grigioni inclinava
a suo favore la chiamasse a preservar il paese dall'invasione dei
Franzesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar
quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano da
una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della
Valtellina. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperadore Francesco
il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a
Melas in Italia; era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon
nome nelle guerre germaniche e molto amato dai soldati. In tal guisa
l'Austria si preparava alla guerra.
Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di
Paolo imperadore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del
Tanai, marciavano alla volta della Germania ed erano destinate a fare
con gli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati
tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso, per l'incredibile
suo ardimento, a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli della
guerra. A tutta questa mole, già di per sè stessa tanto grave, si
aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia, e
della Turchia, le quali, l'Adriatico dominando ed il Mediterraneo
correndo, potevano effettuare sulle coste di Italia subiti trasporti e
sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica.
Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Franzesi, perchè
infiniti sdegni vi erano raccolti, sì per la contrarietà delle opinioni
attinenti allo Stato od alla religione, e sì per le offese recate dal
nuovo dominio.
Dall'altro lato era intento del direttorio di far guerra con tre
eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato
il Reno di assaltare la Baviera, che s'era accostata alla lega, il
secondo governato da Massena negli Svizzeri, facesse opera di cacciare
gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e, camminando avanti,
di dar mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia.
Era stato proposto alle genti italiche il generale Scherer, vincitore
di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva,
passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per
conquistare gli Stati ereditarii. Aveva con sè congiunti i Piemontesi
ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e
molto capace per l'ingegno, l'ardire e l'esperienza di governar questa
guerra, aveva chiesto licenza, ed il direttorio, che riteneva in tutte
le cose le solite sospizioni, temendo di lui, molto volentieri glie
l'aveva conceduta. Compariva Scherer, non senza parigino fasto; il che
rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert e lo squallore
dei soldati. Ciò fece anche sospettare che le opere del peculato
avessero peggio che prima a ricominciare: ognuno stava di mala voglia.
Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra
le parti, perchè il direttorio, prima di risentirsi dell'avvicinarsi
dei Russi, aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter
suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola,
mentre poteva combattere accompagnata, che le genti russe alle sue
si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, costretto dalla
fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il
direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi
non fermassero i passi contro la Francia e dagli Stati imperiali non
retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale
diè risposte ambigue e si temporeggiava per dar comodità ai soldati
di Paolo di arrivare. Conobbe la cosa il direttorio, e però si
determinava del tutto allo guerra, volendo prevenire quello che
l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva, per
dar principio alle ostilità che l'udire che Jourdan e Massena avessero
fatto il debito loro sul dorso germanico delle Alpi. Sentite le novelle
del passo effettuato sul Reno del primo, e dello aver combattuto il
secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei
Grigioni, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltare il
nemico.
Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non
si poter fidare del granduca Ferdinando di Toscana, e perciò si era
risoluto di cacciarlo da' suoi Stati. A questo fine, toccato prima
che avesse dato asilo al papa e passo ai Napolitani, ed affermato che
s'intendesse segretamente coi confederati ai danni della repubblica,
Scherer ordinava che il dominio di Francia s'introducesse in
Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia
a quel momento stesso in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi
inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le stanze,
entrava nella felice Toscana, e il dì 25 di marzo, conducendo con
sè un grosso corpo di cavalleria con qualche nervo di fanteria e col
solito corredo di artiglierie e di salmerie, faceva, qui trionfatore,
il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città
di Firenze. Così la sede di civiltà divenne occupata da insolite e
forestiere soldatesche.
I trionfatori disarmavano i soldati toscani, s'impadronivano delle
fortezze, del corpo di guardia, del palazzo vecchio e delle porte.
Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a
sfrenati, commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo
regio e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno
Sciarpa, antico soldato, uomo tanto audace quanto feroce, aveva posto
a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno.
Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo,
suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo
dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Dall'altra
parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande,
risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti
sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più
importante sommossa, dopo quella del cardinale ardeva nella Puglia, sì
perchè era molto grossa per sè, sì perchè a lei si erano congiunti gli
Abruzzesi, sì perchè alle abruzzesi rive avevano adito le armate russe,
ottomane ed inglesi, e sì perchè la Puglia per la feracità delle sue
terre nodriva la popolosa Napoli.
A questo modo, nonostante la gloriosa vittoria di Championnet, da
Napoli in fuori e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i
repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato che con
isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore del
re, quantunque i modi che si usavano non fossero degni nè del re nè
di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le
cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i
Franzesi, per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione,
ed ogni giorno più si rendeva necessario che con qualche nuovo e
segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie
di Napoli il valore.
Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano
prima della sua partenza) a fare due spedizioni, una contro la
Puglia, l'altra contro la Calabria, commettendo la prima alla fede
ed al pruovato valore di Duhesme, la seconda al generale Olivier.
Accompagnava Duhesme, da parte del governo napolitano con una legione
napolitana ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di
Ruvo, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce e capace di tentare
qualunque difficile e pericolosa impresa. Dopo varie vicende, era
venuto con Championnet, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del
regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo napolitano,
conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre
pasceva l'animo di pensieri smisurati e si mostrava più inclinato a
comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano
le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio e pieno
di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità e per
pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanche se
questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie e
fece depredazioni incredibili, non considerando nè come nè contro chi,
o repubblicani o regi che si fossero: soldati e denari per pagargli,
questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure
era il solo uomo capace di puntellare quello Stato cadente: l'avrebbe
anche fatto, ma forse per sè, non per la repubblica.
Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani,
piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura
tale che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa e dell'astuto ed
animoso cardinale. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano
cauti per paura d'agguati e di assalti improvvisi in un paese
sollevato; marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente
il paese: con loro marciavano i consigli militari, sempre pronti a
dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono
incontanente uccisi. Così dall'un canto Duhesme ed il conte Ettore
incrudelivano coi supplizii contro i regi, dall'altro Sciarpa, Mammone
e Ruffo incrudelivano anche coi suplizii contro i repubblicani.
Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano
le vendette, le vendette le ire. Marciava Duhesme spartito in due
colonne. Vinte parecchie città, si deliberava ad andare all'assalto
di San Severo, perchè distrutto quel nido principale, sperava che
gli altri si sottometterebbero. Erano i regi in San Severo grossi
di dodici mila combattenti fra soldati vecchi e gente collettizia.
Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la
pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni
piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito.
Accorgendosi i regi che i repubblicani si distendevano a sinistra
per assaltarli di fianco e alle spalle, si calarono con grandissimo
ardire ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Durò
lunga pezza, con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore
era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regi di numero,
prevalevano i repubblicani in perizia. Infine andarono i primi in
volta, e già al punto stesso il generale Forest arrivava alle loro
spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione. Tre mila
soldati vi perdettero la vita: tutti o la più parte l'avrebbero
perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido
e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente
ed istantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei
figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse
molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti.
La fama della vittoria di San Severo ridusse all'obbedienza le contrade
vicine, aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza
pei Franzesi. Intanto licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto
il governo, e non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia,
ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso Napoli.
Le quali cose saputesi dai regii, inondavano di nuovo la provincia
e tagliavano le strade dalla Puglia a Napoli. Fu ben forza allora,
se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistare le
terre perdute ed a rompere quella testa di regii, che si era adunata
in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni
vecchie e nuove; pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti a
difendersi. S'incamminava l'assalto da Andria: ad estremo pericolo era
per succedere estrema barbarie.
Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli
assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minore animo si
difendevano gli assaliti, nè i primi facevano frutto di momento. Già
venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar
di un obice atterrava la porta di Andria. Precipitaronsi i Franzesi;
a loro si accostavano i napolitani. Continuarono ciò non ostante a
difendersi furiosamente da tutte le case i regi. Non venne la città
intieramente in poter dei repubblicani se non dopo che tutte le case,
le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante
morti nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino se non alla
distruzione totale della misera terra. Sei mila Andriotti furono in
poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i
vecchi, le donne, i fanciulli, e nè anche tutti, furono risparmiati.
Trani tuttavia si teneva pei regi, nè lo sterminio d'Andria
gl'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con otto mila
difensori usi alle armi, accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva
piuttosto atta a pigliarsi per assedio che per assalto. Ma il tempo
stringeva, ed i repubblicani, sì franzesi che napolitani, erano pronti
a qualunque più pericolosa fazione. Andavano dunque all'assalto di
Trani. I regi, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi
ad aspettarli al luogo minacciato. Ardeva la battaglia e succedevano
molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le
parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutti intenti a tener lontani
dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato
a riva il mare: della quale occasione prevalendosi i repubblicani, se
ne impadronirono e voltarono i loro cannoni contro la città. Questo
grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però
molto scempio loro, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a
loro favore. Tuttavia i regi continuavano a difendersi ostinatamente,
essendo come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezza.
Finalmente sparso molto sangue in una pertinacissima difesa i regi
abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto
erano allestite per fuggire. Ma nemmeno in queste trovarono scampo;
poichè i Franzesi, avendo preveduto il caso, avevano armato alcune
navi che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per
assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul
lido era senza misericordia e remissione alcuna ucciso dai trionfanti
repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco
ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli che o portavano o potevano
portar armi, mandati a fil di spada. Quietava, ma non del tutto, la
Puglia per queste vittorie.
Schipani mandato a combattere i sollevati ed a sopire le cose di
Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e
conflisse infelicemente ed irritò con parole ed atti repubblicani molto
estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo
provocasse. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà d'unirsi
con le bande del cardinale Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le
Calabrie e la terra di Bari sollevata a rumore impugnavano coll'armi
in mano la recente repubblica. Nè i Franzesi potevano porvi rimedio,
perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della
città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo,
pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale che a conquistare
le provincie. Schipani, tentato invano le Calabrie, se ne giva a
far la guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli
tumultuavano. Ma i popoli lo combatterono per guisa che fu costretto
ad andarsene. Vi si condussero i Franzesi; saccheggiarono Lauro, poi
se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed
i Lauriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di
Salerno; e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del
regno. Accresceva il pericolo l'avere gli Inglesi occupato, non senza
un valoroso fatto di Francesco Caracciolo che li combattè per molte
ore, le isole d'Ischia e di Procida, che per essere situate alle bocche
del golfo di Napoli, ne danno la signoria a chi le tiene. Così ardeva
la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno,
s'incominciava a temere che l'impresa di Championnet fosse stata più
imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da
ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regii poscia
i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le cose
e gli edifizii tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era
questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima
degli abitanti e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e
religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli
contro i padri, fratelli contro i fratelli, e per fino mariti contro le
mogli e mogli contro i mariti. Per atterrire chi atterriva, Macdonald
mandava fuori, a dì 4 marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio
del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini.
Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani
instituiti in Italia e contro i Franzesi, si accresceva vieppiù dalle
sommosse che, nate ora in un luogo ed ora in un altro, travagliavano
lo Stato romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini
ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto; già Rieti pericolava.
Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo
il generale Merlin a sottometterla, ancorchè con palle infuocate la
combattesse. Stroncone e Alatri parimente rumoreggiavano; Orvieto
anch'esso aveva fatto mutazione ed ostinatissimamente si difendeva
contro i repubblicani. L'incendio si dilatava; ogni luogo era o mosso
con le armi impugnate o poco sicuro anche nella quiete.
Nonostante i pericoli che correvano, il direttorio di Francia, o non
curandoli o facendo sembianza di non curarli, si era risoluto a far
mutazioni nel governo di Napoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario
del direttorio, il quale, prevalendosi dei buoni si sforzava di
consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle
finanze e fecene di lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava;
gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo
di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della costituzione
proposto dalla congregazione napolitana e di cui abbiamo di sopra
parlato. Creò fra gli altri un direttorio; imitazione servile. Ma
quel che l'ordine aveva in sè di cattivo, correggeva con le persone:
chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe
Albanesi, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi e di non
ordinaria virtù.
Diede ancora Abrial prova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo
civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi
casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e
Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Franzesi;
imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti dei poeta,
quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse.
Vollero riconoscere la conservata salute, offrendo a Macdonald, perchè
non sapendo di Abrial, a lui riferivano, il ritratto del Tasso dipinto
dal vivo, come si credea, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald,
facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed
essa, l'immagine del porta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con
segno di gratitudine unico al mondo, un immenso benefizio. L'accettava
di buon animo Abrial e molto caro se lo serbava, dolce e pietosa
conquista.
Restava che i due fiori d'Italia, Lucca e Toscana, si guastassero.
Entrava sul principiare del presente anno in Lucca, accompagnato da
quattrocento cavalli, Serrurier: tosto pubblicava le solite lusinghe.
Il fine primo ma non primario dell'invasione lucchese era il prestito
di due milioni di franchi che dai Lucchesi si richiedeva pei servigi
dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè
le parole suonassero in contrario. Già Lucca era serva, poichè l'antico
governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno se non approvato
da Serrurier. Miallis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi
s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà
di gennaio tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna,
addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello Stato
popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e
forastiere.
Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che
deliberanti, e, cedendo al tempo, stanziarono che fosse abolita la
nobiltà, che il popolo lucchese riassumesse la sovranità, che dodici
deputati si eleggessero per ordinare una costituzione democratica
secondo il modello di quella che reggeva Lucca prima della legge
Martiniana. Furono eletti, la maggior parte nobili. I democrati pazzi
non vollero udire parole italiche; però fecero accettare le forme
franzesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a
Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi
a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerie d'armi, i
granai di vettovaglie; in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile
provvidenza lucchese furono dissipati e guasti. Quindi sorsero le
parti, perchè chi voleva vivere Lucchese e chi unito alla Cisalpina. Si
aggiunsero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere alloggiare,
pagare i soldati forastieri che andavano e venivano o stanziavano,
ora Liguri, ora Cisalpini, ora Franzesi, con molte altre molestie,
accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente, la fiorita
ed intemerata Lucca divenne sentina di mali e ne fu desolata.
Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione
del re, un governo che non si saprebbe con qual nome chiamare, si
conobbe tostamente che le recenti mutazioni non erano grado dei
popoli. I soldati massimamente non si potevano accomodare, perchè
ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Franzesi, e
questi in grado di vinti tenendoli, non li trattavano da compagni.
Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un
popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era dunque in Piemonte
quiete apparente e sostanza minacciosa. Grande scapito aveva patito
il governo e per lo spoglio del palazzo del re, non da' Piemontesi, e
per aver mandato i capi di famiglia di primaria nobiltà come ostaggi,
e pei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il
valore, e poi il risecava di due terzi, il che fu grave ferita a coloro
che li possedevano. Sobbissava il Piemonte sì pei debiti, nè poteva
bastare alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi,
del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forastieri.
Rovinava a precipizio lo Stato: in tre mesi, sebbene si estremassero
le spese pei servigii piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata
ed in sostanze meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse,
nissuno il sapeva: la desolazione e la solitudine erano imminenti.
Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già
abbiamo detto in parte ciò che rendeva il governo poco accetto.
Seguitava che i municipali di Torino, imitando quei di Parigi ai
tempi della rivoluzione, l'emulavano e traevano con sè molto seguito.
A questo erano stimolati da alcuni repubblicani franzesi, i quali si
lamentavano di non aver avuto dal governo piemontese quelle ricompense
che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese
aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.
I musei intanto e le librerie si spogliavano rapivasi la tavola Isiaca,
rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio e quanto si credeva poter
ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo
a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci ed il conte Laville
deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data
libertà, il tenessero bene edificato ed esplorassero qual fosse il suo
pensiero intorno alle sorti future del Piemonte.
Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò
vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione
fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che
si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di
nobiltà e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.
Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti piemontesi, si
moltiplicavano e s'inasprivano. Chi voleva esser Franzese, chi
Italiano, chi Piemontese. Si viveva in queste incertezze, quando
arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo.
Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da
Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del
Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto
con chi comandava che con chi obbediva, si era deliberato a proporre
in cospetto del governo il partito della unione con la Francia.
Seguì tosto l'effetto, perchè avendo parlato con singolare eloquenza,
da quell'uomo d'ingegno piuttosto mirabile che raro ch'egli era, e
confermato il suo favellare con raziocinii speciosissimi, perciocchè
nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il
partito; non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero,
altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi
dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine
i municipali di Torino. Vi aderirono volontieri. La deliberazione
della capitale fu di grandissima importanza, perchè, essendo conforme
a quella del governo, facilmente tirava con sè tutto il paese. Si
mandarono commissarii nelle provincie a far gli squittini per le
unioni. I popoli non l'intendevano e certamente ripugnavano. Ma
l'autorità del governo e la presenza dei Franzesi facevano chiarire
i magistrati in favore. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi
Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore
e di gran fama in Piemonte; ma vissuti, discordi a Parigi, produssero
discordia nella patria loro.
Questa risoluzione del governo lo scemò di riputazione, perchè il
popolo non amava l'imperio dei forastieri; gl'Italiani si adoperavano
per farlo vieppiù odioso. Fu anche non cagione, ma occasione di un moto
più feroce e ridicolo che nobile e pericoloso nella provincia d'Aqui.
Dieci mila sollevati, compromessi molti luoghi, si disperdevano e della
loro imbecillità pativano i danni Strevi, Aqui, ed altri comuni ancora.
Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia
che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli
era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di
commissario politico e civile, affinchè vi ordinasse il paese alla
foggia franzese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei
si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degli
Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali,
i magistrati distrettuali e municipali secondo gli ordini usati in
Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate, chiamava a sè
Prina, che molto ed anche troppo se n'intendeva. S'ingegnava di sopire
le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo
grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando
timori e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le
passioni già tanto accese.
Così, come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte.
Meglio Genova e Milano si mantenevano per aver governi più ordinati,
ma più la prima che il secondo, perchè l'amor della adulazione verso i
forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini
avari e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano
apparecchiate le occasioni alla tempesta, che già si avvicinava ai
confini d'Italia.
Le arti dell'Inghilterra, delle quali abbiamo altrove parlato,
partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già
tutt'Europa novellamente si muoveva a danni della Francia e dei nuovi
Stati che ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito
in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al
tempo stesso aveva operato che la parte che nei Grigioni inclinava
a suo favore la chiamasse a preservar il paese dall'invasione dei
Franzesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar
quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano da
una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della
Valtellina. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperadore Francesco
il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a
Melas in Italia; era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon
nome nelle guerre germaniche e molto amato dai soldati. In tal guisa
l'Austria si preparava alla guerra.
Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di
Paolo imperadore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del
Tanai, marciavano alla volta della Germania ed erano destinate a fare
con gli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati
tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso, per l'incredibile
suo ardimento, a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli della
guerra. A tutta questa mole, già di per sè stessa tanto grave, si
aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia, e
della Turchia, le quali, l'Adriatico dominando ed il Mediterraneo
correndo, potevano effettuare sulle coste di Italia subiti trasporti e
sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica.
Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Franzesi, perchè
infiniti sdegni vi erano raccolti, sì per la contrarietà delle opinioni
attinenti allo Stato od alla religione, e sì per le offese recate dal
nuovo dominio.
Dall'altro lato era intento del direttorio di far guerra con tre
eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato
il Reno di assaltare la Baviera, che s'era accostata alla lega, il
secondo governato da Massena negli Svizzeri, facesse opera di cacciare
gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e, camminando avanti,
di dar mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia.
Era stato proposto alle genti italiche il generale Scherer, vincitore
di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva,
passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per
conquistare gli Stati ereditarii. Aveva con sè congiunti i Piemontesi
ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e
molto capace per l'ingegno, l'ardire e l'esperienza di governar questa
guerra, aveva chiesto licenza, ed il direttorio, che riteneva in tutte
le cose le solite sospizioni, temendo di lui, molto volentieri glie
l'aveva conceduta. Compariva Scherer, non senza parigino fasto; il che
rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert e lo squallore
dei soldati. Ciò fece anche sospettare che le opere del peculato
avessero peggio che prima a ricominciare: ognuno stava di mala voglia.
Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra
le parti, perchè il direttorio, prima di risentirsi dell'avvicinarsi
dei Russi, aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter
suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola,
mentre poteva combattere accompagnata, che le genti russe alle sue
si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, costretto dalla
fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il
direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi
non fermassero i passi contro la Francia e dagli Stati imperiali non
retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale
diè risposte ambigue e si temporeggiava per dar comodità ai soldati
di Paolo di arrivare. Conobbe la cosa il direttorio, e però si
determinava del tutto allo guerra, volendo prevenire quello che
l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva, per
dar principio alle ostilità che l'udire che Jourdan e Massena avessero
fatto il debito loro sul dorso germanico delle Alpi. Sentite le novelle
del passo effettuato sul Reno del primo, e dello aver combattuto il
secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei
Grigioni, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltare il
nemico.
Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non
si poter fidare del granduca Ferdinando di Toscana, e perciò si era
risoluto di cacciarlo da' suoi Stati. A questo fine, toccato prima
che avesse dato asilo al papa e passo ai Napolitani, ed affermato che
s'intendesse segretamente coi confederati ai danni della repubblica,
Scherer ordinava che il dominio di Francia s'introducesse in
Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia
a quel momento stesso in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi
inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le stanze,
entrava nella felice Toscana, e il dì 25 di marzo, conducendo con
sè un grosso corpo di cavalleria con qualche nervo di fanteria e col
solito corredo di artiglierie e di salmerie, faceva, qui trionfatore,
il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città
di Firenze. Così la sede di civiltà divenne occupata da insolite e
forestiere soldatesche.
I trionfatori disarmavano i soldati toscani, s'impadronivano delle
fortezze, del corpo di guardia, del palazzo vecchio e delle porte.
Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a
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