Annali d'Italia, vol. 8 - 60
Il giorno seguente, non avendo ancor salpato pei venti contrarii, sorse
uno spettacolo miserabile; poichè fatte uscir prima le navi Napolitane,
sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare
il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa
nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re che di non
lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco che le proprie sue forze
consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate
della costa di Posillipo ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile
consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e
terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò
deputati a pregar Ferdinando affinchè restasse, proferendo le sostanze
e le vite a difesa ed a conservazione sua; ma fu negata ai deputati
la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e
da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì 2 gennaio, infelice per
l'aspetto terribile di Napoli che ancora agli occhi dei naviganti
appariva; più infelice pei venti avversi che poco dopo la percossero.
Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe il dolore, la mestizia e
il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo
di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo
spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente
le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni
amorevoli dei Siciliani mitigarono l'amarezza concetta per l'esilio e
per la fresca perdita del morto figliuolo.
La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la
fortuna si mostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi
difficoltà per le popolazioni armate che loro contrastavano il passo,
Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto
le popolazioni medesime crescevano di numero, di forze e di furore,
e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta,
niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei Franzesi. La rabbia loro
era incredibile, e commettevano contro i repubblicani che viaggiavano
alla spicciolata, atti di ferità più bestiale che inumana. Già Itri,
Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati, già San Germano si muoveva
a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era
stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino
pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al
Garigliano e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol
sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrar la Rey, il
quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto
tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento
aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti
assaltarono il ponte che i Franzesi avevano fabbricato sul fiume,
sel presero, e più oltre procedendo, nel parco di riserva rapirono le
artiglierie, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da
guerra poterono. Per tale guasto, le cartucce di provvisione vennero
mancando ai Franzesi, già le vettovaglie mancavano, nè vi era modo di
andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano
le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava.
Da un altro lato, la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a
correre da Garigliano in aiuto di Capua e dell'esercito che ancor la
difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio che la virtù dei Franzesi,
oltre il suono dell'armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto
all'intorno, incominciava ad indebolirsi per un'infelice pruova testè
fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla
piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Ciò dava loro a
temere che i soldati napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si
aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da
Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra
del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Franzesi,
mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la
qual cosa con un esercito a fronte che si ostinava a voler difendere
una città ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed
i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai
Franzesi poca speranza di salute.
La debolezza del vicario Pignatelli aperse una via di scampo ai
Franzesi che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo
di Mack. Perì Napoli per mano di coloro ai quali maggior debito pesava
di difenderla. Arrivavano in quell'ora, tanto pregna di dubbio avvenire
pei Franzesi, agli alloggiamenti di Championnet il principe di Milano
ed il duca di Gesso, che, mandati dal vicario, venivano chiedendo un
accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta
la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al
combattere; infine pregato da coloro che dovevano minacciare, venne
ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono,
che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due
parti: se una ricusasse di ratificare, ricominciassero le offese dopo
avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei
Franzesi; l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei
laghi napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti
alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni;
pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in
cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le
parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti,
perchè il re negò la ratifica e mandò Pignatelli, tornato in Sicilia
pel sollevamento di Napoli che or ora racconterassi, nella fortezza di
Girgenti.
I Napolitani affermarono essere stata un'insidia di Acton, nemico di
Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè
vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet come di
accordo vile. Ma piacque il trattato a Championnet, perchè con quello
e salvava l'esercito e si procurava abilità d'intendersela coi novatori
per far del tutto sovvertir Napoli e convertirlo in repubblica. Infatti
alcuni fuorusciti napolitani che aveva seco, incominciarono a tenere
pratiche segrete coi loro compagni di Napoli, per modo che il generale
franzese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi
avvenisse.
Mali semi sorgevano, si aspettava la occasione. Una cagione che
dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse,
ma in verso contrario. Un Arcambal commissario franzese era andato
a Napoli per levarvi il denaro pattuito; il volgo se n'accorse.
S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare; si trascorse
finalmente agli sdegni e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un
tumulto ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli
loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda,
l'un l'altro stimolando, tutti gridavano! _Muoiano i traditori; viva
San Gennaro, viva la santa fede, viva il re_. Avidi di far sangue
già facevano pruova di manomettere Arcambal; ma trovò modo di porsi
in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco
impeto; ma il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo, vieppiù
inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore chiamando
a morte e Pignatelli e Mack e i soldati e tutti che governavano,
accusandoli di tradimento. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo,
Sant'Elmo e del Carmine: indi correvano all'armeria, dove prese e
distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano ad opere maggiori.
Pignatelli e Mack pensarono che quello non fosse più tempo da starsene
a Napoli e fuggirono, il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento
di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito che
da Capua consegnata ai Franzesi se ne veniva alla volta di Napoli,
parte sbandatosi cercò ricovero in mezzo ai Franzesi, parte sotto il
governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa gridando:
Viva la patria, viva Napoli, viva il re. Fatti più arditi dal numero
e dall'impeto assaltarono rabbiosamente la guardia franzese al ponte
Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet
per questo fatto che i Napolitani avessero rotto la tregua ed
aperto l'adito alle ostilità. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza
senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti,
depredazioni, incendii e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli,
fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le
minaccie degli uccisori, si udivano cosa che ad ognuno recava maggior
terrore: _Viva San Gennaro, viva la santa fede_. Durò gran pezza il
tumulto spaventevole.
Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo avvisò di
crearsi un capo che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe
Moliterni. Prima cosa diede opera a piantar certe forche smisurate in
parecchi luoghi con minaccia che impiccherebbe chiunque si muovesse
senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali e capi del popolo,
ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare
quegli spiriti infieriti ed a dar qualche sesto alle cose.
Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Franzesi contro Napoli,
già esser giunti ad Aversa. Fu Moliterni a parlamento con Championnet
nei campi d'Aversa. Riportonne che il generale di Francia non voleva
udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano
i castelli e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Per
poco stette che non facessero Moliterni a pezzi gridandolo a furore
assassino e traditore. Nè più volendo udire capo di sorta, meno
ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare ed in sull'uccidere
più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo
fratello Clemente Filomarino, maltrattarono Zurlo già ministro delle
finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali; trucidarono
un fuoruscito tolonese; trucidarono un ufficiale di marina inglese:
facevansi della barbarie gioia.
Ma Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo
i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio
dei Franzesi, verisimilmente perchè credeva che quello fosse il solo
modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, aveva
introdotto nel castello Sant'Elmo molti de' suoi aderenti e molti
ancora che parteggiavano per la repubblica, ed inoltre, armandone
quanti più gli venne fatto d'armare, gli aveva distribuiti nei luoghi
più opportuni. Avvisavano Championnet e Moliterni che il vincere i
lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi ed arabbiati sarebbe
stato piuttosto impossibile che difficile. Perciò Moliterni propagava
ad arte fra l'acceso volgo l'opinione ch'era necessario andar ad
assaltare i Franzesi che venivano contro Napoli, con dire che il piccol
numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravanzante moltitudine
del popolo. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva
il popolo, più impetuoso che esperto di battaglie, a combattere contro
i Franzesi, che per la speranza di Sant'Elmo e di trovare in Napoli
parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. Si affrontarono le
due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda.
Prevalevano i Franzesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i
Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati
eventi la battaglia. Le artiglierie di Francia fulminando in quelle
spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile ed atterravano le file
intiere. Rimettevansi i lazzaroni e più aspramente di prima menavano
le mani, cercando di avvicinarsi e di venire alle strette col nemico,
per fare con lui battaglia manesca. Le artiglierie li guastavano da
lontano, le baionette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi
piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni, ruppero parecchie volte
i repubblicani, ma questi, come destri e sperimentati soldati, tosto
si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più
si udivano le grida de' combattenti, al buio più si udivano quelle
degli straziati; e pure nè anche di notte si perdonava alle ferite
ed alle morti. Ned era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto
e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra
corpi grossi o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti
e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine, vi si
aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite
terre d'Abruzzo, del Sannio e della Campania, che la rabbia di guerra e
la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte.
Nuovi vesperi siciliani e nuove vendette di vesperi siciliani si
agitavano. Non mai i Franzesi si trovarono ridotti a sì duro passo,
nè mai con tanta valenzia sostennero un urto di guerra. Infine un
fortunato consiglio fece sopravanzare i repubblicani. Championnet
mandava Lemoine e Duhesme a ferire con truppe fresche, sbrigatosi testè
dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni,
i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta
sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli.
Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano
non solamente il castello di Sant'Ermo, ma ancora quello dell'Uovo,
vi aveva inalberato il vessillo tricolorato in segno di pace e di
possessione verso Championnet. Ma quando i lazzaroni superstiti alla
passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate
insegne, tosto tornarono sui furori, e di nuovo prese le armi, si
accingevano a voler impedire ai Franzesi la possessione. Nè si rimasero
alle minaccie, perchè impetuosamente contrastavano ai repubblicani
l'ingresso. Pendeva tuttavia in bilico la fortuna, quand'ecco calare
dai castelli Moliterni con le sue genti ad assaltar alle spalle coloro
che lor capo lo avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento
fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del
tutto gli avversarii, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora
i Franzesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente
fortificassero le strade con isteccati e combattessero dalle case con
ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada fino al palazzo reale
e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Franzesi, preceduti
da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada
principale di Toledo e se ne fecero signori. Tuttavia combattevano
ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio;
il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per
risparmiare il sangue e terminar totalmente quelle moleste battaglie
con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimenti dei novatori,
insinuarono ai lazzaroni che saria bene mandar a sacco il palazzo
del re. A tale suono, questi uomini privi di tanti compagni uccisi, e
straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (cose
strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda
le reali spoglie. Restava che il castello del Carmine cedesse. Si venne
all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo.
Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei
repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro.
Il generale della repubblica, fatto sicuro dell'acquisto di Napoli
per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico ch'egli frenava
i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue de' compagni morti
nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva essere
i Napoletani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli
strazii sofferti da lui: però rientrassero in sè stessi, esortava,
deponessero le armi in Castelnuovo e con queste conserverebbe la
religione, le proprietà e le persone salve ed intatte: al tempo stesso
arderebbe le case e darebbe a morte coloro che contro i Franzesi
usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il
passato e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì
questo manifesto l'effetto che Championnet se n'era promesso; Napoli fu
ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono chi per timore dei
Franzesi e chi per timore del volgo.
Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora
abbisognava ordinare lo Stato, creava Championnet un governo, a
cui chiamava venticinque persone, la più parte risplendenti o per
dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità
congiunte insieme; uomini tutti sinceri d'opinione, continenti da quel
d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto
inabili a governar la nave dello Stato in tempi tanto tempestosi.
Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la
potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano
la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume
servile, in undici dipartimenti. Quindi crearonsi i distretti, poscia
i municipii, ogni cosa a norma delle fogge franzesi: tutto questo
chiamossi repubblica Partenopea.
Ma prima di raccontar le cose del nuovo governo di Napoli fatte colle
più oneste intenzioni, necessario è descrivere come Championnet,
dabben uomo se non ingegnosissimo, oprò per solidare l'impresa del
regno. Volendo far di Napoli altro che quello che si era fatto di
Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a
farle sostegno non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a
parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome
del governo franzese e della grande nazione la libertà e l'indipendenza
degli Stati napoletani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo
si riservava la facoltà di mettere per una volta una contribuzione
militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la
contribuzione di settantacinque milioni compresi dieci per la sola
città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero
i popoli portato volontieri, se non fossero al tempo stesso stati
costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati che
già pagavano. Sapendo poi quanto importassero in quei popoli ardenti
le opinioni attinenti alla religione, mandava una guardia d'onore a San
Gennaro. Non ammetteva il cardinale Zurlo Capece arcivescovo di Napoli,
a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare
con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà. Queste
cose mitigavano le opinioni contrarie e vieppiù confermavano le quiete.
Aboliva il governo i diritti feudatarii ed i fidecommessi e preparava
per mezzo della congregazione legislativa la costituzione che avesse
a reggere la repubblica. Fu questa costituzione opera specialmente
di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di
Francia, vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza e
di utilità evidente. Fuvvi principalmente l'autorità censoria commessa
ad un tribunale di cinque; fuvvi anche l'eforato. Degni anche di
commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche,
i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente
accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel
suo ingegno; il resto il copiava dalla costituzione franzese, dando
in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente e la servilità
dei tempi. Nè deve essere passato sotto silenzio il ragionamento
che si leggeva preposto al modello della costituzione; opera in cui
tutto l'acume dei greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare
principii astratti con astrattezze maggiori.
Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano;
colpa parte di Championnet, parte dei tempi. Era Championnet di natura
buona, ma non aveva nervo tale che potesse frenare i suoi, già avvezzi
alla licenza negli Stati romani e cisalpini: onde gl'insulti alle
persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violenti
erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le
intemperanze dei democrati più ardenti. I baroni, come aristocrati,
come li chiamavano, erano o scherniti con dileggiamenti, o provocati
con ingiurie, o nelle tasse sforzate con brutti arbitrii aggravati; il
che gl'inimicava, e, siccome quelli che avevano una grande dipendenza,
sì per le loro ricchezze e sì per l'effetto degli ordini feudatarii,
procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla
nuova repubblica.
Seguitava a tutte queste un'altra peste ed era quella dei ritrovi
politici, in cui giovani infiammatissimi ed invasati delle nuove
opinioni si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti
allo Stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi li
rendevano più savii, perchè con la medesima veemenza parlavano. Nè
procedeva che per le immoderate cose che vi si dicevano, i popoli si
alienavano. Peggio poi che non era cosa che gli energumeni, violenti in
tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero per istravagante
ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio e contro coloro
che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la
riputazione anche la potenza. Quando prevale il costume che gli uomini
più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo
perchè occupano le cariche dello Stato e tengono i magistrati, ogni
regola diviene impossibile e lo Stato diviene preda degli ambiziosi.
Tal era la condizione del governo napolitano, che odiato dagli
aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Franzesi, non aveva
modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della
repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un
solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto,
per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi ed a secondare
gli sforzi di coloro che più avevano in animo l'ordinare un buono
Stato che il signoreggiarlo. Accadde che il direttorio di Francia
aveva mandato a Napoli per soprantendere ai frutti della conquista,
una commissione civile di cui era capo quel Faipoult già mescolato
nelle rivoluzioni genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando
che quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni Championnet fosse
stato troppo indulgente, pubblicava un editto con cui dannando quanto
il generale aveva fatto, affermava che niun altro magistrato che la
commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse
in tutt'altra cassa che in quella della commissione, male pagherebbe.
Poscia, più oltre procedendo, ordinava che in proprietà di Francia
erano caduti per conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia
reale, spiegando che in esso diritto cadevano non solamente quanto
il re possedeva, come palazzi, ville, caccie e simili; ma ancora i
beni Farnesiani che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei
dell'ordine di Malta, i costantiniani, i gesuitici, quei destinati alle
pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che
un deposito dei denari dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e
fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva
un gran dispendio per l'esercito e al tempo stesso gli si toglieva
ogni fonte di rendite per cui potesse supplire. Sdegnossi Championnet
all'ardimento del commissario e lo cacciava soldatescamente di Napoli.
Era discordia tra i Franzesi, discordia fra i Napolitani: tutti
venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo Stato.
Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i
Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio,
e perchè non contento all'aver rincacciato dallo Stato romano i
Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti,
invaso il regno di Napoli, mentre esso direttorio desiderava di
temporeggiare, e perchè si apparecchiava a fare una spedizione in
Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominii; il quale
intento toccava certi tasti molto reconditi del ministro Taleyrand,
sì che questi, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il
motivo che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet,
e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio
rivocasse il generale. Prese allora Macdonald il governo supremo dei
Franzesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i poveri Partenopei.
Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica,
moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano
i baroni il nuovo Stato, manco ancora i Franzesi, e siccome tutti
avevano bande di bravi che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed
alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro
che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano che, sebbene
fossero vezzeggiati in quei principii del governo, erano da lui veduti
malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero pruomovevano
le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi
voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati
nei luoghi più lontani ed inaccessi; quivi attendevano a fomentare
discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali
e soldati dell'esercito regio, i quali, dopo di essersi dimostrati
pronti a servire i repubblicani, da loro non curati o per necessità
o per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano
sdegnosamente partiti e condottisi nelle provincie, quivi con le parole
incendevano e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere.
Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata
che, dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi od
erano mandati dalla Sicilia appunto con l'intento di sostenere quei
moti che si manifestavano sulla terra ferma in favore della potestà
regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che
correvano delle armate turche e russe che dovessero fra breve arrivare
nell'Adriatico con grossi soccorsi di gente da sbarco in favore de'
regii. Questi aiuti, parte veri, parte ancora esagerati dalla fama,
mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni che già
avevano concetti.
Dimostravano quanto fossero deboli nelle provincie i fondamenti del
governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da
alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio
di fuggire che di combattere: ma il moto si fece d'importanza:
accorrevano buoni e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e
da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere
l'autorità del re.
Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria
il cardinal Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime,
chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia
Winspear e l'uditor Fiore. Questo debole principio in poco spazio
di tempo cresceva a dismisura e produceva un moto che fu cagione
di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore
Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava
il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale si
aggiungeva, e finalmente chi voleva il re o le vendette o il sacco,
a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le
terre aperte, finalmente le murate e tanto crebbe la sua potenza, che
presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la
Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli,
lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi
nelle parole, anzi, seguitando il corso favorevole della fortuna,
assaltava Cosenza, capitale della Calabria esteriore, e quantunque ella
fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce
se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese
Paola, bellissima città di Calabria, la prese e l'arse per l'animoso
contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre
civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava e gli dava in mano
tutte le Calabrie insino Matera. Quivi si congiunse con de Cesare,
sommovitore della provincia di Bari.
Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le provincie, anche le più
uno spettacolo miserabile; poichè fatte uscir prima le navi Napolitane,
sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare
il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa
nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re che di non
lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco che le proprie sue forze
consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate
della costa di Posillipo ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile
consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e
terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò
deputati a pregar Ferdinando affinchè restasse, proferendo le sostanze
e le vite a difesa ed a conservazione sua; ma fu negata ai deputati
la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e
da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì 2 gennaio, infelice per
l'aspetto terribile di Napoli che ancora agli occhi dei naviganti
appariva; più infelice pei venti avversi che poco dopo la percossero.
Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe il dolore, la mestizia e
il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo
di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo
spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente
le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni
amorevoli dei Siciliani mitigarono l'amarezza concetta per l'esilio e
per la fresca perdita del morto figliuolo.
La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la
fortuna si mostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi
difficoltà per le popolazioni armate che loro contrastavano il passo,
Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto
le popolazioni medesime crescevano di numero, di forze e di furore,
e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta,
niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei Franzesi. La rabbia loro
era incredibile, e commettevano contro i repubblicani che viaggiavano
alla spicciolata, atti di ferità più bestiale che inumana. Già Itri,
Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati, già San Germano si muoveva
a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era
stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino
pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al
Garigliano e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol
sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrar la Rey, il
quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto
tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento
aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti
assaltarono il ponte che i Franzesi avevano fabbricato sul fiume,
sel presero, e più oltre procedendo, nel parco di riserva rapirono le
artiglierie, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da
guerra poterono. Per tale guasto, le cartucce di provvisione vennero
mancando ai Franzesi, già le vettovaglie mancavano, nè vi era modo di
andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano
le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava.
Da un altro lato, la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a
correre da Garigliano in aiuto di Capua e dell'esercito che ancor la
difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio che la virtù dei Franzesi,
oltre il suono dell'armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto
all'intorno, incominciava ad indebolirsi per un'infelice pruova testè
fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla
piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Ciò dava loro a
temere che i soldati napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si
aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da
Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra
del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Franzesi,
mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la
qual cosa con un esercito a fronte che si ostinava a voler difendere
una città ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed
i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai
Franzesi poca speranza di salute.
La debolezza del vicario Pignatelli aperse una via di scampo ai
Franzesi che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo
di Mack. Perì Napoli per mano di coloro ai quali maggior debito pesava
di difenderla. Arrivavano in quell'ora, tanto pregna di dubbio avvenire
pei Franzesi, agli alloggiamenti di Championnet il principe di Milano
ed il duca di Gesso, che, mandati dal vicario, venivano chiedendo un
accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta
la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al
combattere; infine pregato da coloro che dovevano minacciare, venne
ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono,
che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due
parti: se una ricusasse di ratificare, ricominciassero le offese dopo
avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei
Franzesi; l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei
laghi napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti
alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni;
pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in
cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le
parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti,
perchè il re negò la ratifica e mandò Pignatelli, tornato in Sicilia
pel sollevamento di Napoli che or ora racconterassi, nella fortezza di
Girgenti.
I Napolitani affermarono essere stata un'insidia di Acton, nemico di
Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè
vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet come di
accordo vile. Ma piacque il trattato a Championnet, perchè con quello
e salvava l'esercito e si procurava abilità d'intendersela coi novatori
per far del tutto sovvertir Napoli e convertirlo in repubblica. Infatti
alcuni fuorusciti napolitani che aveva seco, incominciarono a tenere
pratiche segrete coi loro compagni di Napoli, per modo che il generale
franzese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi
avvenisse.
Mali semi sorgevano, si aspettava la occasione. Una cagione che
dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse,
ma in verso contrario. Un Arcambal commissario franzese era andato
a Napoli per levarvi il denaro pattuito; il volgo se n'accorse.
S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare; si trascorse
finalmente agli sdegni e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un
tumulto ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli
loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda,
l'un l'altro stimolando, tutti gridavano! _Muoiano i traditori; viva
San Gennaro, viva la santa fede, viva il re_. Avidi di far sangue
già facevano pruova di manomettere Arcambal; ma trovò modo di porsi
in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco
impeto; ma il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo, vieppiù
inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore chiamando
a morte e Pignatelli e Mack e i soldati e tutti che governavano,
accusandoli di tradimento. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo,
Sant'Elmo e del Carmine: indi correvano all'armeria, dove prese e
distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano ad opere maggiori.
Pignatelli e Mack pensarono che quello non fosse più tempo da starsene
a Napoli e fuggirono, il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento
di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito che
da Capua consegnata ai Franzesi se ne veniva alla volta di Napoli,
parte sbandatosi cercò ricovero in mezzo ai Franzesi, parte sotto il
governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa gridando:
Viva la patria, viva Napoli, viva il re. Fatti più arditi dal numero
e dall'impeto assaltarono rabbiosamente la guardia franzese al ponte
Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet
per questo fatto che i Napolitani avessero rotto la tregua ed
aperto l'adito alle ostilità. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza
senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti,
depredazioni, incendii e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli,
fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le
minaccie degli uccisori, si udivano cosa che ad ognuno recava maggior
terrore: _Viva San Gennaro, viva la santa fede_. Durò gran pezza il
tumulto spaventevole.
Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo avvisò di
crearsi un capo che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe
Moliterni. Prima cosa diede opera a piantar certe forche smisurate in
parecchi luoghi con minaccia che impiccherebbe chiunque si muovesse
senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali e capi del popolo,
ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare
quegli spiriti infieriti ed a dar qualche sesto alle cose.
Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Franzesi contro Napoli,
già esser giunti ad Aversa. Fu Moliterni a parlamento con Championnet
nei campi d'Aversa. Riportonne che il generale di Francia non voleva
udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano
i castelli e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Per
poco stette che non facessero Moliterni a pezzi gridandolo a furore
assassino e traditore. Nè più volendo udire capo di sorta, meno
ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare ed in sull'uccidere
più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo
fratello Clemente Filomarino, maltrattarono Zurlo già ministro delle
finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali; trucidarono
un fuoruscito tolonese; trucidarono un ufficiale di marina inglese:
facevansi della barbarie gioia.
Ma Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo
i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio
dei Franzesi, verisimilmente perchè credeva che quello fosse il solo
modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, aveva
introdotto nel castello Sant'Elmo molti de' suoi aderenti e molti
ancora che parteggiavano per la repubblica, ed inoltre, armandone
quanti più gli venne fatto d'armare, gli aveva distribuiti nei luoghi
più opportuni. Avvisavano Championnet e Moliterni che il vincere i
lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi ed arabbiati sarebbe
stato piuttosto impossibile che difficile. Perciò Moliterni propagava
ad arte fra l'acceso volgo l'opinione ch'era necessario andar ad
assaltare i Franzesi che venivano contro Napoli, con dire che il piccol
numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravanzante moltitudine
del popolo. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva
il popolo, più impetuoso che esperto di battaglie, a combattere contro
i Franzesi, che per la speranza di Sant'Elmo e di trovare in Napoli
parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. Si affrontarono le
due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda.
Prevalevano i Franzesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i
Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati
eventi la battaglia. Le artiglierie di Francia fulminando in quelle
spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile ed atterravano le file
intiere. Rimettevansi i lazzaroni e più aspramente di prima menavano
le mani, cercando di avvicinarsi e di venire alle strette col nemico,
per fare con lui battaglia manesca. Le artiglierie li guastavano da
lontano, le baionette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi
piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni, ruppero parecchie volte
i repubblicani, ma questi, come destri e sperimentati soldati, tosto
si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più
si udivano le grida de' combattenti, al buio più si udivano quelle
degli straziati; e pure nè anche di notte si perdonava alle ferite
ed alle morti. Ned era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto
e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra
corpi grossi o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti
e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine, vi si
aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite
terre d'Abruzzo, del Sannio e della Campania, che la rabbia di guerra e
la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte.
Nuovi vesperi siciliani e nuove vendette di vesperi siciliani si
agitavano. Non mai i Franzesi si trovarono ridotti a sì duro passo,
nè mai con tanta valenzia sostennero un urto di guerra. Infine un
fortunato consiglio fece sopravanzare i repubblicani. Championnet
mandava Lemoine e Duhesme a ferire con truppe fresche, sbrigatosi testè
dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni,
i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta
sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli.
Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano
non solamente il castello di Sant'Ermo, ma ancora quello dell'Uovo,
vi aveva inalberato il vessillo tricolorato in segno di pace e di
possessione verso Championnet. Ma quando i lazzaroni superstiti alla
passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate
insegne, tosto tornarono sui furori, e di nuovo prese le armi, si
accingevano a voler impedire ai Franzesi la possessione. Nè si rimasero
alle minaccie, perchè impetuosamente contrastavano ai repubblicani
l'ingresso. Pendeva tuttavia in bilico la fortuna, quand'ecco calare
dai castelli Moliterni con le sue genti ad assaltar alle spalle coloro
che lor capo lo avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento
fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del
tutto gli avversarii, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora
i Franzesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente
fortificassero le strade con isteccati e combattessero dalle case con
ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada fino al palazzo reale
e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Franzesi, preceduti
da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada
principale di Toledo e se ne fecero signori. Tuttavia combattevano
ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio;
il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per
risparmiare il sangue e terminar totalmente quelle moleste battaglie
con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimenti dei novatori,
insinuarono ai lazzaroni che saria bene mandar a sacco il palazzo
del re. A tale suono, questi uomini privi di tanti compagni uccisi, e
straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (cose
strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda
le reali spoglie. Restava che il castello del Carmine cedesse. Si venne
all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo.
Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei
repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro.
Il generale della repubblica, fatto sicuro dell'acquisto di Napoli
per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico ch'egli frenava
i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue de' compagni morti
nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva essere
i Napoletani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli
strazii sofferti da lui: però rientrassero in sè stessi, esortava,
deponessero le armi in Castelnuovo e con queste conserverebbe la
religione, le proprietà e le persone salve ed intatte: al tempo stesso
arderebbe le case e darebbe a morte coloro che contro i Franzesi
usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il
passato e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì
questo manifesto l'effetto che Championnet se n'era promesso; Napoli fu
ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono chi per timore dei
Franzesi e chi per timore del volgo.
Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora
abbisognava ordinare lo Stato, creava Championnet un governo, a
cui chiamava venticinque persone, la più parte risplendenti o per
dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità
congiunte insieme; uomini tutti sinceri d'opinione, continenti da quel
d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto
inabili a governar la nave dello Stato in tempi tanto tempestosi.
Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la
potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano
la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume
servile, in undici dipartimenti. Quindi crearonsi i distretti, poscia
i municipii, ogni cosa a norma delle fogge franzesi: tutto questo
chiamossi repubblica Partenopea.
Ma prima di raccontar le cose del nuovo governo di Napoli fatte colle
più oneste intenzioni, necessario è descrivere come Championnet,
dabben uomo se non ingegnosissimo, oprò per solidare l'impresa del
regno. Volendo far di Napoli altro che quello che si era fatto di
Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a
farle sostegno non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a
parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome
del governo franzese e della grande nazione la libertà e l'indipendenza
degli Stati napoletani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo
si riservava la facoltà di mettere per una volta una contribuzione
militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la
contribuzione di settantacinque milioni compresi dieci per la sola
città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero
i popoli portato volontieri, se non fossero al tempo stesso stati
costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati che
già pagavano. Sapendo poi quanto importassero in quei popoli ardenti
le opinioni attinenti alla religione, mandava una guardia d'onore a San
Gennaro. Non ammetteva il cardinale Zurlo Capece arcivescovo di Napoli,
a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare
con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà. Queste
cose mitigavano le opinioni contrarie e vieppiù confermavano le quiete.
Aboliva il governo i diritti feudatarii ed i fidecommessi e preparava
per mezzo della congregazione legislativa la costituzione che avesse
a reggere la repubblica. Fu questa costituzione opera specialmente
di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di
Francia, vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza e
di utilità evidente. Fuvvi principalmente l'autorità censoria commessa
ad un tribunale di cinque; fuvvi anche l'eforato. Degni anche di
commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche,
i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente
accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel
suo ingegno; il resto il copiava dalla costituzione franzese, dando
in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente e la servilità
dei tempi. Nè deve essere passato sotto silenzio il ragionamento
che si leggeva preposto al modello della costituzione; opera in cui
tutto l'acume dei greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare
principii astratti con astrattezze maggiori.
Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano;
colpa parte di Championnet, parte dei tempi. Era Championnet di natura
buona, ma non aveva nervo tale che potesse frenare i suoi, già avvezzi
alla licenza negli Stati romani e cisalpini: onde gl'insulti alle
persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violenti
erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le
intemperanze dei democrati più ardenti. I baroni, come aristocrati,
come li chiamavano, erano o scherniti con dileggiamenti, o provocati
con ingiurie, o nelle tasse sforzate con brutti arbitrii aggravati; il
che gl'inimicava, e, siccome quelli che avevano una grande dipendenza,
sì per le loro ricchezze e sì per l'effetto degli ordini feudatarii,
procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla
nuova repubblica.
Seguitava a tutte queste un'altra peste ed era quella dei ritrovi
politici, in cui giovani infiammatissimi ed invasati delle nuove
opinioni si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti
allo Stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi li
rendevano più savii, perchè con la medesima veemenza parlavano. Nè
procedeva che per le immoderate cose che vi si dicevano, i popoli si
alienavano. Peggio poi che non era cosa che gli energumeni, violenti in
tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero per istravagante
ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio e contro coloro
che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la
riputazione anche la potenza. Quando prevale il costume che gli uomini
più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo
perchè occupano le cariche dello Stato e tengono i magistrati, ogni
regola diviene impossibile e lo Stato diviene preda degli ambiziosi.
Tal era la condizione del governo napolitano, che odiato dagli
aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Franzesi, non aveva
modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della
repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un
solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto,
per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi ed a secondare
gli sforzi di coloro che più avevano in animo l'ordinare un buono
Stato che il signoreggiarlo. Accadde che il direttorio di Francia
aveva mandato a Napoli per soprantendere ai frutti della conquista,
una commissione civile di cui era capo quel Faipoult già mescolato
nelle rivoluzioni genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando
che quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni Championnet fosse
stato troppo indulgente, pubblicava un editto con cui dannando quanto
il generale aveva fatto, affermava che niun altro magistrato che la
commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse
in tutt'altra cassa che in quella della commissione, male pagherebbe.
Poscia, più oltre procedendo, ordinava che in proprietà di Francia
erano caduti per conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia
reale, spiegando che in esso diritto cadevano non solamente quanto
il re possedeva, come palazzi, ville, caccie e simili; ma ancora i
beni Farnesiani che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei
dell'ordine di Malta, i costantiniani, i gesuitici, quei destinati alle
pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che
un deposito dei denari dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e
fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva
un gran dispendio per l'esercito e al tempo stesso gli si toglieva
ogni fonte di rendite per cui potesse supplire. Sdegnossi Championnet
all'ardimento del commissario e lo cacciava soldatescamente di Napoli.
Era discordia tra i Franzesi, discordia fra i Napolitani: tutti
venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo Stato.
Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i
Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio,
e perchè non contento all'aver rincacciato dallo Stato romano i
Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti,
invaso il regno di Napoli, mentre esso direttorio desiderava di
temporeggiare, e perchè si apparecchiava a fare una spedizione in
Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominii; il quale
intento toccava certi tasti molto reconditi del ministro Taleyrand,
sì che questi, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il
motivo che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet,
e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio
rivocasse il generale. Prese allora Macdonald il governo supremo dei
Franzesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i poveri Partenopei.
Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica,
moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano
i baroni il nuovo Stato, manco ancora i Franzesi, e siccome tutti
avevano bande di bravi che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed
alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro
che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano che, sebbene
fossero vezzeggiati in quei principii del governo, erano da lui veduti
malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero pruomovevano
le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi
voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati
nei luoghi più lontani ed inaccessi; quivi attendevano a fomentare
discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali
e soldati dell'esercito regio, i quali, dopo di essersi dimostrati
pronti a servire i repubblicani, da loro non curati o per necessità
o per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano
sdegnosamente partiti e condottisi nelle provincie, quivi con le parole
incendevano e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere.
Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata
che, dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi od
erano mandati dalla Sicilia appunto con l'intento di sostenere quei
moti che si manifestavano sulla terra ferma in favore della potestà
regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che
correvano delle armate turche e russe che dovessero fra breve arrivare
nell'Adriatico con grossi soccorsi di gente da sbarco in favore de'
regii. Questi aiuti, parte veri, parte ancora esagerati dalla fama,
mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni che già
avevano concetti.
Dimostravano quanto fossero deboli nelle provincie i fondamenti del
governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da
alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio
di fuggire che di combattere: ma il moto si fece d'importanza:
accorrevano buoni e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e
da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere
l'autorità del re.
Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria
il cardinal Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime,
chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia
Winspear e l'uditor Fiore. Questo debole principio in poco spazio
di tempo cresceva a dismisura e produceva un moto che fu cagione
di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore
Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava
il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale si
aggiungeva, e finalmente chi voleva il re o le vendette o il sacco,
a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le
terre aperte, finalmente le murate e tanto crebbe la sua potenza, che
presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la
Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli,
lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi
nelle parole, anzi, seguitando il corso favorevole della fortuna,
assaltava Cosenza, capitale della Calabria esteriore, e quantunque ella
fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce
se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese
Paola, bellissima città di Calabria, la prese e l'arse per l'animoso
contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre
civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava e gli dava in mano
tutte le Calabrie insino Matera. Quivi si congiunse con de Cesare,
sommovitore della provincia di Bari.
Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le provincie, anche le più
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