Annali d'Italia, vol. 8 - 59

cittadella, il che tostamente eseguirono, tolte prima dalle loro case
le insegne delle loro repubbliche. Poi penuriando la cittadella di
munizioni, massimamente di proietti poichè intenzione dei repubblicani
era di voltar sotto sopra e d'incendiar Torino se l'esercito francese
fosse obbligato di rendersene padrone per forza, operarono di modo
che si trasportasse di nascosto dall'arsenale nella fortezza armi e
munizioni d'ogni genere, procurandosi in tale modo le armi del re per
combatterlo e distruggerlo. Era di non poca importanza pei repubblicani
che in loro potere recassero Chivasso terra munita di un forte
presidio e per cui Victor doveva passare per venirsene da Vercelli
a Torino. A questo fine e per obbedire al generalissimo mandava
Grouchy segretamente una colonna di buoni soldati, i quali arrivati
inopinatamente sopra Chivasso ed aiutati dai soldati di nuova leva, che
qui per accidente alloggiavano, l'occuparono facilmente. Rovinava tutto
ad un tratto e per ogni parte lo stato del re, usando i repubblicani
per sorpresa contro di lui gli estremi della guerra, quantunque ancora
il governo loro non l'avesse dichiarata.
Intanto si continuava nelle dissimulazioni. Scrivevano al governator
di Torino assicurandolo che quanto si faceva solo si faceva per modo
di cautela e che se per questo si attentasse di por le mani addosso
ad un solo amatore di libertà o francese o piemontese che si fosse,
incendierebbero la città e farebbero che di lei pietra sopra pietra
non rimanesse. Il governo pubblicava un manifesto con cui esortava
gli abitatori a restarsene quieti, chiamava i Franzesi gli alleati
più fedeli che si avesse, affermava che niuno nissuna cosa aveva a
temere da loro. Mentre si appiccava questo manifesto sui muri, ecco
giungere le novelle, che già erano prese Novara, Susa, Chivasso,
Alessandria, che già Torino era stretto da ogni parte da gente nemica,
che già le truppe regie sorprese ed assaltate all'impensato erano state
disarmate e poste in condizione di prigioniere. Vide allora il re che
ogni speranza era spenta, che i fati repubblicani prevalevano, ch'era
perduto il regno, che mille anni di dominio della sua reale casa erano
giunti al fine. Restava, poichè perdeva la potenza, che non perdesse
l'onore; volle che i posteri sapessero che periva innocente. Pubblicava
adunque Priocca il 7 decembre le sue ultime parole; ma anche le sue
generose, le giuste sue difese gli vennero poco dopo interdette ed
anzi imputate a delitto da chi non solo abusava della forza propria, ma
ancora si sdegnava dalle ragioni altrui.
Intanto perchè si venisse a conclusione si moltiplicavano le arti e gli
spaventi; si parlava che a nissun'altra condizione sarebbero i Franzesi
contenti che all'abdicazione. Cedesse al fato, nè v'era modo da ostare,
giacchè Carlo Emmanuele era chiamato a distruzione dal suo alleato.
L'atto di abdicazione fu accordato e stipulato il dì 9 di dicembre in
Torino, per parte della repubblica dal generale Clauzel, e per parte
del re da Raimondo di San Germano, personaggio di molta, anzi di unica
autorità appresso di lui. Non si soddisfecero i repubblicani di torgli
lo stato, ma vollero anche amareggiarlo obbligandolo a ritrattarsi
pubblicamente del manifesto del giorno 7, ed a mandar Priocca in mano
loro alla cittadella, come sigurtà di non resistenza e come testimonio
di ritrattazione. Vollero eziandio, essendosi persuasi che il duca
d'Aosta fosse mosso da avversioni eccessive contro di loro e capace di
venire a qualche tentativo d'importanza, che anch'esso sottoscrivesse
l'abdicazione. Per questa cagione si vede sul fine dell'atto, dopo
il nome di Carlo Emmanuele quello di Vittorio Emmanuele con queste
parole: _Io prometto di non dare impedimento all'esecuzione di questo
trattato._
Fu in buon punto pel re e per tutta la sua famiglia, che Grouchy
e Clauzel con tanta pressa lo avessero sforzato alla rinunzia;
conciossiacosachè aveva il direttorio comandato che fossero condotti
in Francia, compiacendosi nel pensiero di mostrare ai repubblicani,
come a guisa di trionfo, un re e molti principi debellati e cattivi.
Ma Taleyrand, al quale se piacevano le opere astute non piacevano
le giacobiniche, aveva mandato a Joubert, innanzi che spedisse gli
ordini del direttorio, che sforzasse presto il re alla rinunzia, non
imponendo la condizione della cattività dei reali. Da che ne seguitò
che avevano già fatta la rinunzia e già erano arrivati a Parma, quando
pervenne a Joubert gli spacci per la cattività loro. Clauzel, che aveva
richiesto sui primi negoziati la persona del duca d'Aosta come ostaggio
per la osservanza dei patti e qualche timore del suo nome, udite le
rimostranze del re e della regina, facilmente se ne rimase: il che fu
cagione che il re il presentasse della celebre tavola di Gerardo Dow,
in cui è dipinta con tanta maestria la idropica.
Accordossi nell'atto dell'abdicazione che il re rinunziava alla
sua potestà, e comandava ai Piemontesi che obbedissero al governo
temporaneo da instituirsi dal generale di Francia; comandava altresì a'
suoi soldati che come parte dell'esercito franzese si sottomettessero
al generale medesimo; disdiceva il manifesto del giorno 7 e mandava il
suo ministro Damiano di Priocca nella cittadella: che il governatore
della città si conformasse alla volontà del comandante della
cittadella; che fosse sicura la religione, sicure parimente le persone
e le proprietà; che i Piemontesi che desiderassero spatriarsi, il
potessero fare liberamente con facoltà di portarsene il loro mobile e
di vendere gli stabili, e che i Piemontesi fuorusciti che volessero
ripatriarsi, medesimamente il potessero fare e ricuperassero tutti
i diritti loro; potesse liberamente il re con tutta la sua famiglia
ritirarsi in Sardegna; finchè in Piemonte fosse, si conservassero
i suoi palazzi e le sue ville libere; gli si dessero i passaporti e
scorta mezza franzese e mezza piemontese; se il principe di Carignano
eleggesse di rimanersi in Piemonte o di andarsene, sì liberamente il
potesse fare, con godersi e con disporre de' suoi beni; incontanente si
suggellassero gli archivii e le casse dell'erario; non si accettassero
nei porti della Sardegna le navi delle potenze nemiche di Francia.
Creava Joubert un governo che per modo di provvisione ed insino a tanto
che i tempi permettessero un assetto definitivo, reggesse il Piemonte.
Vi chiamava per un primo decreto Favrat, Botton di Castellamonte, San
Martino della Motta, Fasella, Bertolotti, Bossi, Colla, Fava, Bono,
Galli, Braida, Cavalli, Bandisone, Rossi, Sartoris; per un secondo,
Cerise, Avogadro, Botta, Chiabrera, Bellini. Erano uomini d'onorate
qualità ed i più splendevano egregiamente o per dottrina, o per virtù,
o per altezza di cariche o per nobiltà di natali, e molti per tutte
queste qualità insieme, nè erano certamente degni di governare in tempi
sì miseri la patria loro; sì che in breve non per colpa propria, ma dei
tempi, perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i
forastieri l'amicizia.
Grouchy, conseguita una tanta mutazione sforzava i soldati Piemontesi
a giurare in nome della repubblica Franzese: il che fecero piuttosto
sbalorditi dal caso che per volontà deliberata. Damiano di Priocca
andava a porsi in cittadella in potestà dei repubblicani; Priocca,
esempio d'animo forte, di mente sana, di sincerità singolare e d'una
fede inalterabile; uno degli uomini dei quali l'Italia e l'umanità più
si debbono pregiare.
Abbandonava il re, abbandonavano i reali di Piemonte la gloriosa sede
degli antenati loro. Era la notte, fra le 9 e le 10 della sera, oscura
e piovosa; occupava la città un alto terrore: scendevano al lume dei
doppieri le scale, ed usciti dalla porta che dà nel giardino e quivi
in carrozza montati, per l'altra porta ch'è tra le due del palazzo e
del Po, alla strada maestra di verso Italia pervenivano. Lasciava il
re nelle abbandonate stanze per una continenza che mai non si potrà
abbastanza lodare e per debito di religione, come protestava, le gioie
preziose della corona, tutte le argenterie e settecento mila lire
in doppie d'oro. Alcuni fra i principi piangevano; il re e la regina
mostravano una grandissima costanza. Scortavangli ottanta soldati a
cavallo franzesi, altrettanti piemontesi; gli accompagnavano fino a
Livorno di Piemonte. Condussersi gli esuli principi in Parma, poi in
Firenze: quivi furono accolti dal granduca come si conveniva al grado,
alla parentela ed alla disgrazia. Fu suggellato il palazzo reale
dal commissario del direttorio Amelot, e dall'architetto Piacenza,
architetto del re. Ma alcuni giorni dopo, rotti i suggelli da uomini
rapacissimi, furono portate via le gioie e le altre suppellettili
preziose, alle quali Carlo Emmanuele per la sua illibatezza e sincerità
aveva, partendo, portato rispetto.
Così ruinò la casa reale di Savoia. Nè sapremmo se si abbia a
raccontare l'intimazione di guerra fatta il dì 12 dicembre dal
direttorio, quando già la guerra non solo era stata fatta, ma anche
terminata con la distruzione dell'autorità regia in Piemonte.
Partito il re da Livorno di Toscana in sull'entrare del 1799, arrivava
il 3 di marzo, in cospetto di Cagliari. Quivi, vistosi in potestà
propria, volle fare manifesto a ciascuno e pubblicò solennemente, come
altamente ed in cospetto di tutta Europa ei protestasse contro gli
atti, per forza dei quali era stato costretto ad abbandonare i suoi
territorii di terraferma, ed a rinunziare per un tempo all'esercizio
della sua potenza. Accoglievano i Sardi, come ben si conveniva,
con dimostrazioni di rispetto e d'amore l'esule stirpe di Emmanuele
Filiberto.
Mentre la sede antica dei re di Sardegna diveniva preda dei
repubblicani, le sorti della parte meridionale d'Italia, tentate dal
re di Napoli, partorivano accidenti insoliti e terribili. Non aveva
il generale Mack trovato nello Stato romano quel seguito, che si era
concetto con la speranza, poichè l'essersi ritirati, ma interi, non
rotti, i Franzesi, e la fama ancor fresca del loro valore, davano
timore, che ove fossero ingrossati, si precipitassero di nuovo alle
offese con danno estremo di coloro, che troppo vivamente si fossero
scoperti contro di loro. Il terrore poi concetto per le infelici pruove
fatte contro i medesimi in parecchie parti d'Italia, massimamente il
caso spaventoso di Verona, teneva sospeso l'animo d'ognuno, impediva
che si movesse cosa alcuna contro i repubblicani, e frenava i popoli
desiderosi di prorompere. Si aggiungeva che sebbene i Romani odiassero
i Franzesi, non amavano però i Napolitani, e pareva loro di uscire
da una servitù abbominata per sottentrare ad un'altra forse non
meno odiosa. Tutte queste cose non erano nascoste a Mach, e però
argomentando che la guerra era piuttosto incominciata di nome che di
fatto, e che se con qualche fazione importante, in cui si venisse al
sangue, non dimostrava che le mani fossero tanto forti quanto le lingue
pronte, il tempo avrebbe presto condotto una mutazione di fortuna,
si deliberava ad andare all'incontro delle armi repubblicane. Del che
tanto maggiore necessità gli sovrastava, quanto Championnet raccoglieva
genti in fretta e continuamente si ingrossava.
Avendo adunque avuto avviso che con felice navigazione era Naselli
sbarcato a Livorno e Ruggero di Damas ad Orbitello, si muoveva a
tentare la fortuna delle battaglie, eleggendo di far impeto contro
l'ala destra dell'esercito franzese che, governata dal generale
Macdonald, da Terni si distendeva fin verso Nepi, Cività castellana e
Monterosi.
Marciava Mack, divisi i suoi in cinque schiere, il dì 5 dicembre, da
Baccano contro i repubblicani, mentre al tempo stesso ordinava un moto
verso Civitaducale per tener in rispetto i Franzesi da quella banda.
Prevaleva di gran lunga di numero, conducendo quaranta mila soldati
contro un nemico, che se arrivava agli otto mila, non li passava,
poichè in questo numero consisteva l'ala destra dei repubblicani.
Sboccava la prima schiera Napolitana verso Nepi, la seconda, insistendo
sull'antica via romana, verso Rignano, la terza verso Santa Maria di
Falori, schiere destinate tutte a combattere sulla destra sponda del
Tevere. La quarta aveva il carico d'impadronirsi di Vignanello per
guadagnare la terra d'Osta, e quivi varcare il fiume. Finalmente per
fare un po' di spalla a destra a tutte queste genti, la quinta schiera
dei regi marciava contro a Magliano, e già aveva traversato il Tevere
al passo di Ponzano.
I Franzesi, sentita prestamente la venuta del nemico, non si fermarono
ad aspettarlo, ma siccome quelli che stimavano sè stessi da quegli
uomini valorosi che erano e tenendo in poco conto le genti napolitane,
uscirono incontanente ad incontrarle. I capi poco dubitavano della
vittoria, perchè oltre il provato valore dei soldati, sapevano che gli
assalti dei Franzesi, per la natura pronta dalla nazione, sono sempre
più fortunati che le difese.
Non fu l'esito diverso dalle speranze. Kellerman, figliuolo del
vecchio generale di questo nome, contuttochè sulle prime trovasse un
duro incontro, ruppe la prima napolitana schiera, cacciolla infino a
Monterosi, e quivi rompendola di nuovo, tagliava a pezzi i valorosi,
disperdeva i codardi. Non procedettero con maggior riputazione le cose
dei Napolitani dalle altre parti: il colonnello Lahure ruppe la schiera
di Rugnano, sebbene sulle prime avesse perduto del campo; perchè
Macdonald con pronti aiuti soccorrendolo, lo ebbe tostamente abilitato
alla vittoria. S'incontrava la schiera che giva all'assalto di Santa
Maria di Falori, in una squadra polacca capitanata dal generale
Kniazewitz e che aveva con sè una legione romana, che aveva alzate
le bandiere della repubblica. Polacchi e Romani valorosissimamente
combatterono: i Napolitani andarono in volta, non senza grave
perdita d'uomini, d'armi e di bagaglie. Il generale Maurizio Mathieu
affrontava, così avendo ordinato Macdonald, la quarta schiera, la
quale cedendo si ricoverava nella terra di Vignanello forte per sito
e cinta di buone mura. Si difendevano i Napolitani virilmente, sapendo
che questa fazione era di grandissima importanza; erano anche aiutati
dai terrazzani, nemicissimi del nome franzese. Ma Mathieu tanto fece
con le armi e con le minaccie, che sforzava i Napolitani a lasciar
la terra libera al vincitore. Entraronvi i Franzesi trionfando, non
senza qualche licenza, come di gente vincitrice ed irritata. Acquistato
Vignanello, correva Mathieu ad assicurare il ponte di Borghetto.
Restava la quinta schiera che camminava verso Magliano; ma udite le
infelici novelle delle compagne, se ne tornava, senza aver combattuto,
per Ponzano, al principale alloggiamento dell'esercito regio. Così
pel valore delle sue genti e per l'arte egregia con la quale le mosse,
venne fatto a Macdonald di variare lo stato della guerra e di riuscir
vincitore da un assalto molto pericoloso.
Ma, non ostante le battaglie combattute infelicemente dal generale
napolitano sulla destra riva del Tevere, la guerra non era ancora
vinta; perchè da una parte il conte Ruggiero di Damas venendo da
Orbitello si avvicinava, dall'altro rimanevano ancora sulla sponda
sinistra del fiume ai Napolitani genti superiori per numero ai loro
nemici. Per la qual cosa Mack, non disperando ancora delle sorti, si
accingeva a fare un nuovo sforzo sulla sponda medesima, il cui fine
era di rompere la schiera di mezzo di Championnet; il che avrebbe
disgiunto le due ali franzesi. Ebbe il generale franzese sicuro e
pronto avviso dell'intento del suo avversario. Laonde per resistere
a quel nuovo impeto e non si commettere se non con vantaggio alla
fortuna, ristringeva i suoi ed affortificava con nuove genti i
luoghi di Contigliano e di Magliano. Poi fe' ritirare Macdonald da
Civitacastellana, solo lasciato un presidio nel forte di Borghetto
affinchè quivi validamente difendesse il passo del fiume. Finalmente
chiamava il generale Lemoine, che oltre l'Apennino sotto il freno di
Duhesme combatteva contro il cavaliere Micheroux, generale del re, ad
occupare Civitaducale e Rieti, la prima città del regno, la seconda,
dello Stato romano.
Le cose succedevano a prima giunta prosperamente ai Napolitani;
conciossiachè, sebbene per opera di Mathieu fossero stati scacciati da
Magliano, che già avevano conquistato, una loro schiera di gran polso,
sotto guida del generale Moesk, si era, cacciatone di forza i Franzesi,
impadronita di Otricoli, e già faceva correre da' suoi cavalleggieri
la strada per a Narni. La guerra diveniva pericolosa pei Franzesi. Ma
non perdutisi punto d'animo si risolvevano al combattere, e provarono
tostamente che nelle battaglie più può l'ardire che la prudenza;
poichè Mathieu, per comandamento di Macdonald, assaltò furiosamente i
Napolitani in Otricoli, e, quantunque valorosamente si difendessero, li
vinse con perdita di due mila soldati, di cinquecento cavalli, di otto
cannoni e di tre bandiere. Diedero in questo fatto pruove di singolar
valore i Polacchi e fu ferito in una gamba un Santacroce, principe
romano, che combatteva per la repubblica. Ritirossi Moesk colle
reliquie de' suoi a Calvi, dove per la fortezza del sito si poteva
sostenere e fare ancor dubbia la vittoria. Ma lo stesso Mathieu, già
vincitore di tanti fatti per valore di questa napolitana guerra mandato
da Macdonald, vincitore ancor esso dei fatti medesimi per perizia,
occupate le eminenze che stanno a sopraccapo alla terra e minacciato
aspramente Moesk se non si arrendesse, il costringeva, aiutato anche
dalla presenza di Macdonald sopraggiunto in quel frangente, alla
dedizione. Questo fatto ruppe ad un punto tutte le speranze cui Mack
aveva concetto di poter durare nello Stato romano, e lo fece accorgere
che niun altro scampo gli restava che quello di ritirarsi con presti
passi nel regno. Già il re, udite le sinistre novelle ed abbandonata
Roma, si era avviato prima a Caserta, poscia a Napoli; Mack, raccolti
più prestamente che potè tutti i suoi, andava a Capua, in cui sperava
di difender Napoli, giacchè non aveva potuto difendere Roma nè a
Calvi nè a Cantalupo. Entravano i Franzesi vittoriosi in Roma, donde
diciassette giorni prima erano partiti non vinti. Tornaronvi i consoli
ad occupare le perdute sedi.
Le cose dei Napolitani non avendo fatto sulla destra del Tevere quella
resistenza che il conte Ruggiero aveva sperato, gli era divenuto
impossibile di congiungersi con la sua schiera sinistra. Rifulse in
sì estremo accidente la virtù del conte; poichè, non isgomentatosi
punto, se ne continuava a marciare con sette mila soldati da Baccano
verso Roma. Championnet attonito a caso tanto improvviso, mandava
il suo aiutante Bonami a sapere che cosa volesse dir questo. Gli fu
risposto dal conte che voleva passare, o per amore o per forza, per
ritornare nel regno; ed ottenuto un indugio dal nemico per trattare
un accordo, avvisando che Bonami non aveva dato tempo per altro
motivo che per far accorrere nuove genti, levava, più tacitamente
che poteva, il campo, incamminandosi più che di passo alla volta di
Orbitello. Giunto alla Storta, vi fu il suo retroguardo combattuto
dai repubblicani, ma difesosi virilmente, acquistava facoltà del
continuare virilmente. Calava intanto a far le sue condizioni più
pericolose Kellermann da Borghetto. Incontratisi repubblicani e regi a
Toscanella, si travagliavano con un conflitto molto aspro. Il conte,
con tuttocchè fosse ferito gravemente da una scheggia in una gamba,
continuava a combattere valorosamente; i Napolitani incoraggiti
dall'esempio del loro capo, si difendevano anch'essi con molta
costanza; nè si spiccarono dalla battaglia se non quando per l'arrivo
delle cavallerie di Kellermann, era divenuta disuguale. Intanto non
aveva omesso il conte mentre col retroguardo arrestava l'impeto dei
repubblicani, di accostarsi vieppiù coll'antiguardo e col grosso della
schiera ad Orbitello. Queste due squadre nella cercata terra essendo
giunte tostamente, vi s'imbarcarono sulle navi napolitane che quivi le
attendevano. Restava che si conducesse a salvamento il retroguardo,
che era furiosamente seguitato dai Franzesi; ma non così tosto il
conte col retroguardo medesimo vi entrava, che chiuse le porte sul
viso al nemico, faceva le viste di volersi difendere. Si appicava
intanto una pratica tra di lui e Kellermann, per la conclusione della
quale fu fatto abilità al conte d'imbarcarsi con tutte le sue genti
solo lasciando in mano ai Franzesi le artiglierie. Viterbo vinta ed
occupata dal vincitore, pagò le pene d'aver anteposto lo Stato antico
e dispotico allo Stato nuovo e tirannico. Ciò nonostante non vi furono
più vendette esorbitanti, ed il giovane Kellermann vi si portò più
moderatamente che i tempi non comportassero.
Riconquistata Roma ed atterriti i Napolitani, pensava Championnet ad
assicurarsi ed ampliare la vittoria; ed ancorchè non avesse un esercito
bastante pel numero dei soldati a conquistare il regno, tuttavia
considerato il lor valore il terrore dei vincitori e la forza delle
opinioni favorevoli, che da lungo tempo e largamente vi si erano sparse
e che ora più potentemente operavano per la vicinanza dei Franzesi e
per la sconfitta dell'esercito regio, si risolveva a tentar l'impresa.
A questo fine era necessario di debellare Capua, ultimo propugnacolo
di Napoli per la fortezza della città, per la profondità delle acque
del Volturno e per avervi Mack adunato tutte le genti ancora forti
se non per valore, almeno per numero. Adunque il generale della
repubblica spartiva i suoi in due principali schiere, delle quali
la sinistra governata da Macdonald, correndo pei luoghi superiori e
più vicini agli Apennini doveva varcare il Garigliano ai passi del
Castelluccio e di Coprano, e al tempo stesso dare facoltà alle genti
di Duhesme e di Lemoine di congiungersi con lui a sforzo comune contro
Capua. La seconda schiera sotto la condotta di Rey, radendo il lido,
s'incamminava verso Terracina, con pensiero di acquistare, strada
facendo, Gaeta per una battaglia di mano, poi comparire sotto le mura
della desiderata Capua. Nè l'esito fu diverso del disegno, perchè
Macdonald e Rey, superati tutti gli ostacoli, arrivavano alla designata
oppugnazione sulle sponde del Volturno.
Precipitavano a gran rovina le cose del regno non essendosi mostrato
in sua difesa valore nissuno, se si eccettua il caso del conte
Ruggiero. Duhesme e Lemoine, ai quali andava avanti come speculatore
ed apritor di strade quell'arrischiato condottiere Rusca, sui sinistri
gioghi dell'Apennino insistendo, travagliavano più per gli assalti
improvvisi delle popolazioni mosse a rumore ed armate d'ogni sorta
d'armi, che per le battaglie delle genti regolari. Tuttavia a poco
a poco prevaleva il valore regolato. Lemoine acquistava Aquila, dove
trovava munizioni da bocca in abbondanza; poi si conduceva a Sulmona,
con intenzione di aspettar quivi Duhesme, che più vicino correva
le sponde dell'Adriatico. Grave intoppo ai disegni di Duhesme era
Pescara, città che con la sua fortezza situata in luogo eminente
dominava tutto il pian paese all'intorno, e la sola strada a riva il
mare per la quale possono passare le artiglierie. Due mila soldati la
presidiavano, ma non fecero miglior pruova dei difensori di Gaeta;
perchè come prima i soldati della repubblica si mostravano sulle
alture che stanno a sopraccapo al ponte di Pescara, e le altre truppe a
Pianelle ed a Cività di Penna, il comandante pensò alla dedizione dando
in mano dai Franzesi quel luogo tanto forte per arte e per natura, e
tanto importante alla sicurezza del regno. Vi trovavano i vincitori
armi e munizioni in copia. Acquistata Pescara, procedeva Duhesme a
congiungersi, per la strada di Popoli, con Lemoine a Sulmona, donde,
varcato il sommo giogo dell'Apennino, condussero entrambi tutta l'ala
sinistra sotto le muraglie di Capua. Così non solo erano in veemente
movimento le cose di Napoli, ma ancora cominciavano a precipitare a
manifesta rovina.
Naselli, lasciato Livorno, perchè oltre la sconfitta dei regi, aveva
udito che Serrurier con una mano di soldati della repubblica già aveva
occupato Lucca e si apparecchiava ad andarlo e combattere, imbarcate le
genti sulle navi apprestate, veleggiava alla volta del Garigliano.
Non erano senza fortezza i nuovi allogiamenti di Mack. Posto il campo
col grosso de' suoi nella pianura di Caserta, per modo che fosse
abile a difendere il passo del Volturno, aveva fatta Capua sicura
con un presidio di dieci mila soldati. Tra per questi e le genti del
campo, aveva ancora un novero di combattenti superiore a quello dei
Franzesi, e se avesse avuto e migliori soldati o più fedeli capitani o
minore capriccio in una certa squisitezza d'arte che gli faceva sempre
moltiplicare i casi fortuiti con allargar troppo il campo, poteva ancor
tenere la fortuna in pendente. Bene l'evento dimostrò che Capua si
poteva difendere e si perdè, non per forza, ma per accordo.
Ma già i casi di Napoli diventavano più forti di tutte queste
condizioni unite insieme. Il ritorno tanto subito del re, le novelle
sinistre che ad ora ad ora pervenivano, l'aver perduto in più breve
tempo quello che in breve tempo si era acquistato, le dedizioni tanto
importanti d'Aquila, di Pescara e di Gaeta, l'avvicinarsi continuo dei
nemico al cuore stesso del regno, i soldati o dispersi o fuggitivi, che
per escusazione propria magnificavano le cose, l'arrivo stesso di Mack
in Napoli venutovi per consultare sulle ultime speranze, rinnovando la
memoria delle vittorie dei Franzesi in Italia e il terrore delle armi
loro rinfrescando, avevano prodotto un grande abbattimento di animo
in chi sapeva, rabbia e disperazione in chi non sapeva. Titubavano i
consiglieri di Ferdinando sul partito che fosse a prendersi, alcuni
propendendo ad armare il popolo, altri opinando ch'egli avesse a
tostamente ritirarsi oltre il Faro. Intanto il volgo, fattesi alcune
istigazioni, anche da parte del governo, si armava da sè: la città
fra il terrore ed il furore aveva un aspetto molto sinistro e, come
si usa in simili casi, le voci popolari già accusavano di tradimento i
ministri. S'incominciava a por mano nel sangue degli avversarii o veri
o supposti del governo regio, poi si trascorse in quello degli amici.
Un Alessandro Ferreri, corriero per gli spacci, mandato con lettere a
Nelson, che con alcuni suoi vascelli stanziava nel porto di Napoli,
restò ucciso a furia di popolo sul molo; il suo cadavere sanguinoso
tratto a forza sotto le finestre della reggia, fu mostrato al re,
gridando orrendamente i feroci uccisori e l'invasata moltitudine che
gli accompagnava: _Muoiano i traditori, viva la santa fede, viva il
re_. Già non vi era più freno. L'orrore concetto per la fatta uccisione
del corriero aveva persuaso a Ferdinando, che tralasciando anche la
forza franzese che si avvicinava, non poteva più rimanersi a Napoli
con dignità. S'aggiunse che Mack non confidando di poter far guerra
con quei soldati, che peraltro quanto potessero valere avea dimostrato
l'esempio del conte Ruggiero, consigliava un accordo.
Tutte queste considerazioni, e forse più ancora il timore di qualche
congiura per opera dei novatori, essendo la rabbia loro grandissima
pei sofferti supplizii, fecero prevalere la sentenza di coloro che
consigliavano che il re si ritirasse in Sicilia.


Anno di CRISTO MDCCIC. Indizione II.
PIO VI papa 25.
FRANCESCO II imperadore 8.

Fatta la deliberazione di abbandonar Napoli, si mandò tosto ad
esecuzione, non senza terrore e confusione, come suole in simili
accidenti. L'ultima notte dell'anno antecedente imbarcarono sulle navi
inglesi e portoghesi ch'erano sorte nel porto, il mobile più prezioso
dei palazzi di Caserta e di Napoli, le gioie della corona, il tesoro
di San Gennaro, in cui erano meglio di venti milioni coniati ed oro
ed argento vergati in quantità: a queste ricchezze si aggiunsero le
singolarità più preziose di Ercolano.
Imbarcati i denari e le suppellettili, creava Ferdinando suo vicario
il principe Pignatelli con facoltà amplissime, anche di conchiudere un
accordo coi Franzesi, col consentire all'occupazione di Napoli, purchè
la città salva ed incolume si conservasse. S'imbarcava Ferdinando
la notte medesima sulla nave di Nelson con Acton, Hamilton ed i
cortigiani.