Annali d'Italia, vol. 8 - 58
pacificare il Piemonte voleva che concedesse ai sediziosi. Avrebbe
l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca,
che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo
franzese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne
con Ginguenè nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse
solamente i delitti politici anteriori e non gli estranei alla
sedizione; non guardasse nel futuro, e in modo alcuno non impedisse
il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in
terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo
due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto
alcuno ripigliassero le armi contro il re.
Brune, al quale Ginguenè aveva annunziato le condizioni dell'indulto,
e che evidentemente mirava più oltre che alle servitù del re verso
la Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando,
voleva che si domandasse la consegnazione quale deposito, in mano
dei Franzesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre che il re
licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di
Carrosio e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla
cittadella, domandassela Ginguenè, e se la domanda gli ripugnasse,
domanderebbela egli.
Non abborrì l'animo di Ginguenè da sì insolente proposta, benchè se ne
potesse esimere, tanto più che gli era pervenuto comandamento espresso
da Parigi di non aggravar le condizioni e di stipularle tali quali il
governo glie le aveva mandate. Insistè adunque con apposita scrittura
appresso il ministro Priocca, notificando che Brune si era risoluto
a non accettar le condizioni; e aggiungendo di proprio capo molte
esagerazioni sulle cose correnti, conchiudeva che in tale condizione di
tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà
era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran
preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato,
dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la
strada a buona concordia: che i democrati armati deporrebbero le armi,
vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina
e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello Stato stabilmente
confermato.
Persistettero Ginguenè e Brune nel volere la cittadella, sebbene
il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore che le
condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la
sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo franzese, stante la
disposizione d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò
richiedevano dalla Francia; che per questa cagione e per avere Sottin
trasgredito questi ordini l'aveva il direttorio richiamato da Genova
e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. In
fatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso
nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla
quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le
sue istanze e diligenza il conte Balbo a Parigi.
A così strana domanda si commosse il governo piemontese, e, già certo
del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere
felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò
primieramente il marchese Colli a Milano affinchè facesse opera
con Brune che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva
all'ambasciator di Francia parole che potrebbero servir di esempio ai
governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza.
Brune che fomentava le sollevazioni contro il re per ridurlo agli
estremi spaventi perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino,
non voleva a modo niuno udire che ella non gli si consegnasse: ed
ora spaventando con minaccie di nuove ribellioni, ed ora allettando
con isperanze di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda,
perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano
instantemente in contrario i ministri che in un caso tanto grave ed
in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si
rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero
finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile
a quella condizione che toglieva al re le ultime reliquie della sua
dignità e della sua independenza.
Stipulavasi il dì 28 giugno a Milano fra Brune da una parte ed il
marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli
del quale erano i seguenti: che i Franzesi occupassero il 3 di luglio
la cittadella di Torino; che il presidio franzese di lei non potesse
mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e
liberamente e quietamente potesse esercitare il suo ufficio, nè fosse
lecito ad alcuno insultare o cambiare quanto si appartenesse alla
religione; che il governo franzese si obbligasse a cooperare alla
quiete interna del Piemonte, nè direttamente, nè indirettamente desse
soccorso o protezione a coloro che volessero turbare il governo del
re; che Brune con atto pubblico ordinasse e procurasse con ogni mezzo
che in suo potere fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del
Piemonte; che in fine usasse il generale tutta l'autorità e tutti
i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure
cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse; e la buona
vicinanza e l'antico assetto di cose si ristaurassero. Per tutto
questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati,
a consentire che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò
non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro
talento; che farebbero finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le
strade del Piemonte fosse a tutti libero e sicuro.
Per condurre, ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti
d'indulto a favore dei sollevati, Brune da Milano il dì 6 luglio
pubblicava altre cose, al fine delle quali esortava ed ammoniva tutti
gli amici dei Franzesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle
minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese
le armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi e
tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita.
Circa quelli poi, minacciava, che tenute in niun conto queste solenni
ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non
dipendenti dagli ordini dell'esercito franzese o dalle truppe dei
governi d'Italia, gli chiamerebbe nemici della Francia, partigiani
dell'Inghilterra, autori di sedizioni e come gente di tal fatta li
perseguiterebbe.
A dì 3 di luglio entravano i Franzesi condotti da Kister nella
cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento
di Monferrato che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei
novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose
donne ed i galanti giovani concorrevano volentieri, essendo il tempo
bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così,
contro la data fede e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva
il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.
Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo e
l'incaricato di affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani
loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo
Emmanuele non più re di Sardegna, ma servo di Francia e l'ambasciator
franzese vero e reale sovrano del Piemonte.
Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato
d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per
nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava nel tempo stesso, per
mezzo di Ginguenè, al re sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si
uniformava Carlo Emmanuele allo intento, non senza però lamentarsi
e protestare con forti e generose parole contro quella insolente
imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini; solo i
regi fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano ed altri
paesi perduti nella contesa precedente; le quali sarebbero troppo
minuta e fastidiosa narrazione.
Ma è ben d'uopo raccontare un fatto orribile in sè, orribile per le
cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi
nemici del nome reale tornati a stanziare ed a far massa a Carrosio
da poi che il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le
sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso
da quelli stessi che più intimamente assistevano ai consigli segreti
di Brune, dell'accordo che si trattava tra Francia e Sardegna per
la rimessa della cittadella e per la quiete del Piemonte. Nè parendo
loro che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo
ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere
obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il
divieto col fare un moto, il quale confidavano avesse ad allargare se
non tutto almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento
di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero
improvvisamente verso Alessandria, gli ufficiali del generale Menard,
che comandava a tutte le truppe franzesi in Piemonte avevano loro
dato speranza che le truppe repubblicane di Francia che stanziavano
in quella città si accosterebbero loro ad impresa comune contro il
re. Non dubitavano che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla
fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra
tutte lo provincie che bevono le acque del Tanaro; il che, giunto
all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori che
anche le provincie del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta
vittoria aspettavano in tutto il Piemonte. Era stato l'indulto
pubblicato in Torino il lunedì, secondo giorno di luglio, ed il giorno
seguente erano i Franzesi entrati nella cittadella.
La mattina del 5 molto per tempo uscirono i sollevati, ed in numero
di circa mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Franzesi
che presidiavano la piazza facessero alcun motivo per impedirli,
marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta,
alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto
pericolosa, se Solaro, governatore di Alessandria, non avesse avuto
avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il
quale, per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era
consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa,
Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla
Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti e cento
cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati
di Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto
avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo
effetto; imperciocchè uscendo i regi all'impensata dall'agguato, e con
repentino romore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani,
che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, li ruppero
facilmente, togliendo loro due cannoni e bestie da soma cariche di
non poche munizioni. I soldati regi, salvo nel primo impeto della
battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e
gli arrendentisi; ma si erano a loro mescolati gli abitatori della
Fraschea, gente fiera di natura ed avversa al nome franzese ed a
coloro che l'amavano. Costoro, crudelmente procedendo, ammazzavano e
spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta
in abbominio agli ufficiali ed ai soldati regi che si sforzavano,
sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si
ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i
vinti repubblicani nascosti chi qua chi là per le selve, pei vigneti
e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla
spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per
quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani.
Durò ben due giorni questa piuttosto caccia che battaglia, e piuttosto
carnificina che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala,
giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto
se non di opinioni false ed esagerate in materia di libertà.
Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto
per far rivoltare gli Stati del re. Allegossi avere lui indugiato
a bella posta sino al 6 del mese a pubblicare i suoi ordini per la
risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin
dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu
accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue
genti i sollevati, poi dell'averli traditi col rivelare al governo
regio ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco
in quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene
che gli ufficiali che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard
spendevano presso i sollevati il nome loro per far credere che questi
due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto
a Brune, egli è certo che con parole forti e sdegnose risolutamente
negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo
regio dell'avere, dopo consentito per forza all'indulto, in tale
modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare
a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi che il governator
d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della
qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da
questo, che l'indulto pubblicato ai 2 in Torino, non fu pubblicato
se non ai 6 in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni.
Scrissene molto risentitamente Ginguenè a Priocca. Rispondeva
risolutamente il ministro che anche alle orecchie sue erano pervenute
certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere,
perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza
condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia,
certamente non era dalla parte del re; parole terribili e pregne di
cose molto sinistre.
L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti
repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati, esser cagione
di concordia fra le due parti e di sicurtà pel Piemonte, partorì
al contrario maggiori sdegni, e per poco stette ch'ella non facesse
sorgere una sanguinosa battaglia tra i Franzesi ed i Piemontesi nel
grembo stesso della real Torino. Soleano i Franzesi sul battere della
diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città,
ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenere nè anco da
quelle che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno
e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in
mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse
i tempi, nella cittadella medesima voci o motti ingiuriosi al re.
Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale,
siccome quello che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva
pratiche coi novatori che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava
molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti
dimostrazioni. Ne nasceva che ogni sera accorrevano da tutte le parti
ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperio, i novatori
per disegno e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il
governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno,
mandava soldati per prevenire ogni scandalo, ma essi, udendo il
vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si
concitavano ed a mala pena potevano frenar sè stessi che non venissero
ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano l'ire soldatesche, ed
un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte.
L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti:
appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il 16 settembre,
o che fosse sola imprudenza giovanile o disegno espresso, come si
credè con maggiore probabilità, dei novatori, massimamente di quei
più arditi che dipendevano dal fomite cisalpino, si venne ad un
fatto mostruoso che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò
che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meridiane
una vergognosa e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una
tratta di tre carrozze, nelle quale si trovavano femmine vivandiere
travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali mascherati
ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri,
con grandi parrucche, con borse nere a capelli, con lunghe spade, con
else d'acciaio, pure nere, e con piccioli cappelli sotto il braccio,
tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati
parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più
evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con
bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro
usseri franzesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali
mascherati il vicegerente ed il segretario di Collin. Andavano attorno
per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i
corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar
davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San
Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava
divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli
usseri, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza romore,
i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di
sdegno. Posta in tal guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto
indecente della corte e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere
imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era
la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a
guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi
trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie
donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze
della mascherata: al tempo medesimo gli usseri menavano piattonate
forti a tutti che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso
dalla cittadella suonava e risuonava. Allora non vi fu più modo al
furore che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero
in Torino o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del
tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno
alla sua regia sede; il che come disegno gli fu poscia imputato dai
repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi
moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva;
i soldati piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare,
accorrevano a furore; alcuni soldati franzesi restarono uccisi. Lo
spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I
Franzesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi
e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano
armati e pronti a far battaglia contro i regi. Una estrema ruina
sovrastava, presente il re, alla reale Torino.
In questo punto il generale Menard, che non per ufficio, ma per
accidente si trovava in Torino, veduto che se più si procedesse, vi
andava la salute dei Franzesi, la salute dei Piemontesi, correva in
mezzo a' suoi, comandava a Collin che non si movesse, e con le sue
esortazioni, con le sue minaccie, con l'autorità del suo grado tanto
operava, che fece fermare e tornare in cittadella i repubblicani,
impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto,
il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo.
Il governatore non tralasciò uffizio, perchè il furore improvviso
dei soldati piemontesi si raffrenasse, e diede ordine perchè se ne
tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte
dalla generosità di Menard e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea.
L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava
villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso
dell'accidente, e pregato dal ministro Priocca, della sicurtà di lui
e di tutta la sua famiglia promettendo, tornava la sera del medesimo
giorno. Da quell'uomo diritto e dabbene ch'egli era, quando non
isviato dai soldati fanatici, si dimostrò molto sdegnato contro Collin,
condannando con forti parole la sua condotta e la schifosa mascherata.
Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella e
surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo piemontese.
Queste cose faceva Ginguenè sano; ma aggirato di nuovo dai novatori,
tornò nel suo male, ed ingannandosi novellamente, incolpava il governo
regio di congiura per ammazzare tutti i Franzesi il giorno stesso
che si era fatta la mascherata; e, troppo facilmente condiscendendo
ai desiderii di Brune, di nuovo tormentava Priocca: addomandava con
insolente istanza che il re licenziasse tutti i suoi ministri e nuovi
ne creasse in luogo loro; intorno a che molti furono i contrasti, i
quali finalmente però terminarono con la dichiarazione che il re non
voleva fare cambiamenti, poichè non li poteva fare con giustizia.
Dalle precedenti narrazioni si raccoglie che le cose tra l'ambasciatore
di Francia ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè
alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava
Ginguenè presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da
un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente
instava acciocchè chiamasse Ginguenè. Questi chiamava Balbo spargitor
d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo e pericoloso
di tutta la lega europea contro la Francia. Balbo chiamava Ginguenè
uomo buono e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno
di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle follie
ed alle calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di
penna intemperante e di natura tale che non lasciasse pur respirare un
momento quel governo che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo
mentre le novelle della mascherata e della domanda fatta da Ginguenè
della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente e con molta
istanza Balbo de' due accidenti, come già si era prevalso della domanda
della cittadella. Per la qual cosa, giuntovi eziandio che Taleyrand
sapeva che la nuova confederazione contro la Francia si preparava,
ma non era ancora matura, e però voleva allontanar le cagioni di
nuovi scandali, prevalse l'ambasciator piemontese. Fu Ginguenè per
decreto del direttorio del 24 settembre richiamato dalla sua carica
di ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza
lettere che letterato, amatore dei letterati e di natura dolcissima, ma
non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria
in tempi tanto tempestosi.
Gli altri fatti si apprestavano all'Italia. Mentre con maggiori
dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciatore Balbo
accarezzato da tutti i ministri e massimamente da Taleyrand in Parigi,
mandava il direttorio il generale Joubert, surrogato a Brune, in
Italia, con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoia e di
far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo
che i tempi stringevano, non frappose indugio a mandar ad effetto ciò
che gli era stato commesso. Ma prima di venire ad una deliberazione del
tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Munier con ordine di
richiedere il re che desse incontanente i dieci mila soldati, a' quali
era obbligato per trattato d'alleanza, e li mandasse a congiungersi coi
Franzesi, ed, oltre a ciò, che rimettesse in mano di lui l'arsenale di
Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella
città stessa e vicino alla cittadella.
Rispose che darebbe incontanente i dieci mila soldati: mandò il giorno
stesso della richiesta gli ordini perchè si adunassero; spedì un
ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al
modo del marciare dell'esercito piemontese verso il franzese, e del
servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse
non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato
d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo apposta affinchè questo
emergente si accordasse col direttorio.
Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe
contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello
che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva
che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei
repubblicani. Perlochè il generalissimo vi mandava a governarla il dì
27 novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, ch'era stimato
od aborrente per natura da sì gravi ingiurie o non alieno dal favorire
gl'interessi del re. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per
sè stesso senza che si venisse all'esperimento dell'armi. Ma dubitando
che l'apparato della forza non bastasse a muover l'animo di Carlo
Emmanuele, si usò anche la astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era
Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per
mezzo dei democrati del paese e di quanti altri potesse adescare, quali
fossero le intenzioni del re e dei ministri, e soprattutto quali mezzi
di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio sapendo
quanto Carlo Emmanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi
insoliti di sedizione con volersi insinuare presso al suo confessore,
affinchè l'esortasse alla rinunzia. Nè solo l'abdicazione procuravano,
ma volevano che il re per l'atto stesso della sua rinunzia ordinasse
ai Piemontesi ed a' suoi soldati che non si muovessero ed obbedissero
al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di
Francia, che sul primo giungere si era tenuto nascosto, a procurarsi
segrete intelligenze con uomini d'importanza; ma il tentativo della
confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore.
Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il
terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere
Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano
e chiamavano a rovina e la reggia e i popoli e il Piemonte. Già i
repubblicani ordinati da Jubert marciavano a distruggere un re tante
volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la
fortezza difenditrice de' suoi tetti e de' suoi penetrali stessi, ed al
quale altro fondamento non restava consolativo ma insufficiente, che la
fede dei soldati e la devozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì 5
dicembre queste parole.
«La corte di Torino ha colmo la misura ed ha mandato giù la visiera:
da lungo tempo gran delitti ha commesso; sangue di repubblicani
piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il
governo franzese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione
rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava
dar quiete al Piemonte con istringere ogni giorno più la sua alleanza
con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una
corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo
generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore
della grande nazione, e di portar pace e felicità al Piemonte: per
questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominii
piemontesi.»
Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Desoles, raunatisi
con le schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso ed
a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale
entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe
carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli.
L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo,
Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regi,
facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard
s'incamminava ad Asti, donde, spingendosi più avanti, andò a piantare
gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia
la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che
gli ambasciatori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella
l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca,
che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo
franzese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne
con Ginguenè nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse
solamente i delitti politici anteriori e non gli estranei alla
sedizione; non guardasse nel futuro, e in modo alcuno non impedisse
il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in
terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo
due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto
alcuno ripigliassero le armi contro il re.
Brune, al quale Ginguenè aveva annunziato le condizioni dell'indulto,
e che evidentemente mirava più oltre che alle servitù del re verso
la Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando,
voleva che si domandasse la consegnazione quale deposito, in mano
dei Franzesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre che il re
licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di
Carrosio e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla
cittadella, domandassela Ginguenè, e se la domanda gli ripugnasse,
domanderebbela egli.
Non abborrì l'animo di Ginguenè da sì insolente proposta, benchè se ne
potesse esimere, tanto più che gli era pervenuto comandamento espresso
da Parigi di non aggravar le condizioni e di stipularle tali quali il
governo glie le aveva mandate. Insistè adunque con apposita scrittura
appresso il ministro Priocca, notificando che Brune si era risoluto
a non accettar le condizioni; e aggiungendo di proprio capo molte
esagerazioni sulle cose correnti, conchiudeva che in tale condizione di
tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà
era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran
preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato,
dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la
strada a buona concordia: che i democrati armati deporrebbero le armi,
vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina
e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello Stato stabilmente
confermato.
Persistettero Ginguenè e Brune nel volere la cittadella, sebbene
il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore che le
condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la
sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo franzese, stante la
disposizione d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò
richiedevano dalla Francia; che per questa cagione e per avere Sottin
trasgredito questi ordini l'aveva il direttorio richiamato da Genova
e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. In
fatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso
nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla
quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le
sue istanze e diligenza il conte Balbo a Parigi.
A così strana domanda si commosse il governo piemontese, e, già certo
del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere
felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò
primieramente il marchese Colli a Milano affinchè facesse opera
con Brune che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva
all'ambasciator di Francia parole che potrebbero servir di esempio ai
governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza.
Brune che fomentava le sollevazioni contro il re per ridurlo agli
estremi spaventi perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino,
non voleva a modo niuno udire che ella non gli si consegnasse: ed
ora spaventando con minaccie di nuove ribellioni, ed ora allettando
con isperanze di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda,
perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano
instantemente in contrario i ministri che in un caso tanto grave ed
in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si
rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero
finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile
a quella condizione che toglieva al re le ultime reliquie della sua
dignità e della sua independenza.
Stipulavasi il dì 28 giugno a Milano fra Brune da una parte ed il
marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli
del quale erano i seguenti: che i Franzesi occupassero il 3 di luglio
la cittadella di Torino; che il presidio franzese di lei non potesse
mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e
liberamente e quietamente potesse esercitare il suo ufficio, nè fosse
lecito ad alcuno insultare o cambiare quanto si appartenesse alla
religione; che il governo franzese si obbligasse a cooperare alla
quiete interna del Piemonte, nè direttamente, nè indirettamente desse
soccorso o protezione a coloro che volessero turbare il governo del
re; che Brune con atto pubblico ordinasse e procurasse con ogni mezzo
che in suo potere fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del
Piemonte; che in fine usasse il generale tutta l'autorità e tutti
i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure
cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse; e la buona
vicinanza e l'antico assetto di cose si ristaurassero. Per tutto
questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati,
a consentire che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò
non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro
talento; che farebbero finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le
strade del Piemonte fosse a tutti libero e sicuro.
Per condurre, ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti
d'indulto a favore dei sollevati, Brune da Milano il dì 6 luglio
pubblicava altre cose, al fine delle quali esortava ed ammoniva tutti
gli amici dei Franzesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle
minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese
le armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi e
tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita.
Circa quelli poi, minacciava, che tenute in niun conto queste solenni
ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non
dipendenti dagli ordini dell'esercito franzese o dalle truppe dei
governi d'Italia, gli chiamerebbe nemici della Francia, partigiani
dell'Inghilterra, autori di sedizioni e come gente di tal fatta li
perseguiterebbe.
A dì 3 di luglio entravano i Franzesi condotti da Kister nella
cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento
di Monferrato che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei
novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose
donne ed i galanti giovani concorrevano volentieri, essendo il tempo
bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così,
contro la data fede e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva
il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.
Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo e
l'incaricato di affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani
loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo
Emmanuele non più re di Sardegna, ma servo di Francia e l'ambasciator
franzese vero e reale sovrano del Piemonte.
Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato
d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per
nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava nel tempo stesso, per
mezzo di Ginguenè, al re sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si
uniformava Carlo Emmanuele allo intento, non senza però lamentarsi
e protestare con forti e generose parole contro quella insolente
imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini; solo i
regi fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano ed altri
paesi perduti nella contesa precedente; le quali sarebbero troppo
minuta e fastidiosa narrazione.
Ma è ben d'uopo raccontare un fatto orribile in sè, orribile per le
cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi
nemici del nome reale tornati a stanziare ed a far massa a Carrosio
da poi che il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le
sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso
da quelli stessi che più intimamente assistevano ai consigli segreti
di Brune, dell'accordo che si trattava tra Francia e Sardegna per
la rimessa della cittadella e per la quiete del Piemonte. Nè parendo
loro che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo
ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere
obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il
divieto col fare un moto, il quale confidavano avesse ad allargare se
non tutto almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento
di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero
improvvisamente verso Alessandria, gli ufficiali del generale Menard,
che comandava a tutte le truppe franzesi in Piemonte avevano loro
dato speranza che le truppe repubblicane di Francia che stanziavano
in quella città si accosterebbero loro ad impresa comune contro il
re. Non dubitavano che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla
fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra
tutte lo provincie che bevono le acque del Tanaro; il che, giunto
all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori che
anche le provincie del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta
vittoria aspettavano in tutto il Piemonte. Era stato l'indulto
pubblicato in Torino il lunedì, secondo giorno di luglio, ed il giorno
seguente erano i Franzesi entrati nella cittadella.
La mattina del 5 molto per tempo uscirono i sollevati, ed in numero
di circa mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Franzesi
che presidiavano la piazza facessero alcun motivo per impedirli,
marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta,
alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto
pericolosa, se Solaro, governatore di Alessandria, non avesse avuto
avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il
quale, per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era
consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa,
Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla
Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti e cento
cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati
di Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto
avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo
effetto; imperciocchè uscendo i regi all'impensata dall'agguato, e con
repentino romore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani,
che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, li ruppero
facilmente, togliendo loro due cannoni e bestie da soma cariche di
non poche munizioni. I soldati regi, salvo nel primo impeto della
battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e
gli arrendentisi; ma si erano a loro mescolati gli abitatori della
Fraschea, gente fiera di natura ed avversa al nome franzese ed a
coloro che l'amavano. Costoro, crudelmente procedendo, ammazzavano e
spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta
in abbominio agli ufficiali ed ai soldati regi che si sforzavano,
sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si
ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i
vinti repubblicani nascosti chi qua chi là per le selve, pei vigneti
e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla
spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per
quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani.
Durò ben due giorni questa piuttosto caccia che battaglia, e piuttosto
carnificina che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala,
giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto
se non di opinioni false ed esagerate in materia di libertà.
Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto
per far rivoltare gli Stati del re. Allegossi avere lui indugiato
a bella posta sino al 6 del mese a pubblicare i suoi ordini per la
risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin
dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu
accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue
genti i sollevati, poi dell'averli traditi col rivelare al governo
regio ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco
in quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene
che gli ufficiali che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard
spendevano presso i sollevati il nome loro per far credere che questi
due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto
a Brune, egli è certo che con parole forti e sdegnose risolutamente
negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo
regio dell'avere, dopo consentito per forza all'indulto, in tale
modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare
a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi che il governator
d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della
qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da
questo, che l'indulto pubblicato ai 2 in Torino, non fu pubblicato
se non ai 6 in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni.
Scrissene molto risentitamente Ginguenè a Priocca. Rispondeva
risolutamente il ministro che anche alle orecchie sue erano pervenute
certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere,
perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza
condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia,
certamente non era dalla parte del re; parole terribili e pregne di
cose molto sinistre.
L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti
repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati, esser cagione
di concordia fra le due parti e di sicurtà pel Piemonte, partorì
al contrario maggiori sdegni, e per poco stette ch'ella non facesse
sorgere una sanguinosa battaglia tra i Franzesi ed i Piemontesi nel
grembo stesso della real Torino. Soleano i Franzesi sul battere della
diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città,
ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenere nè anco da
quelle che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno
e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in
mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse
i tempi, nella cittadella medesima voci o motti ingiuriosi al re.
Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale,
siccome quello che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva
pratiche coi novatori che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava
molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti
dimostrazioni. Ne nasceva che ogni sera accorrevano da tutte le parti
ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperio, i novatori
per disegno e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il
governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno,
mandava soldati per prevenire ogni scandalo, ma essi, udendo il
vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si
concitavano ed a mala pena potevano frenar sè stessi che non venissero
ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano l'ire soldatesche, ed
un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte.
L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti:
appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il 16 settembre,
o che fosse sola imprudenza giovanile o disegno espresso, come si
credè con maggiore probabilità, dei novatori, massimamente di quei
più arditi che dipendevano dal fomite cisalpino, si venne ad un
fatto mostruoso che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò
che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meridiane
una vergognosa e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una
tratta di tre carrozze, nelle quale si trovavano femmine vivandiere
travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali mascherati
ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri,
con grandi parrucche, con borse nere a capelli, con lunghe spade, con
else d'acciaio, pure nere, e con piccioli cappelli sotto il braccio,
tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati
parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più
evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con
bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro
usseri franzesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali
mascherati il vicegerente ed il segretario di Collin. Andavano attorno
per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i
corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar
davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San
Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava
divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli
usseri, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza romore,
i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di
sdegno. Posta in tal guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto
indecente della corte e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere
imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era
la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a
guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi
trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie
donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze
della mascherata: al tempo medesimo gli usseri menavano piattonate
forti a tutti che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso
dalla cittadella suonava e risuonava. Allora non vi fu più modo al
furore che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero
in Torino o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del
tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno
alla sua regia sede; il che come disegno gli fu poscia imputato dai
repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi
moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva;
i soldati piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare,
accorrevano a furore; alcuni soldati franzesi restarono uccisi. Lo
spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I
Franzesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi
e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano
armati e pronti a far battaglia contro i regi. Una estrema ruina
sovrastava, presente il re, alla reale Torino.
In questo punto il generale Menard, che non per ufficio, ma per
accidente si trovava in Torino, veduto che se più si procedesse, vi
andava la salute dei Franzesi, la salute dei Piemontesi, correva in
mezzo a' suoi, comandava a Collin che non si movesse, e con le sue
esortazioni, con le sue minaccie, con l'autorità del suo grado tanto
operava, che fece fermare e tornare in cittadella i repubblicani,
impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto,
il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo.
Il governatore non tralasciò uffizio, perchè il furore improvviso
dei soldati piemontesi si raffrenasse, e diede ordine perchè se ne
tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte
dalla generosità di Menard e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea.
L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava
villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso
dell'accidente, e pregato dal ministro Priocca, della sicurtà di lui
e di tutta la sua famiglia promettendo, tornava la sera del medesimo
giorno. Da quell'uomo diritto e dabbene ch'egli era, quando non
isviato dai soldati fanatici, si dimostrò molto sdegnato contro Collin,
condannando con forti parole la sua condotta e la schifosa mascherata.
Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella e
surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo piemontese.
Queste cose faceva Ginguenè sano; ma aggirato di nuovo dai novatori,
tornò nel suo male, ed ingannandosi novellamente, incolpava il governo
regio di congiura per ammazzare tutti i Franzesi il giorno stesso
che si era fatta la mascherata; e, troppo facilmente condiscendendo
ai desiderii di Brune, di nuovo tormentava Priocca: addomandava con
insolente istanza che il re licenziasse tutti i suoi ministri e nuovi
ne creasse in luogo loro; intorno a che molti furono i contrasti, i
quali finalmente però terminarono con la dichiarazione che il re non
voleva fare cambiamenti, poichè non li poteva fare con giustizia.
Dalle precedenti narrazioni si raccoglie che le cose tra l'ambasciatore
di Francia ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè
alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava
Ginguenè presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da
un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente
instava acciocchè chiamasse Ginguenè. Questi chiamava Balbo spargitor
d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo e pericoloso
di tutta la lega europea contro la Francia. Balbo chiamava Ginguenè
uomo buono e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno
di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle follie
ed alle calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di
penna intemperante e di natura tale che non lasciasse pur respirare un
momento quel governo che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo
mentre le novelle della mascherata e della domanda fatta da Ginguenè
della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente e con molta
istanza Balbo de' due accidenti, come già si era prevalso della domanda
della cittadella. Per la qual cosa, giuntovi eziandio che Taleyrand
sapeva che la nuova confederazione contro la Francia si preparava,
ma non era ancora matura, e però voleva allontanar le cagioni di
nuovi scandali, prevalse l'ambasciator piemontese. Fu Ginguenè per
decreto del direttorio del 24 settembre richiamato dalla sua carica
di ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza
lettere che letterato, amatore dei letterati e di natura dolcissima, ma
non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria
in tempi tanto tempestosi.
Gli altri fatti si apprestavano all'Italia. Mentre con maggiori
dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciatore Balbo
accarezzato da tutti i ministri e massimamente da Taleyrand in Parigi,
mandava il direttorio il generale Joubert, surrogato a Brune, in
Italia, con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoia e di
far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo
che i tempi stringevano, non frappose indugio a mandar ad effetto ciò
che gli era stato commesso. Ma prima di venire ad una deliberazione del
tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Munier con ordine di
richiedere il re che desse incontanente i dieci mila soldati, a' quali
era obbligato per trattato d'alleanza, e li mandasse a congiungersi coi
Franzesi, ed, oltre a ciò, che rimettesse in mano di lui l'arsenale di
Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella
città stessa e vicino alla cittadella.
Rispose che darebbe incontanente i dieci mila soldati: mandò il giorno
stesso della richiesta gli ordini perchè si adunassero; spedì un
ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al
modo del marciare dell'esercito piemontese verso il franzese, e del
servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse
non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato
d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo apposta affinchè questo
emergente si accordasse col direttorio.
Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe
contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello
che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva
che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei
repubblicani. Perlochè il generalissimo vi mandava a governarla il dì
27 novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, ch'era stimato
od aborrente per natura da sì gravi ingiurie o non alieno dal favorire
gl'interessi del re. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per
sè stesso senza che si venisse all'esperimento dell'armi. Ma dubitando
che l'apparato della forza non bastasse a muover l'animo di Carlo
Emmanuele, si usò anche la astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era
Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per
mezzo dei democrati del paese e di quanti altri potesse adescare, quali
fossero le intenzioni del re e dei ministri, e soprattutto quali mezzi
di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio sapendo
quanto Carlo Emmanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi
insoliti di sedizione con volersi insinuare presso al suo confessore,
affinchè l'esortasse alla rinunzia. Nè solo l'abdicazione procuravano,
ma volevano che il re per l'atto stesso della sua rinunzia ordinasse
ai Piemontesi ed a' suoi soldati che non si muovessero ed obbedissero
al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di
Francia, che sul primo giungere si era tenuto nascosto, a procurarsi
segrete intelligenze con uomini d'importanza; ma il tentativo della
confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore.
Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il
terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere
Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano
e chiamavano a rovina e la reggia e i popoli e il Piemonte. Già i
repubblicani ordinati da Jubert marciavano a distruggere un re tante
volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la
fortezza difenditrice de' suoi tetti e de' suoi penetrali stessi, ed al
quale altro fondamento non restava consolativo ma insufficiente, che la
fede dei soldati e la devozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì 5
dicembre queste parole.
«La corte di Torino ha colmo la misura ed ha mandato giù la visiera:
da lungo tempo gran delitti ha commesso; sangue di repubblicani
piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il
governo franzese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione
rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava
dar quiete al Piemonte con istringere ogni giorno più la sua alleanza
con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una
corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo
generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore
della grande nazione, e di portar pace e felicità al Piemonte: per
questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominii
piemontesi.»
Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Desoles, raunatisi
con le schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso ed
a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale
entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe
carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli.
L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo,
Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regi,
facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard
s'incamminava ad Asti, donde, spingendosi più avanti, andò a piantare
gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia
la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che
gli ambasciatori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella
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