Annali d'Italia, vol. 8 - 57
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nei consigli legislativi o con le stampe addottrinando il pubblico,
contrastavano al direttorio; e i cambiamenti stessi, fatti per forza
di soldatesche, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a
tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra
cosa voleva piuttostochè l'indipendenza loro, e che, dalle parole in
fuori, ch'erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù.
Allora s'accorsero ch'era per loro diventato necessario, seppure liberi
e indipendenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e
por mano essi stessi a quello che per opera dei forastieri non potevano
sperar d'acquistare. Sorse in quel punto specialmente una setta, la
cui sede principale era in Bologna, e che siccome da Bologna, come
da centro, spandeva a guisa di raggi tutto all'intorno negli altri
paesi d'Italia le sue macchinazioni, così fu chiamata Società dei
Raggi. Voleano costoro la libertà e l'indipendenza d'Italia contro e a
dispetto i di tutti, e queste cose vigorosamente tramavano ed i semi ne
spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Franzesi
per le quali tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno
le operazioni di Lahoz, che in progresso si leggeranno, furono, come
immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione.
Passando ora alle cose di Sardegna, il re, serrato da ogni parte dalle
armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della
sua fede verso il direttorio; non che nel più interno dell'animo non
desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami
il suo male, ma vedeva che era del tutto in potestà dell'oppressore
il sovvertire i suoi Stati prima solo che l'Austria il sapesse.
Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene
s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla
repubblica, quantunque altri desiderii avesse. Reggeva il Piemonte il
re Carlo Emmanuele IV, principe religiosissimo e di pacata natura, ma
poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto e sregolato.
In mezzo agli umori che regnavano in Italia per formarne, mutati
gli ordini politici in Piemonte, una sola repubblica, come alcuni
bramavano, o veramente due, dell'una delle quali fosse capo Milano,
dell'altra Roma, era arrivato l'ambasciatore di Francia Ginguenè a
Torino. Era Ginguenè uomo di tutte le virtù, ma molto incapriccito
in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli Stati
repubblicani. Di fantasia vivacissima ed essendosi poi molto nodrito
degli scrittori italiani, e specialmente di Macchiavelli, si era egli
dato a credere che l'Italia fosse piena di Macchiavelli e di Borgia,
ed aveva continuamente la mente atterrita da immagini di tradimenti, di
fraudi, di congiure, di assassinii, di stiletti e di veleni. Con questi
spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca in cui scoverse,
come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo
ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio
e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere,
si aveva Ginguenè apparecchiato un bello e magnifico discorso, non
considerando che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli
apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia.
Traversate le stanze piene di soldati bene armati e di cortigiani
pomposi, entrava Ginguenè in abito solenne e con una sciabola a
tracollo nella camera d'udienza dove si trovò solo col principe. Stupì
l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del
Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare
il discorso, perchè e le adulazioni ed i rimproveri erano ugualmente,
non chè intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, il recitava
al re.
Al discorso squisitissimo del repubblicano non rispose il re, non
essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio
e della buona salute dell'ambasciatore; poi toccò delle infermità
proprie, e della consolazione che trovava nella moglie, ch'era sorella
di Luigi XVI re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguenè le
parole, disse che ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà
e di virtù. Si allegrava a queste lodi della regina il piemontese
principe, e mettendosi anch'egli sul lodarla, molto affettuosamente
spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei. Poi seguitando
venia dolendosi del mancar di prole: Non ne ho, diceva, ma mi consolo
per la virtuosa donna. Ritiratosi dalla reale udienza l'ambasciator di
Francia, e, sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di
quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta
bontà, semplicità e modestia del sovrano del Piemonte.
Frequentavano la casa dell'ambasciatore di Francia i desiderosi di
novità in Piemonte, i quali, standogli continuamente a' fianchi, gli
rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col
falso sulle condizioni del Piemonte e sulla facilità di operarvi la
rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a' versi delle sue
opinioni, così egli se li credeva molto facilmente. Per la qual cosa
sentiva egli sempre sinistramente del governo, e, volendo tagliarvi i
nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse
il re a licenziare i suoi reggimenti svizzeri, che tuttavia conservava
a suoi soldi.
Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori,
vedendoli volentieri e dando facile ascolto ai rapportamenti loro, e
dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri,
i mali semi producevano in Piemonte frutti a sè medesimi conformi.
Sorgevano in più parti moti pericolosi suscitati da gente audace
con intendimento di rivoltar lo Stato. Il più principale pel numero
e pel luogo ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio dove erano
concorsi oltre un migliaio i fuorusciti piemontesi. Circa due mila
soldati liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica,
ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio
la squadra dei Piemontesi. Capi principali del moto erano uno Spinola,
nobile, Pelisseri e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita ed
intenta a novità. Un Guillaume ed un Colignon franzesi erano con loro.
Nissuno pensi che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicate cose più
immoderate contro i re di quelle che costoro mandarono fuori contro
quel di Sardegna.
Dalle parole passavano ai fatti e con infinita insolenza procedendo,
svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci. Fatti poscia
più audaci dal numero loro che ogni giorno andava crescendo, marciarono
armata mano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente ed
assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornavano con la
peggio. Parecchi altri assalti diedero alla medesima fortezza con
esito ora prospero ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle
frontiere del Piemonte.
Si moltiplicava continuamente il dispiacere che riceveva il re dalle
sommosse democratiche; infatti il prenunzio di romori di verso la
Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani
Piemontesi, non senza intesa del governo cisalpino e del generale
Brune, in Pallanza, sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione
l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse
l'adito facile e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano come
capi principali questo moto Seras, originario del Piemonte, ma ai
soldi di Francia ed aiutante di Brune, ed un Lèotaud franzese, con un
Lions franzese ancor esso, aiutante di Lèotaud. Si scopriva la fortuna
favorevole ai primi loro conati; s'impadronirono della fortezza di
Domodossola; vi trovarono alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro,
e se li menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria.
Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle
valli Valdesi, e già aveva occupato Robbio ed il Villard, ed accennava
a Pinerolo.
Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che
il cuore stesso del Piemonte, che tuttavia perseverava sano, avesse a
fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva se non lontano
ed inabile ad aiutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la
Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina, fomentando
i moti. Pure intendeva all'onore se alla salute più non poteva, e
faceva elezione, giacchè si vedeva giunto alfine, di perire piuttosto
per forza altrui che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a
sì rovinosi accidenti un editto, in cui, mostrando fermezza d'animo
uguale al pericolo, diè a vedere che maggior virtù risplende in chi
serba costanza a difender sè stesso nelle avversità, che in chi assalta
altrui con impeto nelle prosperità.
Non ignorava però il re che la rabbia e la ostinazione delle opinioni
politiche non lasciano luogo alle persuasioni. Laonde, facendo
maggior fondamento sulle armi che sulle parole, aveva mandato sul
lago Maggiore parecchi reggimenti di buona e fedele gente, affinchè
combattessero i novatori dell'alto Novarese, e, ritogliendo dalle loro
mani Domodossola, la restituissero al dominio consueto. Medesimamente
mandava truppe sufficienti contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo
si empiva di soldati per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle
valli dei Valdesi.
Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo in cui la repubblica
di Francia sentirebbe queste piemontesi sommosse; perchè s'ella le
fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva
fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse
qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo
franzese. Gli estremi lamenti che ei faceva sentire della cadente
monarchia piemontese, non erano certo segni di animo doppio e non
sincero; che anzi la sincerità era tale, che non solamente induceva
persuasione nella mente, ma ancora muoveva vivamente il cuore.
Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma
del direttorio; ed al suo dire aggiungeva rimprocci sul modo con cui
il governo piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi
che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze,
del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni.
Concludeva che i moti di sedizione non portavano con sè alcun pericolo,
se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era
da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito
felice alla impresa dei sollevati: chè però esortava preoccupassero il
passo e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo
tutto che si prometteva dalla rivoluzione.
In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguenè, come se
desiderasse torgli non solo la forze, ma ancora la mente ed il
tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di
travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare parte i
comandamenti del direttorio, parte i proprii spaventi. Chiedeva perciò
ed instantemente ricercava Priocca, operasse che il re cacciasse da'
suoi Stati i fuorusciti franzesi, ed ancora proibisse, sotto pena di
morte gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re se
nol facesse, che disperdesse i Barbetti che infestavano le strade ed
assassinavano i Franzesi. Schermivasi Priocca con ottime ragioni, ed
affermava che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto
vigilante a render sicuri i Franzesi in Piemonte, e quello che diceva
anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno che, secondo
gli umori o alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai
democrati che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare
anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Tra
questi è famoso il fatto di un Ricchini, detto per soprannome Contino,
che Ginguenè a nome del direttorio richiese solennemente al re, ed il
re lo satisfece dell'effetto, dandogli incontanente e senza difficoltà
l'uomo accusato d'assassinio di un Franzese.
I terrori di Ginguenè erano anche fomentati dalle esorbitanze dei
democrati più ardenti, i quali, veduto che i Franzesi a tutt'altro
pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler
camminare da sè ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandoli
di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, presa occasione
d'un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri
che si trovavano alle stanze in Torino, si misero a dire le cose più
smodate che uomo immaginarsi possa. Nè contenti alle parole mandarono
attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguenè. Egli
era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente
patriotti ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le
mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i diritti degli uomini
in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno che a loro
voleva opporsi, ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso
tutte le forze dei confederati di Europa, ch'erano accorsi in suo
aiuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti perchè ha trovato
dappertutto uomini che e conoscerono la giustizia della sua causa, e
non esitavano a dichiarirsi per lei contro la tirannide. Si era la
Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti
i popoli e promettendo di aiutar quelli che com'ella portassero odio
ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo
ch'ella si è proposto è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna
stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta
tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra
del trionfo dei despoti. Gli agenti che manda presso a loro per
compiacere al loro orgoglio e per istringere gli empi nodi della loro
amicizia, invece di vestirsi a lutto per la morte degli amici della
libertà, celebrano feste scandalose e bevono nelle medesime coppe dei
tiranni. Il sangue di coloro che amici della libertà si protestano,
scorre a rivi e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della
patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarli. Gli
splendori del trono li rendono spettatori insensibili dell'orribile
ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli
si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la
guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi che l'oro dei
tiranni corrompe! Popoli della terra ascoltate le voci d'un uomo che è
spettatore di tante scelleraggini e che ne pruova un dolore orribile.
Ardete le dichiarazioni fraudolente dei diritti dell'uomo ch'eglino vi
hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce che risplende dal tempio
della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro,
abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non
atterra più troni; essa li difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto
fatto alla tirannia: con una mano opprime i popoli ai quali per suo
proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni che
divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena
bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e
non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni
e ruine.»
Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato e principalmente diretto
contro Ginguenè, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto
la mente inferma, del cammino a cui si andava con questi amatori
della libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse
aspettare. Intanto tutta l'ambasceria di Francia ne era mossa a rumore.
Ginguenè prese contegno con Cicognara; poi ne scriveva al direttorio,
con molta istanza pregandolo operasse efficacemente col direttorio
cisalpino affinchè Cigognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in
ciò andarvi la salute della Francia.
L'ecatombe mentovata nello scritto fu quella della battaglia combattuta
tra Gravellona ed Ornavasso, nella quale prevalendo alla fine i
regi prima perdenti, i repubblicani assaliti di fronte e da tergo e
soprafatti dal numero soprabbondante degli avversarii che su quel punto
si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta, nè fu più
possibile ai capi di rannodarli. Centocinquanta repubblicani perirono
nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento
furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la
battaglia, in poter dei regi. I superstiti furono condotti nel castello
di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue
condannati a morte.
In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi.
Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi che si accagionassero
dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di
essero loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguenè con
instanti parole descritto al suo governo i supplizii dei Piemonte.
Il direttorio, che poteva veramente intromettersi per umanità, amò
meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì 17 maggio
Taleyrand a Ginguenè, che i moti d'Italia, quelli soprattutto ch'erano
sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto
pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva;
che sapeva il direttorio di certa scienza che si era ordita una
congiura col fine di far assassinare tutti i Franzesi in Italia; che
sapeva ugualmente che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in
ogni parte, acciocchè i soccorsi di Franzesi essendo addomandati al
tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione
si indebolissero e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini
di ucciderli. Sapeva finalmente che non contenti al dare compimento
a sì scellerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro che si
credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più
sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti,
faceva Taleyrand sapere a Ginguenè che il direttorio aveva risoluto
di salvare e l'Italia e i Franzesi e gli amici della repubblica dai
mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto che si appresentasse
al governo del re, della orribile cospirazione favellando tanto
evidentemente tramata dalle potenze straniere e nemiche della Francia,
e dimostrasse volere il governo franzese risolutamente ch'ella e
per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere che
prima di tutto offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a
tutti i sollevati sì veramente che le armi deponessero, ed alle case
loro ritornassero; volere che il re adoperasse le sue forze contro i
Barbetti che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti
i mezzi per fare che le strade tra Francia e Italia fossero libere
e sicure. A queste condizioni, e per allontanare il timore che le
repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe
il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete.
Ordinerebbe anzi a Brune che apertamente ed espressamente comandasse
ai sediziosi che disolvessero le bande loro e si ricomponessero nel
riposo. Caso importante ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro
di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizii arbitrarii,
tanti supplizii crudeli contro uomini raguardevoli per virtù e per
dottrina, e che solo parevano essere stati condotti alla ora estrema,
perchè erano amatori della repubblica Franzese, non permettevano
che si proponesse indugio. Se il governo sardo non accettasse le
condizioni offerte, si renderebbe manifesto esser lui, non più vittima,
ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto fingendo di
temerle in palese. Del resto badasse bene Ginguenè a non chiamare mai i
sediziosi patriotti, ma sì sempre amici della Francia.
Fece Ginguenè molto efficacemente il dì 24 di maggio l'ufficio. Vi
aggiunse di per sè parecchie parti. Ma parendo allo ambasciatore che lo
sforzare il re a perdonare ai ribelli e di chiamare amici di Francia
coloro che macchinavano contro il suo Stato, forse anche contro la
sua vita, non bastassero a costituirlo in compiuta servitù, voleva
ed instava presso al direttorio che la Francia doveva avere piena ed
assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva
forzare il re a cambiare i suoi ministri ed a richiamare il conte Balbo
da Parigi affermando essere lui l'agente di tutta la confederazione
d'Europa in quella capitale.
Il governo piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi
minaccie, ordinava il dì 25 di maggio, che si sospendessero sino a
nuovo ordine i processi non dei condannati, e si soprassedesse alle
pene dei Franzesi che si fossero mescolati nelle ribellioni.
Intanto il dì 26 di maggio alle 4 della mattina i fossi di Casale
grondavano sangue. Lèotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions
aiutante di Lèotaud, ambedue franzesi di nascita, ma non di servizio,
con otto altri, parte forastieri, parte Piemontesi, che, per aver
combattuto nella battaglia di Ornavasso erano stati condannati a morte,
soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo piemontese,
per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente
a pensare l'ora insolita dei supplizii e la tardità della staffetta
apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove
ore in Torino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce
fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle ed
accelerato i supplizii affinchè la salute arrivasse quando già morte
spaziava. Levò Ginguenè pe' due Franzesi morti gravissime querele,
minacciò il governo piemontese, scrisse a Parigi, ch'era oggimai
tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso che si faceva, ch'ella
tollerasse le carnificine dei Franzesi e degli amici loro per forza
dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo.
Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria
d'Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più
molesti. Non ignorava il governo piemontese che i moti di Carrosio
avevano più alte radici che quelle dei repubblicani piemontesi, perchè
Brune e Sattin segretamente e palesemente li fomentavano. Tuttavia, non
volendo mancare al debito degli Stati, si era deliberato di mostrar
il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi
contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza
traversare il territorio ligure, aveva rappresentato a quel governo
che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare
pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano per venir ad
invadere il territorio piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di
Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica,
come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio
i nemici di sua maestà che ne abusavano per offenderla, tanto meno
dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o
dissipargli ella medesima o dare alle genti regie quel passaggio stesso
ch'ella dava a' suoi nemici.
Rispose la repubblica che non consentirebbe mai a dare il passo; solo
prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e
di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due
parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani
ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più
condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio ligure
per andar ad assaltare i regi ed intraprendevano le vettovaglie, che
per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e
svaligiavano i corrieri.
Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto,
il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo
Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza
qualche perizia militare. Avvertiane il governo ligure, avvertiane
l'ambasciatore di Francia, avvisando che solo fine della spedizione era
di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo
dominio, di dar quiete a' suoi Stati.
Sentì sdegnosamente l'ambasciatore questa mossa d'armi, e rescrivendo
al ministro Priocca, intimava facesse incontanente, se ancor fosse
tempo, fermar le genti che marciavano contro Carrosio, perciocchè non
fosse possibile di assaltar quella terra senza violare il territorio
ligure, la qual violazione non poteva non portar con sè gravi e
pericolosi accidenti.
Il re, stretto da tanti nemici ed oppresso da chi doveva aiutarlo, non
si perdeva d'animo, volendo che il suo fine fosse se non felice, almeno
generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione
avesse che fare nel dominio della forza. I soldati regi, attraversato
il territorio ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio
e si facevano padroni della terra. Poscia per maggior sicurezza,
munirono di guardie tutte le alture circostanti.
A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano
si risentirono gravemente; le cose che scrissero sono piuttosto
pazze che stravaganti; ma Sottin non si restava alle parole, anzi,
accesamente appresso al direttorio ligure instando, operò di modo
che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nimico della
repubblica e ad intimargli la guerra. Or mentre Sottin spingeva la
repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguenè voleva impedire che
egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca
a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di
questa discordia. Rispondeva il ministro facendo proposizioni che non
dispiacevano all'ambasciatore, il quale mandava il suo secretario a
Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo piemontese,
non aspettate le intenzioni di Brune, volendo o per amare di concordia,
o per timore di Francia gratificare all'ambasciatore, aveva operato
che le truppe si ritirassero da Carrosio e ritornassero nei dominii
piemontesi oltre i confini liguri. Per la ritirata dei regi non
cessavano le ostilità; anzi i Liguri, venuti avanti coi novatori
piemontesi sotto la condotta del generale Siri, s'impadronirono, dopo
violento contrasto della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i
Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti, si erano fatti
signori di Loano.
Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per fare calare il re
a quello che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille
spaventi. Già Ginguenè, parlando con Priocca, aveva tentato per ogni
modo di spaventarlo. Affermava che in ogni parte appariva segni di una
feroce congiura contro i Franzesi in Italia; che già Napoli armava;
che già lo imperatore empiva gli Stati veneti di soldati; che in ogni
parte il fomentavano sedizioni, che in ogni parte con infiammative
predicazioni si stimolavano i popoli contro i Franzesi; che questo
fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era
l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica
Franzese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di
Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato
d'affari d'Inghilterra? ch'essi potevano dar denari al re, dei quali
che uso egli facesse bensì sapeva; che i fuorusciti franzesi, che
le macchinazioni dei preti, che le parzialità dei magistrati, che il
parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Franzesi della gente
in ufficio, non lasciava luogo a dubitare che qualche gran macchina si
ordisse contro la Francia.
A così gravi accuse rispondeva il ministro, non per persuadere
l'ambasciator di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole,
ma per purgare il suo signore delle note che gli si opponevano; e
conchiudeva, che sarebbe stato meglio e più onorevole per la Francia
lo spegnere il governo regio, innocente di tutti i carichi che gli si
davano non con altro fine che con quello di perderlo, di quello sia il
martirizzarlo. Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro
degli affari esteri di Francia a Ginguenè che manifestavano uno sdegno
grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati.
In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguenè venuti alle strette
per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per
contrastavano al direttorio; e i cambiamenti stessi, fatti per forza
di soldatesche, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a
tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra
cosa voleva piuttostochè l'indipendenza loro, e che, dalle parole in
fuori, ch'erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù.
Allora s'accorsero ch'era per loro diventato necessario, seppure liberi
e indipendenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e
por mano essi stessi a quello che per opera dei forastieri non potevano
sperar d'acquistare. Sorse in quel punto specialmente una setta, la
cui sede principale era in Bologna, e che siccome da Bologna, come
da centro, spandeva a guisa di raggi tutto all'intorno negli altri
paesi d'Italia le sue macchinazioni, così fu chiamata Società dei
Raggi. Voleano costoro la libertà e l'indipendenza d'Italia contro e a
dispetto i di tutti, e queste cose vigorosamente tramavano ed i semi ne
spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Franzesi
per le quali tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno
le operazioni di Lahoz, che in progresso si leggeranno, furono, come
immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione.
Passando ora alle cose di Sardegna, il re, serrato da ogni parte dalle
armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della
sua fede verso il direttorio; non che nel più interno dell'animo non
desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami
il suo male, ma vedeva che era del tutto in potestà dell'oppressore
il sovvertire i suoi Stati prima solo che l'Austria il sapesse.
Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene
s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla
repubblica, quantunque altri desiderii avesse. Reggeva il Piemonte il
re Carlo Emmanuele IV, principe religiosissimo e di pacata natura, ma
poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto e sregolato.
In mezzo agli umori che regnavano in Italia per formarne, mutati
gli ordini politici in Piemonte, una sola repubblica, come alcuni
bramavano, o veramente due, dell'una delle quali fosse capo Milano,
dell'altra Roma, era arrivato l'ambasciatore di Francia Ginguenè a
Torino. Era Ginguenè uomo di tutte le virtù, ma molto incapriccito
in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli Stati
repubblicani. Di fantasia vivacissima ed essendosi poi molto nodrito
degli scrittori italiani, e specialmente di Macchiavelli, si era egli
dato a credere che l'Italia fosse piena di Macchiavelli e di Borgia,
ed aveva continuamente la mente atterrita da immagini di tradimenti, di
fraudi, di congiure, di assassinii, di stiletti e di veleni. Con questi
spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca in cui scoverse,
come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo
ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio
e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere,
si aveva Ginguenè apparecchiato un bello e magnifico discorso, non
considerando che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli
apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia.
Traversate le stanze piene di soldati bene armati e di cortigiani
pomposi, entrava Ginguenè in abito solenne e con una sciabola a
tracollo nella camera d'udienza dove si trovò solo col principe. Stupì
l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del
Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare
il discorso, perchè e le adulazioni ed i rimproveri erano ugualmente,
non chè intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, il recitava
al re.
Al discorso squisitissimo del repubblicano non rispose il re, non
essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio
e della buona salute dell'ambasciatore; poi toccò delle infermità
proprie, e della consolazione che trovava nella moglie, ch'era sorella
di Luigi XVI re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguenè le
parole, disse che ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà
e di virtù. Si allegrava a queste lodi della regina il piemontese
principe, e mettendosi anch'egli sul lodarla, molto affettuosamente
spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei. Poi seguitando
venia dolendosi del mancar di prole: Non ne ho, diceva, ma mi consolo
per la virtuosa donna. Ritiratosi dalla reale udienza l'ambasciator di
Francia, e, sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di
quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta
bontà, semplicità e modestia del sovrano del Piemonte.
Frequentavano la casa dell'ambasciatore di Francia i desiderosi di
novità in Piemonte, i quali, standogli continuamente a' fianchi, gli
rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col
falso sulle condizioni del Piemonte e sulla facilità di operarvi la
rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a' versi delle sue
opinioni, così egli se li credeva molto facilmente. Per la qual cosa
sentiva egli sempre sinistramente del governo, e, volendo tagliarvi i
nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse
il re a licenziare i suoi reggimenti svizzeri, che tuttavia conservava
a suoi soldi.
Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori,
vedendoli volentieri e dando facile ascolto ai rapportamenti loro, e
dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri,
i mali semi producevano in Piemonte frutti a sè medesimi conformi.
Sorgevano in più parti moti pericolosi suscitati da gente audace
con intendimento di rivoltar lo Stato. Il più principale pel numero
e pel luogo ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio dove erano
concorsi oltre un migliaio i fuorusciti piemontesi. Circa due mila
soldati liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica,
ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio
la squadra dei Piemontesi. Capi principali del moto erano uno Spinola,
nobile, Pelisseri e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita ed
intenta a novità. Un Guillaume ed un Colignon franzesi erano con loro.
Nissuno pensi che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicate cose più
immoderate contro i re di quelle che costoro mandarono fuori contro
quel di Sardegna.
Dalle parole passavano ai fatti e con infinita insolenza procedendo,
svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci. Fatti poscia
più audaci dal numero loro che ogni giorno andava crescendo, marciarono
armata mano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente ed
assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornavano con la
peggio. Parecchi altri assalti diedero alla medesima fortezza con
esito ora prospero ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle
frontiere del Piemonte.
Si moltiplicava continuamente il dispiacere che riceveva il re dalle
sommosse democratiche; infatti il prenunzio di romori di verso la
Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani
Piemontesi, non senza intesa del governo cisalpino e del generale
Brune, in Pallanza, sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione
l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse
l'adito facile e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano come
capi principali questo moto Seras, originario del Piemonte, ma ai
soldi di Francia ed aiutante di Brune, ed un Lèotaud franzese, con un
Lions franzese ancor esso, aiutante di Lèotaud. Si scopriva la fortuna
favorevole ai primi loro conati; s'impadronirono della fortezza di
Domodossola; vi trovarono alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro,
e se li menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria.
Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle
valli Valdesi, e già aveva occupato Robbio ed il Villard, ed accennava
a Pinerolo.
Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che
il cuore stesso del Piemonte, che tuttavia perseverava sano, avesse a
fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva se non lontano
ed inabile ad aiutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la
Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina, fomentando
i moti. Pure intendeva all'onore se alla salute più non poteva, e
faceva elezione, giacchè si vedeva giunto alfine, di perire piuttosto
per forza altrui che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a
sì rovinosi accidenti un editto, in cui, mostrando fermezza d'animo
uguale al pericolo, diè a vedere che maggior virtù risplende in chi
serba costanza a difender sè stesso nelle avversità, che in chi assalta
altrui con impeto nelle prosperità.
Non ignorava però il re che la rabbia e la ostinazione delle opinioni
politiche non lasciano luogo alle persuasioni. Laonde, facendo
maggior fondamento sulle armi che sulle parole, aveva mandato sul
lago Maggiore parecchi reggimenti di buona e fedele gente, affinchè
combattessero i novatori dell'alto Novarese, e, ritogliendo dalle loro
mani Domodossola, la restituissero al dominio consueto. Medesimamente
mandava truppe sufficienti contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo
si empiva di soldati per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle
valli dei Valdesi.
Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo in cui la repubblica
di Francia sentirebbe queste piemontesi sommosse; perchè s'ella le
fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva
fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse
qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo
franzese. Gli estremi lamenti che ei faceva sentire della cadente
monarchia piemontese, non erano certo segni di animo doppio e non
sincero; che anzi la sincerità era tale, che non solamente induceva
persuasione nella mente, ma ancora muoveva vivamente il cuore.
Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma
del direttorio; ed al suo dire aggiungeva rimprocci sul modo con cui
il governo piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi
che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze,
del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni.
Concludeva che i moti di sedizione non portavano con sè alcun pericolo,
se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era
da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito
felice alla impresa dei sollevati: chè però esortava preoccupassero il
passo e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo
tutto che si prometteva dalla rivoluzione.
In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguenè, come se
desiderasse torgli non solo la forze, ma ancora la mente ed il
tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di
travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare parte i
comandamenti del direttorio, parte i proprii spaventi. Chiedeva perciò
ed instantemente ricercava Priocca, operasse che il re cacciasse da'
suoi Stati i fuorusciti franzesi, ed ancora proibisse, sotto pena di
morte gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re se
nol facesse, che disperdesse i Barbetti che infestavano le strade ed
assassinavano i Franzesi. Schermivasi Priocca con ottime ragioni, ed
affermava che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto
vigilante a render sicuri i Franzesi in Piemonte, e quello che diceva
anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno che, secondo
gli umori o alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai
democrati che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare
anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Tra
questi è famoso il fatto di un Ricchini, detto per soprannome Contino,
che Ginguenè a nome del direttorio richiese solennemente al re, ed il
re lo satisfece dell'effetto, dandogli incontanente e senza difficoltà
l'uomo accusato d'assassinio di un Franzese.
I terrori di Ginguenè erano anche fomentati dalle esorbitanze dei
democrati più ardenti, i quali, veduto che i Franzesi a tutt'altro
pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler
camminare da sè ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandoli
di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, presa occasione
d'un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri
che si trovavano alle stanze in Torino, si misero a dire le cose più
smodate che uomo immaginarsi possa. Nè contenti alle parole mandarono
attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguenè. Egli
era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente
patriotti ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le
mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i diritti degli uomini
in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno che a loro
voleva opporsi, ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso
tutte le forze dei confederati di Europa, ch'erano accorsi in suo
aiuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti perchè ha trovato
dappertutto uomini che e conoscerono la giustizia della sua causa, e
non esitavano a dichiarirsi per lei contro la tirannide. Si era la
Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti
i popoli e promettendo di aiutar quelli che com'ella portassero odio
ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo
ch'ella si è proposto è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna
stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta
tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra
del trionfo dei despoti. Gli agenti che manda presso a loro per
compiacere al loro orgoglio e per istringere gli empi nodi della loro
amicizia, invece di vestirsi a lutto per la morte degli amici della
libertà, celebrano feste scandalose e bevono nelle medesime coppe dei
tiranni. Il sangue di coloro che amici della libertà si protestano,
scorre a rivi e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della
patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarli. Gli
splendori del trono li rendono spettatori insensibili dell'orribile
ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli
si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la
guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi che l'oro dei
tiranni corrompe! Popoli della terra ascoltate le voci d'un uomo che è
spettatore di tante scelleraggini e che ne pruova un dolore orribile.
Ardete le dichiarazioni fraudolente dei diritti dell'uomo ch'eglino vi
hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce che risplende dal tempio
della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro,
abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non
atterra più troni; essa li difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto
fatto alla tirannia: con una mano opprime i popoli ai quali per suo
proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni che
divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena
bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e
non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni
e ruine.»
Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato e principalmente diretto
contro Ginguenè, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto
la mente inferma, del cammino a cui si andava con questi amatori
della libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse
aspettare. Intanto tutta l'ambasceria di Francia ne era mossa a rumore.
Ginguenè prese contegno con Cicognara; poi ne scriveva al direttorio,
con molta istanza pregandolo operasse efficacemente col direttorio
cisalpino affinchè Cigognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in
ciò andarvi la salute della Francia.
L'ecatombe mentovata nello scritto fu quella della battaglia combattuta
tra Gravellona ed Ornavasso, nella quale prevalendo alla fine i
regi prima perdenti, i repubblicani assaliti di fronte e da tergo e
soprafatti dal numero soprabbondante degli avversarii che su quel punto
si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta, nè fu più
possibile ai capi di rannodarli. Centocinquanta repubblicani perirono
nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento
furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la
battaglia, in poter dei regi. I superstiti furono condotti nel castello
di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue
condannati a morte.
In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi.
Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi che si accagionassero
dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di
essero loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguenè con
instanti parole descritto al suo governo i supplizii dei Piemonte.
Il direttorio, che poteva veramente intromettersi per umanità, amò
meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì 17 maggio
Taleyrand a Ginguenè, che i moti d'Italia, quelli soprattutto ch'erano
sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto
pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva;
che sapeva il direttorio di certa scienza che si era ordita una
congiura col fine di far assassinare tutti i Franzesi in Italia; che
sapeva ugualmente che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in
ogni parte, acciocchè i soccorsi di Franzesi essendo addomandati al
tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione
si indebolissero e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini
di ucciderli. Sapeva finalmente che non contenti al dare compimento
a sì scellerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro che si
credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più
sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti,
faceva Taleyrand sapere a Ginguenè che il direttorio aveva risoluto
di salvare e l'Italia e i Franzesi e gli amici della repubblica dai
mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto che si appresentasse
al governo del re, della orribile cospirazione favellando tanto
evidentemente tramata dalle potenze straniere e nemiche della Francia,
e dimostrasse volere il governo franzese risolutamente ch'ella e
per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere che
prima di tutto offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a
tutti i sollevati sì veramente che le armi deponessero, ed alle case
loro ritornassero; volere che il re adoperasse le sue forze contro i
Barbetti che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti
i mezzi per fare che le strade tra Francia e Italia fossero libere
e sicure. A queste condizioni, e per allontanare il timore che le
repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe
il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete.
Ordinerebbe anzi a Brune che apertamente ed espressamente comandasse
ai sediziosi che disolvessero le bande loro e si ricomponessero nel
riposo. Caso importante ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro
di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizii arbitrarii,
tanti supplizii crudeli contro uomini raguardevoli per virtù e per
dottrina, e che solo parevano essere stati condotti alla ora estrema,
perchè erano amatori della repubblica Franzese, non permettevano
che si proponesse indugio. Se il governo sardo non accettasse le
condizioni offerte, si renderebbe manifesto esser lui, non più vittima,
ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto fingendo di
temerle in palese. Del resto badasse bene Ginguenè a non chiamare mai i
sediziosi patriotti, ma sì sempre amici della Francia.
Fece Ginguenè molto efficacemente il dì 24 di maggio l'ufficio. Vi
aggiunse di per sè parecchie parti. Ma parendo allo ambasciatore che lo
sforzare il re a perdonare ai ribelli e di chiamare amici di Francia
coloro che macchinavano contro il suo Stato, forse anche contro la
sua vita, non bastassero a costituirlo in compiuta servitù, voleva
ed instava presso al direttorio che la Francia doveva avere piena ed
assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva
forzare il re a cambiare i suoi ministri ed a richiamare il conte Balbo
da Parigi affermando essere lui l'agente di tutta la confederazione
d'Europa in quella capitale.
Il governo piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi
minaccie, ordinava il dì 25 di maggio, che si sospendessero sino a
nuovo ordine i processi non dei condannati, e si soprassedesse alle
pene dei Franzesi che si fossero mescolati nelle ribellioni.
Intanto il dì 26 di maggio alle 4 della mattina i fossi di Casale
grondavano sangue. Lèotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions
aiutante di Lèotaud, ambedue franzesi di nascita, ma non di servizio,
con otto altri, parte forastieri, parte Piemontesi, che, per aver
combattuto nella battaglia di Ornavasso erano stati condannati a morte,
soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo piemontese,
per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente
a pensare l'ora insolita dei supplizii e la tardità della staffetta
apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove
ore in Torino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce
fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle ed
accelerato i supplizii affinchè la salute arrivasse quando già morte
spaziava. Levò Ginguenè pe' due Franzesi morti gravissime querele,
minacciò il governo piemontese, scrisse a Parigi, ch'era oggimai
tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso che si faceva, ch'ella
tollerasse le carnificine dei Franzesi e degli amici loro per forza
dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo.
Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria
d'Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più
molesti. Non ignorava il governo piemontese che i moti di Carrosio
avevano più alte radici che quelle dei repubblicani piemontesi, perchè
Brune e Sattin segretamente e palesemente li fomentavano. Tuttavia, non
volendo mancare al debito degli Stati, si era deliberato di mostrar
il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi
contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza
traversare il territorio ligure, aveva rappresentato a quel governo
che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare
pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano per venir ad
invadere il territorio piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di
Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica,
come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio
i nemici di sua maestà che ne abusavano per offenderla, tanto meno
dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o
dissipargli ella medesima o dare alle genti regie quel passaggio stesso
ch'ella dava a' suoi nemici.
Rispose la repubblica che non consentirebbe mai a dare il passo; solo
prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e
di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due
parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani
ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più
condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio ligure
per andar ad assaltare i regi ed intraprendevano le vettovaglie, che
per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e
svaligiavano i corrieri.
Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto,
il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo
Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza
qualche perizia militare. Avvertiane il governo ligure, avvertiane
l'ambasciatore di Francia, avvisando che solo fine della spedizione era
di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo
dominio, di dar quiete a' suoi Stati.
Sentì sdegnosamente l'ambasciatore questa mossa d'armi, e rescrivendo
al ministro Priocca, intimava facesse incontanente, se ancor fosse
tempo, fermar le genti che marciavano contro Carrosio, perciocchè non
fosse possibile di assaltar quella terra senza violare il territorio
ligure, la qual violazione non poteva non portar con sè gravi e
pericolosi accidenti.
Il re, stretto da tanti nemici ed oppresso da chi doveva aiutarlo, non
si perdeva d'animo, volendo che il suo fine fosse se non felice, almeno
generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione
avesse che fare nel dominio della forza. I soldati regi, attraversato
il territorio ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio
e si facevano padroni della terra. Poscia per maggior sicurezza,
munirono di guardie tutte le alture circostanti.
A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano
si risentirono gravemente; le cose che scrissero sono piuttosto
pazze che stravaganti; ma Sottin non si restava alle parole, anzi,
accesamente appresso al direttorio ligure instando, operò di modo
che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nimico della
repubblica e ad intimargli la guerra. Or mentre Sottin spingeva la
repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguenè voleva impedire che
egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca
a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di
questa discordia. Rispondeva il ministro facendo proposizioni che non
dispiacevano all'ambasciatore, il quale mandava il suo secretario a
Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo piemontese,
non aspettate le intenzioni di Brune, volendo o per amare di concordia,
o per timore di Francia gratificare all'ambasciatore, aveva operato
che le truppe si ritirassero da Carrosio e ritornassero nei dominii
piemontesi oltre i confini liguri. Per la ritirata dei regi non
cessavano le ostilità; anzi i Liguri, venuti avanti coi novatori
piemontesi sotto la condotta del generale Siri, s'impadronirono, dopo
violento contrasto della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i
Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti, si erano fatti
signori di Loano.
Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per fare calare il re
a quello che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille
spaventi. Già Ginguenè, parlando con Priocca, aveva tentato per ogni
modo di spaventarlo. Affermava che in ogni parte appariva segni di una
feroce congiura contro i Franzesi in Italia; che già Napoli armava;
che già lo imperatore empiva gli Stati veneti di soldati; che in ogni
parte il fomentavano sedizioni, che in ogni parte con infiammative
predicazioni si stimolavano i popoli contro i Franzesi; che questo
fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era
l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica
Franzese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di
Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato
d'affari d'Inghilterra? ch'essi potevano dar denari al re, dei quali
che uso egli facesse bensì sapeva; che i fuorusciti franzesi, che
le macchinazioni dei preti, che le parzialità dei magistrati, che il
parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Franzesi della gente
in ufficio, non lasciava luogo a dubitare che qualche gran macchina si
ordisse contro la Francia.
A così gravi accuse rispondeva il ministro, non per persuadere
l'ambasciator di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole,
ma per purgare il suo signore delle note che gli si opponevano; e
conchiudeva, che sarebbe stato meglio e più onorevole per la Francia
lo spegnere il governo regio, innocente di tutti i carichi che gli si
davano non con altro fine che con quello di perderlo, di quello sia il
martirizzarlo. Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro
degli affari esteri di Francia a Ginguenè che manifestavano uno sdegno
grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati.
In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguenè venuti alle strette
per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per
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