Annali d'Italia, vol. 8 - 56
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governo. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio
l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo e
d'animo non minore della sua perizia; ed aveva contro il viceammiraglio
Nelson. Azzuffaronsi, combatterono ferocemente, peritissimamente si
mossero. Era lo spettacolo orrendo; i Franzesi, che si trovavano in
terraferma, ansii del fine, che tanto grave era per la patria loro,
ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così
la specola e le torri d'Alessandria, così i terrazzi e le logge di
Rosetta, e la torre di Abul-Maradu, distante un tiro di cannone
da questa città erano piene di repubblicani, paventosi a quello
che vedevano ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si
erano sparsi sul lido, condutti parte dalla contentezza di vedere i
repubblicani, cui molto odiavano in sì grave pericolo, parte dalla
speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a
terra. Pareva che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo
già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierie;
ma s'era fatto notte e la scena fu piena di ancor maggiore spavento.
Prevalse la fortuna inglese.
Dei Franzesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e
prigionieri circa otto mila, fra i quali i morti sommarono a quindici
centinaia. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio inglese,
sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambii,
liberati e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti
ed uccisi circa novecento soldati, fra quali molto desiderarono
un Wescott, capitano della nave il Maestoso. Dall'esito di questa
battaglia nacquero altre sorti in Europa.
La rivoluzione di Roma e la presa di Malta, per cui i repubblicani si
erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli,
avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di
Francia avesse fatto pensieri sinistri anche su quella estrema parte
di Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e
di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova,
Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello Stato
romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo avea
timore che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa
contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per
vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto e qual
effetto partorirebbe sui principi d'Europa e sul governo ottomano,
aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido
in Francia, per rendere il re persuaso che l'amicizia della Francia
verso di lui era sincera e cordiale. Ma il patto stesso era contrario
alle parole, perchè, sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura,
aveva, ciò non ostante, molto capriccio sulle rivoluzioni di quei
tempi, parendogli che all'ultimo avessero a produrre qualche gran
benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare per
cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, e Garat mente
meno illusa, avrebbero dovuto quello non dare, questo non accettare
il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene
che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro
lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo
Stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione
di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di
filosofia, di umanità; favellava per verità molto tersamente, siccome
accademico. E sì solenne e squisito parlare teneva l'ambasciatore Garat
ad un re che, secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che
di pesca, di caccia e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di
queste squisitezze accademiche, stava come attonito e non sapeva come
uscirgli di sotto.
Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il
9 di maggio, l'ambasciatore a complire e con la regina, favellandole
dei desiderii di pace del direttorio, dei pensieri buoni e delle virtù
di Giuseppe e di Leopoldo suoi fratelli, come se le riforme fatte
nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli
ammaestramenti pieni di umanità e di dolcezza dati alle genti dai
filosofi franzesi che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di
Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di
Francia a quel tempo.
Queste cose sapeva e queste sentiva Garat, poichè niuno più di lui
ebbe i desiderii volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè
forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide,
migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in
un deserto, che comparire qual messo di tiranni. Intanto si passava
dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda;
perchè contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati,
nissuna voleva pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per
correre all'armi, nè il direttorio voleva lasciare quelle napolitane
prede, nè il re di Napoli poteva tollerare che la democrazia sfrenata
romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio che il re si era
molto sdegnato, dappoichè Berthier e l'incaricato d'affari a Napoli
l'avevano richiesto con insolente imperio che cacciasse da' suoi regni
tutti i fuorusciti corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo
ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo che volevano
occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re
feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa,
il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora
dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte,
solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio,
volendo mitigare la amarezza e lo sdegno concetto da Ferdinando per
le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciare
la cosa. Perlocchè si venne ad un accordo pel quale si stipulò, che i
Franzesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini napolitani,
che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che
Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in
mano del re; ma il re non si fidando dalle dimostrazioni d'amicizia
più sforzate che spontanee di coloro che contro la fede data o
conquistavano per forza o sovvertivano per inganno, aveva con ogni
più efficace modo armato il suo reame. E le sue provvisioni recate
ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero
il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il
dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il
governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto
certi dazii, e perfino raccolto le argenterie delle chiese non del
tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si
avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierie si era mandato
a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque
poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio che
i soldati napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero,
sembravano piuttosto gabellieri o frodatori che buoni soldati, non se
ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia
de' suoi migliori soldati e del suo miglior capitano, e non sapendo a
qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava
minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere
intenzioni del re o che credesse intimorirlo, gl'intimava, non senza le
solite parole superbe, che disarmasse e riducesse l'esercito allo stato
di pace. Dispiacquero e la domanda e la forma di lei; se ne dolse il
napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat.
Aggiunse ch'egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse e
stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciatore.
Il direttorio, che non era ancor ben sicuro delle cose di Egitto e
d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe Saint-Michel,
con mandato che temporeggiasse ed accarezzasse; poi, quando fosse
venuto il tempo, fortemente insistesse perchè Napoli cessasse da ogni
preparamento ostile e si rimettesse nuovamente nella condizione di
pace. Dal canto suo il re che non vedeva fra tante cupidigie e tante
fraudi altra salute per lui che l'armi, non solo non cessava da loro,
ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle
di Egitto, tanto più volentieri e più pertinacemente si risolveva,
quanto più non gli era ignoto che la Francia era contro di lui molto
sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama
della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Abukir. Ferdinando stesso
era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne
a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia: ed il condusse
al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che
non cessava di gridare: _Viva Nelson! Viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece
copia, a racconcio delle navi, delle sue armerie ed arsenali.
In questo mezzo tempo le macchinazioni inglesi avevano sortito
l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi
avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni
delle corti europee presso al Divano avevano per modo operato, che la
Porta Ottomana si era scoperta nemica della Francia e le aveva intimato
la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di
tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la
Francia. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore avea fondato,
cessato il terrore si accostava alla sua ruina.
Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre
a questo che tutte le genti franzesi che allora erano in Italia
raccolte insieme non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che
i repubblicani già inferiori di numero erano dispersi qua e là ne'
presidii della Cisalpina, dello Stato veneto, del Piemonte e della
Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter
far la guerra da sè con frutto contro la Francia, senza aspettare il
tempo in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria
e la Russia, avrebbero potuto venire in soccorso. A ciò vieppiù il
confortavano e le flotte confederate della Russia e della Turchia, che
venivano contro gli occupatori delle isole veneziane, e la presenza
di Nelson, incitatore e sperato coadiutore alla guerra, e Malta
ribellatasi dai Franzesi, e la cupidigia di aver Fermo con alcune altre
terre della Marca, e la speranza d'aversi a liberare dalle pretese
della santa Sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma.
Il re, risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Franzesi quello
a che sapeva ch'ei non potevano consentire, e questo fu sgombrassero da
tutti gli Stati pontificii, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva
ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e
l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni
stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il
direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente
colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente di non poter
consentire alle domande, giudicando benissimo che l'inchinarsi a tali
condizioni era peggio di perdere tre battaglie campali. Per la qual
cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto
ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi
sdegnato per la occupazione dello Stato Romano e di Malta, bandiva al
mondo aver preso le armi per allontanare da' suoi dominii ogni danno
e pericolo, per restituire il patrimonio della Chiesa al suo vero e
legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi
l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non
volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla
sicurezza ed all'onore della religione.
Dalle parole trapassava tosto ai fatti; partito l'esercito in
tre parti, marciava alla volta delle romane terre. Era venuto per
consigliare il re nelle faccende di guerra il generale austriaco Mack,
mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Aveva egli in tale
modo ordinato l'assalto dei nemici, che la più grossa schiera condotta
da lui medesimo avendo con sè il principe ereditario di Napoli, per
la strada degli Abruzzi se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si
mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di
una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era
stata rimandata a rinforzare Corfù minacciata dalle armi ottomane
e russe. Era suo intento che questa schiera tagliasse il ritorno
ai Franzesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata
dal re, che aveva con sè per moderatore Colli, aveva carico di far
impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo del
re Ferdinando. Ma pensiero di colui che aveva ordinata tutta questa
macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Franzesi
per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i
comandamenti del generale Naselli; la parte più grossa di lei posta
su navi inglesi e portoghesi governate da Nelson, s'incamminava ad
occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti
che accennavano a Roma, si era dato opera che la minor parte che
obbediva al conte Ruggero di Damas, fuoruscito franzese, radendo i
lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della
Toscana che portano il nome di Presidii. Per tal modo ordinato il
disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani
del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle
parti, aveva con sè poche genti; nè certamente bastevoli a far fronte
a tanta moltitudine, se i soldati napolitani fossero stati pari a'
suoi per perizia e per valore; conciossiacchè non avesse con lui che
cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni,
due compagnie artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila
soldati. Erano per verità alcuni reggimenti italiani, ma ei aveva sopra
di loro poco fondamento.
Il dì 23 novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la
schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane
che le si pararono avanti, si avvicinava a Terni. Mandava Championnet
domandando a Mack qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra
contro Francia. Rispondeva questi con troppo maggior alterigia che
se gli convenisse. Replicava modestamente Championnet. Intanto non
vedendosi, pel picciol numero de' soldati sparsi in luoghi lontani,
pari al resistere a tanta piena nè a custodire tanta larghezza di
paese, raccoglieva i suoi e li mandava a far capo grosso a Civita
Castellana. Ma, udendo che i Napolitani erano stati ricevuti in
Livorno, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero
di Damas arrivava sui confini fra lo Stato ecclesiastico e la Toscana,
soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente e non senza grossa
strage de' regi combattuto dal generale Lemoyne, s'era impadronito di
Fermo e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in
su per le vie del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia,
perchè temeva che il generale napolitano gli tagliasse le strade
dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della
Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti e vi
trasferiva anche il governo romano che aveva abbandonato per la forza
di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda
de' regi. Trovarono qualche aderenza di popolo nello Stato pontificio,
come era accaduto a Viterbo ed a Civitavecchia; ma generalmente poco si
muovevano; anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono
virilmente in favor de' Franzesi e diedero loro campo di ridursi a
salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì 29 di novembre,
il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano
i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita
rapidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità che
dall'amore, gli fece feste e rallegramenti d'ogni sorta: le romane e le
napoletane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Ma non
andò gran pezza che si accorsero come avessero cambiato di signore e
non di servitù. Si incominciava intanto a trascorrere in vituperii, ed
in fatti peggiori de' vituperii, contro coloro che avevano seguitato
il governo nuovo, chiamandoli il popolo atei e giacobini. I vituperii
poi ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili
casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i giacobini per
odio pubblico, i non giacobini per odii privati. S'incominciava a
far sangue e a demolir case. S'interpose Ferdinando e fe' cessare i
tumulti. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed
autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli,
il marchese Massimi ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il
romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il
prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.
Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i
Napolitani che i Franzesi. Portarono le logge del Vaticano dipinte da
Raffaello, risparmiate ed anche rispettate dai Franzesi, lungo tempo
le vestigia della barbarie delle soldatesche napolitane. Nè i quadri
si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti fuggiti alla rapacità
degli agenti del direttorio. Da tale enormità nacque che il popolo
cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti dei partigiani
del papa diventavano partigiani franzesi. Tali erano le opere
napolitane in Roma, ma poco durarono, perchè era fatale che in quella
nobile e sventurata Roma un dominio insolente in brevissimo giro di
tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti vedremo
in progresso.
Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria
ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza,
condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano,
perchè quella comporta per sè ogni cosa, questa dovrebbe avere
moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì 29 di marzo, per forza
dall'ambasciatore ordinario Visconti, volontieri dall'ambasciatore
straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche
Franzese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che
la repubblica Franzese riconosceva come potenza libera ed indipendente
la Cisalpina e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza e
l'abolizione di ogni governo anteriore a quello che attualmente la
reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi
fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse così per le difese come per
le offese a favore della Francia; che la Cisalpina, avendo domandato
alla Franzese un corpo che fosse bastante a conservare la sua libertà,
indipendenza e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da
parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, la
Francia manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non
fosse altrimenti convenuto ventidue mila fanti, due mila cinquecento
cavalli, cinquecento artiglieri sì a piè che a cavallo, e che la
Cisalpina pagasse alla Franzese ogni anno dieciotto milioni di franchi;
che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina,
ai generali franzesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quegli a cui
pareva che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che
alleanza ed indipendenza, non li voleva consentire. Ma ebbe ad udire
dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica
Franzese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla se
volesse. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse
il trattato.
Arrivato questo accordo in Cisalpina vi sorse uno sdegno grandissimo:
i consigli legislativi nol volevano ratificare. Tuttavia promesse
e minaccie operavano in modo che i consigli ratificarono, non
senza però molti discorsi contrarii e molta discordia. Gli amatori
dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella
repubblica. Si aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi e
nove dei consigli legislativi che più degli altri si erano versati al
trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia.
Di più si fe' dire e stampare che fossero fautori dell'Austria e
nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire ch'è dubbio
se sieno o più ridicole o più false. Ma la persecuzione non si rimase
alle parole, perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si
conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.
In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina, mandato dal
direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvè, giovane di
spirito e che faceva professione di amare la libertà.
Si sollevavano gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta
un ministro di Francia presso quello Stato nuovo, ed ognuno si stava
ansiosamente aspettando che cosa portasse. Fu l'ingresso di Trouvè
al direttorio cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della
Francia magnificamente, della Cisalpina amorosamente. Rispondeva
all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorii e lingua italiana
sucidissima il presidente del direttorio Constabili; il linguaggio
stesso disvelava la debolezza degli animi la servitù dello Stato.
Scriveva sulle prime, cioè il dì 30 maggio, Trouvè a Birago, ministro
degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che
il governo cisalpino facesse rivoluzioni rigorose contro i fuorusciti
franzesi che si erano ricoverati nel territorio cisalpino; rispose
il cisalpino ministro all'ambasciatore di Francia, che il direttorio
cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali,
come li qualificava per consuonare alle frasi del ministro franzese,
contaminati ed ipocriti.
Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciatore nella sua mente
e per sè e per comandamento di chi il mandava. Tra per l'opposizione
tanto gagliarda che era sorta nei consigli contro il trattato
d'alleanza, e per la condotta che tenevano i libertini sinceri,
operando che l'odio contro i Franzesi moltiplicasse ogni giorno,
divenne certo pel direttorio che se non domava quei partigiani tanto
risentiti di libertà e d'indipendenza, la sua superiorità in Cisalpina
sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Parve adunque che fosse
arrivato il tempo per la Francia di aggravar la mano e di porre il
freno, perchè per la pace fatta con l'imperadore d'Austria essendo
passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava
che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si
appartenesse di farsene un appoggio introducendosi un vivere più quieto
e che più piacesse ai più ricchi e notabili cittadini. Per la qual cosa
Trouvè fece in casa sua un'adunanza segreta in cui si esaminarono i
cambiamenti da farsi nella costituzione cisalpina. Era il progetto di
ridurla a forma più aristocratica con diminuire il numero dei consigli,
e così ancora quello dei dipartimenti e dei magistrati distrettuali. Si
voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza
ragione osservato, che egli si trovava nella costituzione molto impari
ai due consigli e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare
la libertà della stampa e serrare i ritrovi politici, per la quale e
pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i
cattivi peggiori per l'impeto.
Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi
rappresentante, che, chiamato alle congreghe segrete nè approvandole,
aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il rumore fu
grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle
gazzette non ancora frenate, erano in gran numero. Grande impressione
massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto
di Marco Ferri, fu composta, data segretamente alle stampe e sparsa
copiosamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane piacentino,
che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave
e forte orazione era questa; sì che sentendo molto gravemente Trouvè
il fatto, condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole
aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere,
come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gii fu risposto
non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di
fuori; cercherebbero, farebbero, non si dubitasse; ma se la passarono
con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto
dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il
direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio
espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per
rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari e faceva
professione di amatore ardente di libertà.
Tutto fu indarno; Trouvè, al quale il direttorio portava molta
affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte del
30 agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano
la metà di tutti: leggeva la nuova costituzione e le nuove leggi. Le
approvarono, chi per amore e chi per forza, perchè aveva intimato loro
che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e
che se non l'accettasse di buon grado, lo avrebbe eseguita per forza.
Non ostante alcuni ricusarono e sdegnati si ritirarono. Il giorno
seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano
la sede dei consigli, ributtavano con le baionette i rappresentanti
non eletti dalla riforma, cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi;
si surrogavano Sopransi e Luosi; i rappresentanti renitenti scacciati
dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, capi degli altri, posti in
carcere. La forza predominava. Fece Trouvè la nuova costituzione e
finalmente dichiarò, parendogli di aver operato abbastanza e bene
solidato l'imperio franzesein Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità
legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli
ordini della Cisalpina, buona in sè, viziosa pel modo. Ed ecco una
scena; una gran turba seguitava Ranza gridando: «Che vuol Ranza, che
scartafaccio è quello?» Lo scartafaccio era la costituzione disfatta
da Touvè, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del
Lazzaretto.
Brune, ch'era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio
che lo voleva mitigare, richiamava Trouvè, dandogli scambio con
Fouchè. Le assemblee popolari che chiamavano i comizii, accettavano
la costituzione di Trouvè. I democrati non se ne potevano dar pace,
ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza; la forza
forestiera reggeva lo Stato. Non piacquero al direttorio nè Fouchè
ne Brune. Mandava a Milano Jubert, invece di Brune, Rivaud invece
di Fouchè, strano inviluppo di uomini e di leggi tante volte mutate
in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza e la forza col
capriccio. Non si mescolava Jubert, uomo generoso e magnanimo,
nelle riforme. Ricominciava Rivaud l'opera di Trouvè. La notte del
7 dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava
deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina
le baionette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da
Brune, rimettevano in carica il direttorio Adelasio, Luosi e Sopranzi
cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti; frenata la stampa, serrati
i ritrovi; minacciaronsi i fuorusciti napolitani di espulsione, i
democrati cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue e gli
scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo
volevano ammazzare, e dipingevano nei loro scritti contro di lui non
sapresti che coltello di Bruto; ma non fu nulla. In questa guisa la
Cisalpina, tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati
la prepotenza delle soldatesche forastiere, il timore di tutti, se ne
stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria.
Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento
levarono un grandissimo romore in Francia coloro che, o sedendo
l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo e
d'animo non minore della sua perizia; ed aveva contro il viceammiraglio
Nelson. Azzuffaronsi, combatterono ferocemente, peritissimamente si
mossero. Era lo spettacolo orrendo; i Franzesi, che si trovavano in
terraferma, ansii del fine, che tanto grave era per la patria loro,
ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così
la specola e le torri d'Alessandria, così i terrazzi e le logge di
Rosetta, e la torre di Abul-Maradu, distante un tiro di cannone
da questa città erano piene di repubblicani, paventosi a quello
che vedevano ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si
erano sparsi sul lido, condutti parte dalla contentezza di vedere i
repubblicani, cui molto odiavano in sì grave pericolo, parte dalla
speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a
terra. Pareva che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo
già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierie;
ma s'era fatto notte e la scena fu piena di ancor maggiore spavento.
Prevalse la fortuna inglese.
Dei Franzesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e
prigionieri circa otto mila, fra i quali i morti sommarono a quindici
centinaia. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio inglese,
sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambii,
liberati e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti
ed uccisi circa novecento soldati, fra quali molto desiderarono
un Wescott, capitano della nave il Maestoso. Dall'esito di questa
battaglia nacquero altre sorti in Europa.
La rivoluzione di Roma e la presa di Malta, per cui i repubblicani si
erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli,
avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di
Francia avesse fatto pensieri sinistri anche su quella estrema parte
di Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e
di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova,
Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello Stato
romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo avea
timore che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa
contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per
vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto e qual
effetto partorirebbe sui principi d'Europa e sul governo ottomano,
aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido
in Francia, per rendere il re persuaso che l'amicizia della Francia
verso di lui era sincera e cordiale. Ma il patto stesso era contrario
alle parole, perchè, sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura,
aveva, ciò non ostante, molto capriccio sulle rivoluzioni di quei
tempi, parendogli che all'ultimo avessero a produrre qualche gran
benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare per
cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, e Garat mente
meno illusa, avrebbero dovuto quello non dare, questo non accettare
il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene
che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro
lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo
Stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione
di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di
filosofia, di umanità; favellava per verità molto tersamente, siccome
accademico. E sì solenne e squisito parlare teneva l'ambasciatore Garat
ad un re che, secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che
di pesca, di caccia e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di
queste squisitezze accademiche, stava come attonito e non sapeva come
uscirgli di sotto.
Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il
9 di maggio, l'ambasciatore a complire e con la regina, favellandole
dei desiderii di pace del direttorio, dei pensieri buoni e delle virtù
di Giuseppe e di Leopoldo suoi fratelli, come se le riforme fatte
nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli
ammaestramenti pieni di umanità e di dolcezza dati alle genti dai
filosofi franzesi che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di
Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di
Francia a quel tempo.
Queste cose sapeva e queste sentiva Garat, poichè niuno più di lui
ebbe i desiderii volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè
forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide,
migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in
un deserto, che comparire qual messo di tiranni. Intanto si passava
dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda;
perchè contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati,
nissuna voleva pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per
correre all'armi, nè il direttorio voleva lasciare quelle napolitane
prede, nè il re di Napoli poteva tollerare che la democrazia sfrenata
romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio che il re si era
molto sdegnato, dappoichè Berthier e l'incaricato d'affari a Napoli
l'avevano richiesto con insolente imperio che cacciasse da' suoi regni
tutti i fuorusciti corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo
ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo che volevano
occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re
feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa,
il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora
dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte,
solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio,
volendo mitigare la amarezza e lo sdegno concetto da Ferdinando per
le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciare
la cosa. Perlocchè si venne ad un accordo pel quale si stipulò, che i
Franzesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini napolitani,
che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che
Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in
mano del re; ma il re non si fidando dalle dimostrazioni d'amicizia
più sforzate che spontanee di coloro che contro la fede data o
conquistavano per forza o sovvertivano per inganno, aveva con ogni
più efficace modo armato il suo reame. E le sue provvisioni recate
ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero
il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il
dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il
governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto
certi dazii, e perfino raccolto le argenterie delle chiese non del
tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si
avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierie si era mandato
a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque
poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio che
i soldati napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero,
sembravano piuttosto gabellieri o frodatori che buoni soldati, non se
ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia
de' suoi migliori soldati e del suo miglior capitano, e non sapendo a
qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava
minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere
intenzioni del re o che credesse intimorirlo, gl'intimava, non senza le
solite parole superbe, che disarmasse e riducesse l'esercito allo stato
di pace. Dispiacquero e la domanda e la forma di lei; se ne dolse il
napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat.
Aggiunse ch'egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse e
stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciatore.
Il direttorio, che non era ancor ben sicuro delle cose di Egitto e
d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe Saint-Michel,
con mandato che temporeggiasse ed accarezzasse; poi, quando fosse
venuto il tempo, fortemente insistesse perchè Napoli cessasse da ogni
preparamento ostile e si rimettesse nuovamente nella condizione di
pace. Dal canto suo il re che non vedeva fra tante cupidigie e tante
fraudi altra salute per lui che l'armi, non solo non cessava da loro,
ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle
di Egitto, tanto più volentieri e più pertinacemente si risolveva,
quanto più non gli era ignoto che la Francia era contro di lui molto
sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama
della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Abukir. Ferdinando stesso
era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne
a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia: ed il condusse
al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che
non cessava di gridare: _Viva Nelson! Viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece
copia, a racconcio delle navi, delle sue armerie ed arsenali.
In questo mezzo tempo le macchinazioni inglesi avevano sortito
l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi
avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni
delle corti europee presso al Divano avevano per modo operato, che la
Porta Ottomana si era scoperta nemica della Francia e le aveva intimato
la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di
tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la
Francia. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore avea fondato,
cessato il terrore si accostava alla sua ruina.
Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre
a questo che tutte le genti franzesi che allora erano in Italia
raccolte insieme non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che
i repubblicani già inferiori di numero erano dispersi qua e là ne'
presidii della Cisalpina, dello Stato veneto, del Piemonte e della
Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter
far la guerra da sè con frutto contro la Francia, senza aspettare il
tempo in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria
e la Russia, avrebbero potuto venire in soccorso. A ciò vieppiù il
confortavano e le flotte confederate della Russia e della Turchia, che
venivano contro gli occupatori delle isole veneziane, e la presenza
di Nelson, incitatore e sperato coadiutore alla guerra, e Malta
ribellatasi dai Franzesi, e la cupidigia di aver Fermo con alcune altre
terre della Marca, e la speranza d'aversi a liberare dalle pretese
della santa Sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma.
Il re, risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Franzesi quello
a che sapeva ch'ei non potevano consentire, e questo fu sgombrassero da
tutti gli Stati pontificii, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva
ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e
l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni
stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il
direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente
colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente di non poter
consentire alle domande, giudicando benissimo che l'inchinarsi a tali
condizioni era peggio di perdere tre battaglie campali. Per la qual
cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto
ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi
sdegnato per la occupazione dello Stato Romano e di Malta, bandiva al
mondo aver preso le armi per allontanare da' suoi dominii ogni danno
e pericolo, per restituire il patrimonio della Chiesa al suo vero e
legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi
l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non
volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla
sicurezza ed all'onore della religione.
Dalle parole trapassava tosto ai fatti; partito l'esercito in
tre parti, marciava alla volta delle romane terre. Era venuto per
consigliare il re nelle faccende di guerra il generale austriaco Mack,
mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Aveva egli in tale
modo ordinato l'assalto dei nemici, che la più grossa schiera condotta
da lui medesimo avendo con sè il principe ereditario di Napoli, per
la strada degli Abruzzi se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si
mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di
una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era
stata rimandata a rinforzare Corfù minacciata dalle armi ottomane
e russe. Era suo intento che questa schiera tagliasse il ritorno
ai Franzesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata
dal re, che aveva con sè per moderatore Colli, aveva carico di far
impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo del
re Ferdinando. Ma pensiero di colui che aveva ordinata tutta questa
macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Franzesi
per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i
comandamenti del generale Naselli; la parte più grossa di lei posta
su navi inglesi e portoghesi governate da Nelson, s'incamminava ad
occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti
che accennavano a Roma, si era dato opera che la minor parte che
obbediva al conte Ruggero di Damas, fuoruscito franzese, radendo i
lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della
Toscana che portano il nome di Presidii. Per tal modo ordinato il
disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani
del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle
parti, aveva con sè poche genti; nè certamente bastevoli a far fronte
a tanta moltitudine, se i soldati napolitani fossero stati pari a'
suoi per perizia e per valore; conciossiacchè non avesse con lui che
cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni,
due compagnie artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila
soldati. Erano per verità alcuni reggimenti italiani, ma ei aveva sopra
di loro poco fondamento.
Il dì 23 novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la
schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane
che le si pararono avanti, si avvicinava a Terni. Mandava Championnet
domandando a Mack qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra
contro Francia. Rispondeva questi con troppo maggior alterigia che
se gli convenisse. Replicava modestamente Championnet. Intanto non
vedendosi, pel picciol numero de' soldati sparsi in luoghi lontani,
pari al resistere a tanta piena nè a custodire tanta larghezza di
paese, raccoglieva i suoi e li mandava a far capo grosso a Civita
Castellana. Ma, udendo che i Napolitani erano stati ricevuti in
Livorno, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero
di Damas arrivava sui confini fra lo Stato ecclesiastico e la Toscana,
soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente e non senza grossa
strage de' regi combattuto dal generale Lemoyne, s'era impadronito di
Fermo e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in
su per le vie del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia,
perchè temeva che il generale napolitano gli tagliasse le strade
dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della
Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti e vi
trasferiva anche il governo romano che aveva abbandonato per la forza
di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda
de' regi. Trovarono qualche aderenza di popolo nello Stato pontificio,
come era accaduto a Viterbo ed a Civitavecchia; ma generalmente poco si
muovevano; anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono
virilmente in favor de' Franzesi e diedero loro campo di ridursi a
salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì 29 di novembre,
il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano
i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita
rapidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità che
dall'amore, gli fece feste e rallegramenti d'ogni sorta: le romane e le
napoletane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Ma non
andò gran pezza che si accorsero come avessero cambiato di signore e
non di servitù. Si incominciava intanto a trascorrere in vituperii, ed
in fatti peggiori de' vituperii, contro coloro che avevano seguitato
il governo nuovo, chiamandoli il popolo atei e giacobini. I vituperii
poi ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili
casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i giacobini per
odio pubblico, i non giacobini per odii privati. S'incominciava a
far sangue e a demolir case. S'interpose Ferdinando e fe' cessare i
tumulti. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed
autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli,
il marchese Massimi ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il
romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il
prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.
Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i
Napolitani che i Franzesi. Portarono le logge del Vaticano dipinte da
Raffaello, risparmiate ed anche rispettate dai Franzesi, lungo tempo
le vestigia della barbarie delle soldatesche napolitane. Nè i quadri
si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti fuggiti alla rapacità
degli agenti del direttorio. Da tale enormità nacque che il popolo
cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti dei partigiani
del papa diventavano partigiani franzesi. Tali erano le opere
napolitane in Roma, ma poco durarono, perchè era fatale che in quella
nobile e sventurata Roma un dominio insolente in brevissimo giro di
tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti vedremo
in progresso.
Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria
ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza,
condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano,
perchè quella comporta per sè ogni cosa, questa dovrebbe avere
moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì 29 di marzo, per forza
dall'ambasciatore ordinario Visconti, volontieri dall'ambasciatore
straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche
Franzese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che
la repubblica Franzese riconosceva come potenza libera ed indipendente
la Cisalpina e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza e
l'abolizione di ogni governo anteriore a quello che attualmente la
reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi
fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse così per le difese come per
le offese a favore della Francia; che la Cisalpina, avendo domandato
alla Franzese un corpo che fosse bastante a conservare la sua libertà,
indipendenza e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da
parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, la
Francia manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non
fosse altrimenti convenuto ventidue mila fanti, due mila cinquecento
cavalli, cinquecento artiglieri sì a piè che a cavallo, e che la
Cisalpina pagasse alla Franzese ogni anno dieciotto milioni di franchi;
che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina,
ai generali franzesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quegli a cui
pareva che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che
alleanza ed indipendenza, non li voleva consentire. Ma ebbe ad udire
dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica
Franzese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla se
volesse. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse
il trattato.
Arrivato questo accordo in Cisalpina vi sorse uno sdegno grandissimo:
i consigli legislativi nol volevano ratificare. Tuttavia promesse
e minaccie operavano in modo che i consigli ratificarono, non
senza però molti discorsi contrarii e molta discordia. Gli amatori
dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella
repubblica. Si aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi e
nove dei consigli legislativi che più degli altri si erano versati al
trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia.
Di più si fe' dire e stampare che fossero fautori dell'Austria e
nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire ch'è dubbio
se sieno o più ridicole o più false. Ma la persecuzione non si rimase
alle parole, perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si
conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.
In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina, mandato dal
direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvè, giovane di
spirito e che faceva professione di amare la libertà.
Si sollevavano gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta
un ministro di Francia presso quello Stato nuovo, ed ognuno si stava
ansiosamente aspettando che cosa portasse. Fu l'ingresso di Trouvè
al direttorio cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della
Francia magnificamente, della Cisalpina amorosamente. Rispondeva
all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorii e lingua italiana
sucidissima il presidente del direttorio Constabili; il linguaggio
stesso disvelava la debolezza degli animi la servitù dello Stato.
Scriveva sulle prime, cioè il dì 30 maggio, Trouvè a Birago, ministro
degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che
il governo cisalpino facesse rivoluzioni rigorose contro i fuorusciti
franzesi che si erano ricoverati nel territorio cisalpino; rispose
il cisalpino ministro all'ambasciatore di Francia, che il direttorio
cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali,
come li qualificava per consuonare alle frasi del ministro franzese,
contaminati ed ipocriti.
Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciatore nella sua mente
e per sè e per comandamento di chi il mandava. Tra per l'opposizione
tanto gagliarda che era sorta nei consigli contro il trattato
d'alleanza, e per la condotta che tenevano i libertini sinceri,
operando che l'odio contro i Franzesi moltiplicasse ogni giorno,
divenne certo pel direttorio che se non domava quei partigiani tanto
risentiti di libertà e d'indipendenza, la sua superiorità in Cisalpina
sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Parve adunque che fosse
arrivato il tempo per la Francia di aggravar la mano e di porre il
freno, perchè per la pace fatta con l'imperadore d'Austria essendo
passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava
che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si
appartenesse di farsene un appoggio introducendosi un vivere più quieto
e che più piacesse ai più ricchi e notabili cittadini. Per la qual cosa
Trouvè fece in casa sua un'adunanza segreta in cui si esaminarono i
cambiamenti da farsi nella costituzione cisalpina. Era il progetto di
ridurla a forma più aristocratica con diminuire il numero dei consigli,
e così ancora quello dei dipartimenti e dei magistrati distrettuali. Si
voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza
ragione osservato, che egli si trovava nella costituzione molto impari
ai due consigli e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare
la libertà della stampa e serrare i ritrovi politici, per la quale e
pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i
cattivi peggiori per l'impeto.
Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi
rappresentante, che, chiamato alle congreghe segrete nè approvandole,
aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il rumore fu
grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle
gazzette non ancora frenate, erano in gran numero. Grande impressione
massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto
di Marco Ferri, fu composta, data segretamente alle stampe e sparsa
copiosamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane piacentino,
che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave
e forte orazione era questa; sì che sentendo molto gravemente Trouvè
il fatto, condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole
aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere,
come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gii fu risposto
non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di
fuori; cercherebbero, farebbero, non si dubitasse; ma se la passarono
con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto
dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il
direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio
espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per
rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari e faceva
professione di amatore ardente di libertà.
Tutto fu indarno; Trouvè, al quale il direttorio portava molta
affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte del
30 agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano
la metà di tutti: leggeva la nuova costituzione e le nuove leggi. Le
approvarono, chi per amore e chi per forza, perchè aveva intimato loro
che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e
che se non l'accettasse di buon grado, lo avrebbe eseguita per forza.
Non ostante alcuni ricusarono e sdegnati si ritirarono. Il giorno
seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano
la sede dei consigli, ributtavano con le baionette i rappresentanti
non eletti dalla riforma, cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi;
si surrogavano Sopransi e Luosi; i rappresentanti renitenti scacciati
dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, capi degli altri, posti in
carcere. La forza predominava. Fece Trouvè la nuova costituzione e
finalmente dichiarò, parendogli di aver operato abbastanza e bene
solidato l'imperio franzesein Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità
legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli
ordini della Cisalpina, buona in sè, viziosa pel modo. Ed ecco una
scena; una gran turba seguitava Ranza gridando: «Che vuol Ranza, che
scartafaccio è quello?» Lo scartafaccio era la costituzione disfatta
da Touvè, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del
Lazzaretto.
Brune, ch'era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio
che lo voleva mitigare, richiamava Trouvè, dandogli scambio con
Fouchè. Le assemblee popolari che chiamavano i comizii, accettavano
la costituzione di Trouvè. I democrati non se ne potevano dar pace,
ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza; la forza
forestiera reggeva lo Stato. Non piacquero al direttorio nè Fouchè
ne Brune. Mandava a Milano Jubert, invece di Brune, Rivaud invece
di Fouchè, strano inviluppo di uomini e di leggi tante volte mutate
in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza e la forza col
capriccio. Non si mescolava Jubert, uomo generoso e magnanimo,
nelle riforme. Ricominciava Rivaud l'opera di Trouvè. La notte del
7 dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava
deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina
le baionette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da
Brune, rimettevano in carica il direttorio Adelasio, Luosi e Sopranzi
cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti; frenata la stampa, serrati
i ritrovi; minacciaronsi i fuorusciti napolitani di espulsione, i
democrati cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue e gli
scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo
volevano ammazzare, e dipingevano nei loro scritti contro di lui non
sapresti che coltello di Bruto; ma non fu nulla. In questa guisa la
Cisalpina, tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati
la prepotenza delle soldatesche forastiere, il timore di tutti, se ne
stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria.
Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento
levarono un grandissimo romore in Francia coloro che, o sedendo
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