Annali d'Italia, vol. 8 - 55
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del collegio romano, suo segretario eletto. Uscito da porta Angelica
s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente
soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e
dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice cattivo:
muovevanli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia,
la sventura. Per tal modo, vecchio, infermo e prigioniero lasciava
Pio Roma, caso non più veduto dappoichè Borbone ne cacciava Clemente;
lasciava Roma cui aveva abbellito con opere magnifiche e che doveva
fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani
vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona
per opinione del mondo, ora serva per opinione e per baionette di
nuove repubbliche. Singolare città che o padrona o serva, o magnifica
o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi
in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero,
contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli
Agostiniani di Siena, e confortato negli ossequii del granduca e nelle
lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Il tentavano
spesso i repubblicani perchè rinunziasse alla potestà temporale; il
che egli costantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione
si ordinava che strettamente si custodisse, e se gli restringeva la
facoltà di veder gente; rigore tanto più da condannare quanto più
non era di nessun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza.
Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il
convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del
desolato pontefice. Distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare;
raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si
riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua
presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma,
dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano che si trasportasse
in Cagliari di Sardegna. Ma, tra per le rappresentazioni delle persone
benigne che continuavano ad avergli affezione, e per la ritrosia del re
di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, era infine
Pio lasciato stare nella Certosa infinochè, venuti in Italia tempi
pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.
Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento,
parte frodolento, le sostanze, e gli ornamenti più preziosi dello
Stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre
che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, nè le rapine
avevano termine che con le stanze dei repubblicani. Cominciava lo
spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio
nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli
ufficiali di mezzo, i quali ne fecero un solenne risentimento. Giravano
nello Stato romano ventisette milioni di cedole; fu ridotto al quarto
il valore loro; ma questa legge savissima in sè stessa, fu crudele
perchè promulgata subito dopo che gli agenti del direttorio avevano
speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private tutta quella
copia di cedole che avevano trovato nelle casse papali; e fu anche
aggiunto che se ne stampassero in fretta in fretta per altri sei
milioni e si gittassero nel pubblico.
Oltre le cedole, le romane finanze consistevano in una quantità di beni
assai considerabile, che appartenevano allo Stato, e questi in nome
della repubblica franzese occupavano i suoi agenti. Poi ponevansi al
fisco della repubblica i beni del collegio della Propaganda, quelli
del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le paludi Pontine
e le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i
mobili non si risparmiavano: qui fuvvi non confiscazione, ma sacco.
Quanto di più nobile e più prezioso adornava i palagi del Vaticano e
del Quirinale fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio
veramente barbara.
Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel
Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi
più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati,
nè più risparmiati i sacri che i profani arredi. Passava il sacco dai
palazzi dello Stato e del papa a quelli de' suoi parenti, ed anzi a
que' di coloro, o principi romani o cardinali che si fossero, che più
si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine che avevano
servito di mossa e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione.
Il palazzo della città, quei del principe e del cardinale Braschi,
quello del cardinale di York furono con eguale avarizia depredati.
Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa
Albani, di cui era signore il cardinale e principe di questo nome.
Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia e per lavoro,
fu tocco e rapito dalle avare mani dei forastieri. Il giardino stesso
dell'Albani fu guasto e deserto, gli aranci e le altre piante odorose
o rare vendute a vil prezzo. La rapacità che si usava in Roma e nei
contorni si dilatava in tutto lo Stato romano, ed ogni sostanza sì
pubblica che privata era posta a mercato. Nè dal sacco andarono esenti
le chiese appartenenti alla nazione spagnuola ed austriaca, sebbene
una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Al
sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in
sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modi di
riscatto nascosti, e qualche volta a bella posta si mettevano perchè i
modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più
di dugento mila scudi; l'incisore Volpato di più di dodici mila, e fra
dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per
aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri o statue
od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata
dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei
repubblicani.
Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito
bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose
che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla
volta di Francia, o segretamente od anche apertamente, perchè a tale
di sfrontatezza si era venuti, i soldati non avevano le paghe corse
da molti mesi, e laceri e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano
l'ingordigia di coloro che, preposti al vitto ed al vestimento loro,
credevano dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei
paesi conquistati con le fatiche e col sangue loro. Ciò produsse una
gran lite degli uffiziali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore
di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini contro
Massena, surrogato a Berthier, e cui imputavano di molte estorsioni
fatte, come dicevano, in tutti i paesi italiani venuti sotto il di lui
governo, massimamente nel Padovano, e contro Huller, cui principalmente
accusavano delle italiane espilazioni e della franzese miseria.
Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un
presidio di tre mila soldati in Castel Santo Angelo ed in altri luoghi
forti, che tutto l'esercito il seguitasse, così sperando di scioglier
quel nodo degli ufficiali contro di lui. Ma quelli insistevano;
scrivevano a Berthier, ripigliasse il freno delle genti; protestavano
a Massena, non volergli più obbedire. Pensò dunque a ritirarsi, e,
lasciato il governo a Saint-Cyr e a Dallemagne, se ne andava in Ancona.
I Romani, osservato lo scompiglio delle genti franzesi ed essendo
sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì
dura servitù, perchè oramai un popolo di quasi due milioni d'anime
era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che
considerato. I primi a romoreggiare furono i Trasteverini, gridando:
_Viva Maria_. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano
una guardia franzese, s'impadronivano di Ponte Sisto e delle strade
che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano;
Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa
era grave. Già i Franzesi erano uccisi alla spicciolata, e già
le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente
valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de'
lati le dissensioni loro, muovendoli il pericolo comune si ordinavano
tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da
furore che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente
tumultuaria di Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in
queste battaglie molto sangue, perchè i Franzesi coi loro squadroni
agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e
da zelo religioso, menavano ancor essi le mani aspramente. Infine,
prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierie bene governate
dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi
con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarii
e si nascondevano chi per le case e chi per le campagne. Fecero i
contadini, ritiratisi ai monti, una testa grossa, ma Murat, penetrando
coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli
sperperava. Di centocinquanta prigioni, parte furono mandati al remo,
parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma, piena di terrore,
d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con
diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di
questo moto, i cardinali ed altri prelati sospetti di affezione verso
il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia
o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono
Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Rovenella, la Somaglia, Carandini,
Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della
repubblica romani. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a
Cività Vecchia ed imbarcati su navi sdruscite, furono mandati a cercar
ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal
di morte, fu lasciato stare: Albani che più d'ogni altro desideravano
di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che
il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo
quanto avea la Chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per
dottrina, era disperso e calpestato.
Gli accidenti romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di
confusione, siccome quelli che succedevano sulle prime alla militare
conquista. Restava che la oppressione e la servitù si ordinassero
sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento
dei conquistatori di fare scherno alla libertà e di metterla in
odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio
mandato a Roma quattro suoi commissarii, che furono Faipoult, Florent,
Daunon e Monge, uomini che facevano professione di amore la libertà.
Deliberarono fra di loro di dar una costituzione alla repubblica
Romana. Ed ecco pubblicarsi un corpo di costituzione, il quale altro
non era che sotto nomi romani la costituzione franzese; imperciocchè
sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di
alta pretura e di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio
degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione,
e commissarii dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidii
servili delle amministrazioni centrali per ciascun dipartimento della
repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si
noveravano otto dipartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del
Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto: avevano
per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia,
Perugia e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi come quelle di
Francia. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè
i magistrati furono ordinati vestirsi alla franzese, mutato solo pei
consoli, senatori e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a
quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.
Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci ed Ennio
Quirino Visconti da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi e
Reppi da Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica
Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del
generale o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del
consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare
la rivoluzione di Venezia, se n'era venuto a fomentar quella di Roma.
Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariatti, un
Bremond franzese.
I quattro commissarii inserirono però nella costituzione romana questo
capitolo, che si avesse a fare al più presto un trattato d'alleanza
tra la repubblica Romana e la Franzese, il quale sino a che fosse
ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi romani
non potessero essere nè pubblicate nè eseguite senza l'approvazione
del generale franzese che stava al governo di Roma; e che il generale
medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi che a
lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni
del direttorio. E questa, oltre gli spogli, le tasse violenti, ed il
rimanente, era la libertà di Roma.
Era nella costituzione un capitolo che ordinava di giurar odio alla
monarchia, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva
udito dal suo ritiro della Certosa di Firenze che il governo della
repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero e dai parrochi
di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia,
e parendogli che non si convenisse ai ministri della religione il
giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor
Passeri, vicegerente di Roma, ammonendolo, non esser lecito prestar
puramente e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli
di notificare agl'intimati questa sua decisione pontificia e di
avvertire che la eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere,
interessava anche moltissimo che la repubblica fosse persuasa
della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente
al repubblicano governo, conformi in tutto agl'insegnamenti della
cattolica religione, così statuiva che ciascuno potesse con sicura
coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica che attualmente
comandava, essendo stato unanime insegnamento dei santi Padri e
della Chiesa che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo
la varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi
attualmente comanda. Definì inoltre che ciascuno potesse giurare di
non prendere parte in qualsivoglia congiura, trama o sedizione pel
ristabilimento della monarchia e contro la repubblica: e potesse
altresì giurare odio all'anarchia, essendo questa uno stato di
disordine. Finalmente deliberò che si potesse giurare fedeltà ed
attaccamento alta costituzione, salva per altro la cattolica religione.
Pensava papa Pio che i magistrati della repubblica non avrebbero
rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si
esprimeva, all'atto del popolo sovrano del 15 febbraio del presente
anno, con cui il popolo riunito innanzi a Dio ed al mondo tutto,
con un sol animo ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la
religione quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione
cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri e succedutogli nella
carica di vicegerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di
propria autorità e contro le intenzioni del papa, diede una seconda
instruzione per cui i professori del collegio Romano e della Sapienza
si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento
tale quale era prescritto dalla costituzione, solo facendo qualche
protestazione a voce. Udì gravemente il papa quest'accidente, e
rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni,
gli comandò richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò che per
essa e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse che Roma,
già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie,
prudenti e conducenti alla quiete dello Stato erano queste sentenze
di Pio. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto
gelosa, si rammorbidì facilmente, sì per la prudenza del papa come per
la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si
temeva, o movimenti o persecuzioni d'importanza.
Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era
stata mai altro che un appicco contro il papa. I suoi territorii, salvo
San Leo, si incorporarono alla Romana.
Il dì 20 marzo, si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano la
confederazione della repubblica Romana a guisa di quella che fu da
noi già descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonie,
illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo e
molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio
Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento
la romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli
sulla piazza del Vaticano; bandiva la costituzione, dichiarava Roma
libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava, poscia,
pure romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai e
con questi motti: _Berthier restitutor urbis; e Gallia salus generis
humani_.
Qui sarebbero da descrivere alcune maggiori cose per cui mutossi
inopinatamente lo Stato d'Europa, quel d'Africa turbossi, le ottomane
spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa
combattuta parte d'Europa passò da Francia a quello che di nuovo
lo combatterono: ma non ci è dato che toccar di volo i principali
fatti. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in
pace con tutte le potenze del continente, ed, oltre a ciò, aveva per
alleate la Spagna, il Piemonte, le Cisalpina, l'Olanda. Le vittorie
conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e la costanza de' suoi
soldati, avevano dato timore a tutti. Per la qual cosa, quantunque
tutti vedessero mal volentieri confermarsi in Francia, cioè nel
centro dell'Europa, principii contrarii alla natura dei governi loro,
contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi ed aspettavano tempi
migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al
continente, poteva voltar tutte le sue forze verso l'Inghilterra. A ciò
fare ella si trovava molto ben provveduta d'armi, di navi, di capitani,
d'alleanze, e di quanto potea condurre a prospero fine una spedizione.
In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt
principalmente, guida allora e indirizzatore dei consigli di quel
reame, conobbero il pericolo in cui erano, anche perchè non pochi
nell'Inghilterra medesima avevano accettato i principii della
rivoluzione franzese ed avrebber potuto secondare i Franzesi. Però,
avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine
per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere
un novello incendio di guerra sul continente con istimolar di nuovo
le potenze alle cose di Francia, alle ragioni aggiungendo offerte di
denari ed aiuti di genti.
A queste istigazioni l'Austria rispondeva, che quantunque debilitata,
era per insorgere di nuovo e correre all'armi se la Russia consentisse
a voler anche essa venire efficacemente a parte della contesa e la
spalleggiasse con pronti aiuti. La Russia tentata rispondeva che si
accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse
della Turchia. Gli Inglesi allora ed a questo fine tentarono il governo
Ottomano. Rispondeva il sultano che per l'antica unione della Porta con
quel paese non voleva pruovare le armi contra la Francia, nè collegarsi
con loro che muovevano.
Non potendo adunque i ministri di Inghilterra venire a capo
dell'intento loro di seminar nuove discordie, si voltavano ad altre
arti, mandando agenti a Parigi con le mani piene d'oro per muover la
Francia contro sè medesima. Costoro con discorsi infiniti voleano
distogliere il direttorio dall'impresa d'Inghilterra e portarne
le viste sopra paesi più lontani, per allontanare gli ambiziosi,
Buonaparte specialmente, che poteva al direttorio dar ombra, e
indicavano come opportuna conquista l'Egitto. Speravano gli autori
di queste insinuazioni che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad
essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era
il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni.
Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma dall'altra
parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte, le più
seducenti cose del mondo ripetendogli. Piacque la proposta al giovane
capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli
uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva, ciò non ostante,
un poco del romanzesco quando si trattava di guerra e di gloria
militare.
In tale forma accordate le cose, s'incominciava a disporre gli animi in
Francia ad una impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto
come della terra promessa, della prosperità del commercio, della
scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento
degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde
del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia, perchè
la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente
accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di
facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza.
Talleyrand leggeva all'Istituto uno scritto composto con singolare
eleganza e maestria, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto e
l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per
essere mandato ambasciadore straordinario presso la Porta Ottomana per
ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla
spedizione d'Egitto e per mantener tuttavia salva l'antica concordia
fra i due Stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a
Costantinopoli come se già fosse partito ed avviato a quella volta.
Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie
alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini,
navi, armi e provvisioni di ogni sorta a Tolone, dove si era condotto
Buonaparte per sopravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato
tratto membro dell'Instituto e con tale qualità ne' suoi dispacci
s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati e dei
letterati di Francia che aveano grande autorità nelle faccende e
si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì
che gli uomini si persuadessero che quantunque soldato ed uso alle
guerre, era nonostante protettore della civiltà e di chi la fomenta.
Ciò importava anche alla spedizione in un paese antico, fonte del
sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti
scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de'
lati favoreggiando Buonaparte e sollecitando le sue passioni più
vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderii ed i sospetti del
direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di
metter discordia tra la Francia e la Turchia, d'abilitar la Russia
ad unirsi all'Austria, di aprir la occasione all'ultima di levarsi a
nuova guerra, di sviare dai proprii lidi una gran tempesta, di privar
la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari
lontani il potente naviglio franzese, ed in somma di fare in modo che
l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa
fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt.
Salpava l'armata franzese che portava con sè tante sorti, avviandosi
verso Levante. S'appresentava sul principio di giugno in cospetto della
degenerata Malta. Portava forti armi e corruttele ancor più forti.
Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di fare
acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi soltanto. Finse di
averla per male, e sbarcato nella cala San-Giorgio, servendogli di
guida i fuorusciti Maltesi, antichi cavalieri che Buonaparte aveva
condotto seco, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni.
Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le
munizioni piene, nè i soldati confidenti. La Valletta poteva ancor
tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero
apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le
femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione,
che dalle campagne si erano ricovrati in città all'apparire del
nemico, facevano un gran terrore. Si diede sotto la mediazione di
Spagna, con questi patti; rimettessero i cavalieri dell'ordine di San
Giovanni Gerosolimitano ai Franzesi la città di Malta, rinunziando in
favore della repubblica di Francia alla proprietà ed alla sovranità
ch'essi avevano su quella isola e su quelle di Gozo e Camino; usasse
la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè
il gran maestro, sua vita durante conseguisse un principato almeno
uguale a quello ch'ei perdeva; e di più essa repubblica si obbligasse a
dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecento mila
franchi annui e due anni anticipati della pensione per compenso del suo
mobile; avessero i cavalieri franzesi della repubblica una pensione
di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica
ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana e l'Elvetica,
perchè i cavalieri liguri, cisalpini, romani e svizzeri ottenessero la
medesima promissione; conservassero i proprii beni in Malta; procurasse
la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine
fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si
serbasse salva ed intatta.
Il dì 12 giugno furono posti in poter dei Franzesi alcuni forti,
il dì 13 i rimanenti. Venuto Buonaparte in possessione di un'isola
tanto importante, ad onta delle proteste contro la dedizione fatte
dal gran priorato di Malta ed altri cavalieri dell'ordine adunati a
Pietroburgo, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon
di Ransijat. Poi veniva agli esilii ed alle espilazioni. Bandiva i
cavalieri dall'isola, e fra essi Hompesch, gran maestro, che se ne andò
in Germania a vivere una vita ignota, perchè onorata non la poteva più
vivere.
Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo si arrendeva al generale Reyner,
mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo
dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava a' suoi destini
d'Egitto, lasciato Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo
quanto valoroso. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino
allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di
maraviglia l'Europa, di timore la Germania, di spavento Napoli. Solo
gl'Inglesi che avevano il navilio intero e d'invitta fama, non se ne
sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il
pericolo, si preparavano al gran contrasto.
Giunto Buonaparte sui lidi d'Egitto e con tutta felicità sbarcatovi,
s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo
s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada.
Troppo lontana è dalle cose d'Italia l'egiziana guerra per esser qui
narrata; ma vuolsi ricordare la battaglia navale d'Abukir, poichè per
lei si cambiò lo stato d'Italia e fu avvenimento tanto grave per tutta
l'Europa.
Correva il giorno primo d'agosto; destinato dal cielo ad una delle
più aspre e più terminative battaglie che il furore degli uomini
abbia mai fatto commettere e di cui vi sia memoria nei ricordi delle
storie, pieni, per altro di tanti spaventevoli accidenti. Noveravansi
nell'armata inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni,
cui si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni una fregata
di trentasei; in somma mille e quarantotto cannoni. Tutto questo
navilio governavano meglio di otto mila eletti marinai.
Erano nell'armata di Francia una nave grossa, stanza dell'Almirante,
tre di ottantaquattro, nove di settantaquattro, una fregata di
quarantotto, una di quarantaquattro, due di trentasei: insomma mille
e novanta cannoni per armi, circa dieci mila e novecento marinai per
s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente
soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e
dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice cattivo:
muovevanli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia,
la sventura. Per tal modo, vecchio, infermo e prigioniero lasciava
Pio Roma, caso non più veduto dappoichè Borbone ne cacciava Clemente;
lasciava Roma cui aveva abbellito con opere magnifiche e che doveva
fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani
vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona
per opinione del mondo, ora serva per opinione e per baionette di
nuove repubbliche. Singolare città che o padrona o serva, o magnifica
o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi
in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero,
contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli
Agostiniani di Siena, e confortato negli ossequii del granduca e nelle
lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Il tentavano
spesso i repubblicani perchè rinunziasse alla potestà temporale; il
che egli costantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione
si ordinava che strettamente si custodisse, e se gli restringeva la
facoltà di veder gente; rigore tanto più da condannare quanto più
non era di nessun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza.
Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il
convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del
desolato pontefice. Distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare;
raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si
riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua
presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma,
dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano che si trasportasse
in Cagliari di Sardegna. Ma, tra per le rappresentazioni delle persone
benigne che continuavano ad avergli affezione, e per la ritrosia del re
di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, era infine
Pio lasciato stare nella Certosa infinochè, venuti in Italia tempi
pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.
Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento,
parte frodolento, le sostanze, e gli ornamenti più preziosi dello
Stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre
che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, nè le rapine
avevano termine che con le stanze dei repubblicani. Cominciava lo
spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio
nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli
ufficiali di mezzo, i quali ne fecero un solenne risentimento. Giravano
nello Stato romano ventisette milioni di cedole; fu ridotto al quarto
il valore loro; ma questa legge savissima in sè stessa, fu crudele
perchè promulgata subito dopo che gli agenti del direttorio avevano
speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private tutta quella
copia di cedole che avevano trovato nelle casse papali; e fu anche
aggiunto che se ne stampassero in fretta in fretta per altri sei
milioni e si gittassero nel pubblico.
Oltre le cedole, le romane finanze consistevano in una quantità di beni
assai considerabile, che appartenevano allo Stato, e questi in nome
della repubblica franzese occupavano i suoi agenti. Poi ponevansi al
fisco della repubblica i beni del collegio della Propaganda, quelli
del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le paludi Pontine
e le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i
mobili non si risparmiavano: qui fuvvi non confiscazione, ma sacco.
Quanto di più nobile e più prezioso adornava i palagi del Vaticano e
del Quirinale fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio
veramente barbara.
Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel
Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi
più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati,
nè più risparmiati i sacri che i profani arredi. Passava il sacco dai
palazzi dello Stato e del papa a quelli de' suoi parenti, ed anzi a
que' di coloro, o principi romani o cardinali che si fossero, che più
si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine che avevano
servito di mossa e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione.
Il palazzo della città, quei del principe e del cardinale Braschi,
quello del cardinale di York furono con eguale avarizia depredati.
Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa
Albani, di cui era signore il cardinale e principe di questo nome.
Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia e per lavoro,
fu tocco e rapito dalle avare mani dei forastieri. Il giardino stesso
dell'Albani fu guasto e deserto, gli aranci e le altre piante odorose
o rare vendute a vil prezzo. La rapacità che si usava in Roma e nei
contorni si dilatava in tutto lo Stato romano, ed ogni sostanza sì
pubblica che privata era posta a mercato. Nè dal sacco andarono esenti
le chiese appartenenti alla nazione spagnuola ed austriaca, sebbene
una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Al
sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in
sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modi di
riscatto nascosti, e qualche volta a bella posta si mettevano perchè i
modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più
di dugento mila scudi; l'incisore Volpato di più di dodici mila, e fra
dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per
aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri o statue
od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata
dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei
repubblicani.
Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito
bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose
che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla
volta di Francia, o segretamente od anche apertamente, perchè a tale
di sfrontatezza si era venuti, i soldati non avevano le paghe corse
da molti mesi, e laceri e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano
l'ingordigia di coloro che, preposti al vitto ed al vestimento loro,
credevano dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei
paesi conquistati con le fatiche e col sangue loro. Ciò produsse una
gran lite degli uffiziali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore
di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini contro
Massena, surrogato a Berthier, e cui imputavano di molte estorsioni
fatte, come dicevano, in tutti i paesi italiani venuti sotto il di lui
governo, massimamente nel Padovano, e contro Huller, cui principalmente
accusavano delle italiane espilazioni e della franzese miseria.
Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un
presidio di tre mila soldati in Castel Santo Angelo ed in altri luoghi
forti, che tutto l'esercito il seguitasse, così sperando di scioglier
quel nodo degli ufficiali contro di lui. Ma quelli insistevano;
scrivevano a Berthier, ripigliasse il freno delle genti; protestavano
a Massena, non volergli più obbedire. Pensò dunque a ritirarsi, e,
lasciato il governo a Saint-Cyr e a Dallemagne, se ne andava in Ancona.
I Romani, osservato lo scompiglio delle genti franzesi ed essendo
sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì
dura servitù, perchè oramai un popolo di quasi due milioni d'anime
era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che
considerato. I primi a romoreggiare furono i Trasteverini, gridando:
_Viva Maria_. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano
una guardia franzese, s'impadronivano di Ponte Sisto e delle strade
che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano;
Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa
era grave. Già i Franzesi erano uccisi alla spicciolata, e già
le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente
valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de'
lati le dissensioni loro, muovendoli il pericolo comune si ordinavano
tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da
furore che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente
tumultuaria di Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in
queste battaglie molto sangue, perchè i Franzesi coi loro squadroni
agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e
da zelo religioso, menavano ancor essi le mani aspramente. Infine,
prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierie bene governate
dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi
con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarii
e si nascondevano chi per le case e chi per le campagne. Fecero i
contadini, ritiratisi ai monti, una testa grossa, ma Murat, penetrando
coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli
sperperava. Di centocinquanta prigioni, parte furono mandati al remo,
parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma, piena di terrore,
d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con
diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di
questo moto, i cardinali ed altri prelati sospetti di affezione verso
il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia
o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono
Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Rovenella, la Somaglia, Carandini,
Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della
repubblica romani. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a
Cività Vecchia ed imbarcati su navi sdruscite, furono mandati a cercar
ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal
di morte, fu lasciato stare: Albani che più d'ogni altro desideravano
di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che
il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo
quanto avea la Chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per
dottrina, era disperso e calpestato.
Gli accidenti romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di
confusione, siccome quelli che succedevano sulle prime alla militare
conquista. Restava che la oppressione e la servitù si ordinassero
sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento
dei conquistatori di fare scherno alla libertà e di metterla in
odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio
mandato a Roma quattro suoi commissarii, che furono Faipoult, Florent,
Daunon e Monge, uomini che facevano professione di amore la libertà.
Deliberarono fra di loro di dar una costituzione alla repubblica
Romana. Ed ecco pubblicarsi un corpo di costituzione, il quale altro
non era che sotto nomi romani la costituzione franzese; imperciocchè
sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di
alta pretura e di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio
degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione,
e commissarii dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidii
servili delle amministrazioni centrali per ciascun dipartimento della
repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si
noveravano otto dipartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del
Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto: avevano
per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia,
Perugia e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi come quelle di
Francia. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè
i magistrati furono ordinati vestirsi alla franzese, mutato solo pei
consoli, senatori e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a
quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.
Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci ed Ennio
Quirino Visconti da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi e
Reppi da Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica
Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del
generale o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del
consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare
la rivoluzione di Venezia, se n'era venuto a fomentar quella di Roma.
Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariatti, un
Bremond franzese.
I quattro commissarii inserirono però nella costituzione romana questo
capitolo, che si avesse a fare al più presto un trattato d'alleanza
tra la repubblica Romana e la Franzese, il quale sino a che fosse
ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi romani
non potessero essere nè pubblicate nè eseguite senza l'approvazione
del generale franzese che stava al governo di Roma; e che il generale
medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi che a
lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni
del direttorio. E questa, oltre gli spogli, le tasse violenti, ed il
rimanente, era la libertà di Roma.
Era nella costituzione un capitolo che ordinava di giurar odio alla
monarchia, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva
udito dal suo ritiro della Certosa di Firenze che il governo della
repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero e dai parrochi
di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia,
e parendogli che non si convenisse ai ministri della religione il
giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor
Passeri, vicegerente di Roma, ammonendolo, non esser lecito prestar
puramente e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli
di notificare agl'intimati questa sua decisione pontificia e di
avvertire che la eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere,
interessava anche moltissimo che la repubblica fosse persuasa
della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente
al repubblicano governo, conformi in tutto agl'insegnamenti della
cattolica religione, così statuiva che ciascuno potesse con sicura
coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica che attualmente
comandava, essendo stato unanime insegnamento dei santi Padri e
della Chiesa che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo
la varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi
attualmente comanda. Definì inoltre che ciascuno potesse giurare di
non prendere parte in qualsivoglia congiura, trama o sedizione pel
ristabilimento della monarchia e contro la repubblica: e potesse
altresì giurare odio all'anarchia, essendo questa uno stato di
disordine. Finalmente deliberò che si potesse giurare fedeltà ed
attaccamento alta costituzione, salva per altro la cattolica religione.
Pensava papa Pio che i magistrati della repubblica non avrebbero
rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si
esprimeva, all'atto del popolo sovrano del 15 febbraio del presente
anno, con cui il popolo riunito innanzi a Dio ed al mondo tutto,
con un sol animo ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la
religione quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione
cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri e succedutogli nella
carica di vicegerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di
propria autorità e contro le intenzioni del papa, diede una seconda
instruzione per cui i professori del collegio Romano e della Sapienza
si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento
tale quale era prescritto dalla costituzione, solo facendo qualche
protestazione a voce. Udì gravemente il papa quest'accidente, e
rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni,
gli comandò richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò che per
essa e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse che Roma,
già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie,
prudenti e conducenti alla quiete dello Stato erano queste sentenze
di Pio. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto
gelosa, si rammorbidì facilmente, sì per la prudenza del papa come per
la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si
temeva, o movimenti o persecuzioni d'importanza.
Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era
stata mai altro che un appicco contro il papa. I suoi territorii, salvo
San Leo, si incorporarono alla Romana.
Il dì 20 marzo, si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano la
confederazione della repubblica Romana a guisa di quella che fu da
noi già descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonie,
illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo e
molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio
Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento
la romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli
sulla piazza del Vaticano; bandiva la costituzione, dichiarava Roma
libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava, poscia,
pure romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai e
con questi motti: _Berthier restitutor urbis; e Gallia salus generis
humani_.
Qui sarebbero da descrivere alcune maggiori cose per cui mutossi
inopinatamente lo Stato d'Europa, quel d'Africa turbossi, le ottomane
spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa
combattuta parte d'Europa passò da Francia a quello che di nuovo
lo combatterono: ma non ci è dato che toccar di volo i principali
fatti. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in
pace con tutte le potenze del continente, ed, oltre a ciò, aveva per
alleate la Spagna, il Piemonte, le Cisalpina, l'Olanda. Le vittorie
conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e la costanza de' suoi
soldati, avevano dato timore a tutti. Per la qual cosa, quantunque
tutti vedessero mal volentieri confermarsi in Francia, cioè nel
centro dell'Europa, principii contrarii alla natura dei governi loro,
contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi ed aspettavano tempi
migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al
continente, poteva voltar tutte le sue forze verso l'Inghilterra. A ciò
fare ella si trovava molto ben provveduta d'armi, di navi, di capitani,
d'alleanze, e di quanto potea condurre a prospero fine una spedizione.
In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt
principalmente, guida allora e indirizzatore dei consigli di quel
reame, conobbero il pericolo in cui erano, anche perchè non pochi
nell'Inghilterra medesima avevano accettato i principii della
rivoluzione franzese ed avrebber potuto secondare i Franzesi. Però,
avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine
per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere
un novello incendio di guerra sul continente con istimolar di nuovo
le potenze alle cose di Francia, alle ragioni aggiungendo offerte di
denari ed aiuti di genti.
A queste istigazioni l'Austria rispondeva, che quantunque debilitata,
era per insorgere di nuovo e correre all'armi se la Russia consentisse
a voler anche essa venire efficacemente a parte della contesa e la
spalleggiasse con pronti aiuti. La Russia tentata rispondeva che si
accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse
della Turchia. Gli Inglesi allora ed a questo fine tentarono il governo
Ottomano. Rispondeva il sultano che per l'antica unione della Porta con
quel paese non voleva pruovare le armi contra la Francia, nè collegarsi
con loro che muovevano.
Non potendo adunque i ministri di Inghilterra venire a capo
dell'intento loro di seminar nuove discordie, si voltavano ad altre
arti, mandando agenti a Parigi con le mani piene d'oro per muover la
Francia contro sè medesima. Costoro con discorsi infiniti voleano
distogliere il direttorio dall'impresa d'Inghilterra e portarne
le viste sopra paesi più lontani, per allontanare gli ambiziosi,
Buonaparte specialmente, che poteva al direttorio dar ombra, e
indicavano come opportuna conquista l'Egitto. Speravano gli autori
di queste insinuazioni che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad
essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era
il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni.
Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma dall'altra
parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte, le più
seducenti cose del mondo ripetendogli. Piacque la proposta al giovane
capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli
uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva, ciò non ostante,
un poco del romanzesco quando si trattava di guerra e di gloria
militare.
In tale forma accordate le cose, s'incominciava a disporre gli animi in
Francia ad una impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto
come della terra promessa, della prosperità del commercio, della
scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento
degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde
del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia, perchè
la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente
accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di
facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza.
Talleyrand leggeva all'Istituto uno scritto composto con singolare
eleganza e maestria, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto e
l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per
essere mandato ambasciadore straordinario presso la Porta Ottomana per
ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla
spedizione d'Egitto e per mantener tuttavia salva l'antica concordia
fra i due Stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a
Costantinopoli come se già fosse partito ed avviato a quella volta.
Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie
alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini,
navi, armi e provvisioni di ogni sorta a Tolone, dove si era condotto
Buonaparte per sopravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato
tratto membro dell'Instituto e con tale qualità ne' suoi dispacci
s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati e dei
letterati di Francia che aveano grande autorità nelle faccende e
si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì
che gli uomini si persuadessero che quantunque soldato ed uso alle
guerre, era nonostante protettore della civiltà e di chi la fomenta.
Ciò importava anche alla spedizione in un paese antico, fonte del
sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti
scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de'
lati favoreggiando Buonaparte e sollecitando le sue passioni più
vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderii ed i sospetti del
direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di
metter discordia tra la Francia e la Turchia, d'abilitar la Russia
ad unirsi all'Austria, di aprir la occasione all'ultima di levarsi a
nuova guerra, di sviare dai proprii lidi una gran tempesta, di privar
la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari
lontani il potente naviglio franzese, ed in somma di fare in modo che
l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa
fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt.
Salpava l'armata franzese che portava con sè tante sorti, avviandosi
verso Levante. S'appresentava sul principio di giugno in cospetto della
degenerata Malta. Portava forti armi e corruttele ancor più forti.
Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di fare
acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi soltanto. Finse di
averla per male, e sbarcato nella cala San-Giorgio, servendogli di
guida i fuorusciti Maltesi, antichi cavalieri che Buonaparte aveva
condotto seco, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni.
Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le
munizioni piene, nè i soldati confidenti. La Valletta poteva ancor
tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero
apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le
femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione,
che dalle campagne si erano ricovrati in città all'apparire del
nemico, facevano un gran terrore. Si diede sotto la mediazione di
Spagna, con questi patti; rimettessero i cavalieri dell'ordine di San
Giovanni Gerosolimitano ai Franzesi la città di Malta, rinunziando in
favore della repubblica di Francia alla proprietà ed alla sovranità
ch'essi avevano su quella isola e su quelle di Gozo e Camino; usasse
la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè
il gran maestro, sua vita durante conseguisse un principato almeno
uguale a quello ch'ei perdeva; e di più essa repubblica si obbligasse a
dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecento mila
franchi annui e due anni anticipati della pensione per compenso del suo
mobile; avessero i cavalieri franzesi della repubblica una pensione
di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica
ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana e l'Elvetica,
perchè i cavalieri liguri, cisalpini, romani e svizzeri ottenessero la
medesima promissione; conservassero i proprii beni in Malta; procurasse
la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine
fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si
serbasse salva ed intatta.
Il dì 12 giugno furono posti in poter dei Franzesi alcuni forti,
il dì 13 i rimanenti. Venuto Buonaparte in possessione di un'isola
tanto importante, ad onta delle proteste contro la dedizione fatte
dal gran priorato di Malta ed altri cavalieri dell'ordine adunati a
Pietroburgo, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon
di Ransijat. Poi veniva agli esilii ed alle espilazioni. Bandiva i
cavalieri dall'isola, e fra essi Hompesch, gran maestro, che se ne andò
in Germania a vivere una vita ignota, perchè onorata non la poteva più
vivere.
Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo si arrendeva al generale Reyner,
mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo
dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava a' suoi destini
d'Egitto, lasciato Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo
quanto valoroso. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino
allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di
maraviglia l'Europa, di timore la Germania, di spavento Napoli. Solo
gl'Inglesi che avevano il navilio intero e d'invitta fama, non se ne
sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il
pericolo, si preparavano al gran contrasto.
Giunto Buonaparte sui lidi d'Egitto e con tutta felicità sbarcatovi,
s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo
s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada.
Troppo lontana è dalle cose d'Italia l'egiziana guerra per esser qui
narrata; ma vuolsi ricordare la battaglia navale d'Abukir, poichè per
lei si cambiò lo stato d'Italia e fu avvenimento tanto grave per tutta
l'Europa.
Correva il giorno primo d'agosto; destinato dal cielo ad una delle
più aspre e più terminative battaglie che il furore degli uomini
abbia mai fatto commettere e di cui vi sia memoria nei ricordi delle
storie, pieni, per altro di tanti spaventevoli accidenti. Noveravansi
nell'armata inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni,
cui si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni una fregata
di trentasei; in somma mille e quarantotto cannoni. Tutto questo
navilio governavano meglio di otto mila eletti marinai.
Erano nell'armata di Francia una nave grossa, stanza dell'Almirante,
tre di ottantaquattro, nove di settantaquattro, una fregata di
quarantotto, una di quarantaquattro, due di trentasei: insomma mille
e novanta cannoni per armi, circa dieci mila e novecento marinai per
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