Annali d'Italia, vol. 8 - 54

nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due
vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla
punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Le orchestre suonavano,
le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni
tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio,
orava lo arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando
la generosità franzese e la rigenerazione veneziana. Poscia entrati
in San Marco, cantavano l'inno delle grazie e facevano il maritaggio
del giovane e della giovane. Uscito il corteggio di San Marco ed in
piazza tornatosi, dove promiscuamente e Franzesi e Veneziani intorno
all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro e le insegne ducali;
in quel mentre orava enfaticamente l'abate Collalto. Continuossi a
ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una
bella e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice.
Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers.
Al tempo stesso Bernadotte proibiva con animo sincero che in Udine
si piantasse. Guyeux, al contrario, metteva una taglia di centomila
lire sur un piccolo comune del Padovano sotto pretesto che l'albero vi
fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento di accidenti strani in
proposito di un medesimo fusto figurativo.
Continuava Buonaparte a mostrarsi propenso ai Veneziani. Dimostrava
non potere per le molte e gravi faccende che il travagliava, visitare,
come desiderava, per sè stesso Venezia; ma mandarvi la donna sua,
perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta
fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le
adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì veneziani che franzesi
furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i
cannoni a festa e ad onore di privata donna. Accolta nella sala dei
municipali era segno d'applaudisi infiniti: deputavano due di loro
ad intrattenerla ed a farle onoranza. Furonvi feste, balli, canti,
allegrezze d'ogni sorta: alla Giudecca una gran cena, al canal grande
una luminaria; nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani.
Dandolo e gli altri municipali trionfavano e sempre stavano accanto
alla donna e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se
ne stava bieco ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il
quinto se ne partiva con assai ricchi presenti.
Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, coloro che
avevano in mano la somma delle cose in Venezia, trattavano di unirsi
strettamente alle città di terraferma, che, come si è narrato, molto
ripugnavano al dominio veneziano. Laonde operavano che le principali
mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava
Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi
mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natio di Desenzano, si sperava
che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti.
Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte impediva che
deputasse. Vi mandava Buonaparte Berthier affinchè presiedesse il
congresso. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser
capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi
piuttosto a' Padovani aderivano che ai veronesi, i vicentini piuttosto
ai veronesi che ai padovani, Treviso stava in favor de' veneziani, i
deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Però Berthier,
disciogliendo il congresso, pubblicava che circa l'unione i deputati
non s'erano potuto accordare.
Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare
il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne
facevano anche inchiesta formale al direttorio cisalpino. In questo
mentre si era concluso il trattato di Campoformio, che abbiamo più
sopra riferito; Buonaparte se ne tornava a Milano. Di colà egli
scriveva a Villetard: pel trattato di pace essere i Franzesi obbligati
a vuotare la città di Venezia, e perciò potersene l'imperadore
impadronire; ma non doverla vuotare che venti o trenta giorni dopo
le ratificazioni; potere tutti i patriotti che volessero spatriarsi,
ricoverarsi nella repubblica Cisalpina, in cui godrebbero de' diritti
di cittadinatico; avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro;
essere indispensabile di creare un fondo, il quale potesse alimentare
quelli fra i patrioti che si risolvessero a lasciar il paese loro
e non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica
Franzese parata a soccorrerli se ne avessero bisogno, con la vendita
de' beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia
molte munizioni navali o di guerra e di commercio che appartenevano
al governo veneziano; essere indispensabile che la congregazione
di salute pubblica (quest'era una congregazione di municipali), le
trasportasse più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero
essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle
opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù e se ne facesse
stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le
polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un
Roubault e con un Forfait e con la congregazione di salute pubblica
per vedere a qual pro si potessero condurre una nave ed una fregata
recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da
inalberare, le piatte, il Bucintoro e le barche dorate, i barconi, i
palischermi grossi e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini,
sei cannoniere e tre galere sui cantieri.
Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima
lasciar nulla che potesse servire all'imperadore per creare un navilio;
la seconda, trasportare in Francia quanto fosse utile alla nazione;
la terza usare quanto si vendesse nel miglior modo possibile, perchè
più fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse
che il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurare le sorti de'
Veneziani che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse
suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute
pubblica e co' deputati delle città di terraferma, alla salute de'
fuorusciti loro.
Avuto Villetard questo mandato, nella sala delle adunanze recatosi, ai
municipali favellava, e gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che
ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e
salva al nuovo dominio. Serrurier, accettata da Buonaparte la suprema
autorità in Venezia ed il mandato di far la consegna, svaligiati
prima, secondo i comandamenti avuti, i fondachi pubblici del sale e
del biscotto, spogliato avarissimamente l'arsenale, rotte o mutilate le
statue bellissime che in lui si miravano, fatto salpare le grosse navi,
affondate le minori, rotte a suon di scuri le incominciate, arso in S.
Giorgio il Bucintoro per cavarne le dorature, rovinata e deserta ogni
cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni la città
di Venezia. Francesco Pesaro riceveva, come commissario imperiale, i
giuramenti.
Gli eccidii si moltiplicavano, continuavasi a spogliar Roma in virtù
del trattato di Tolentino; nella qual bisogna con molta efficacia si
travagliavano i commissari del direttorio. E perchè non mancasse in
mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro che la
moglie di Buonaparte desiderava per sè alcune belle statue di bronzo,
le comperarono, e con le involate, a grado di lei incassarono. Saputisi
dal papa il desiderio e la compera, ne pagava tosto il prezzo, perchè
la donna se le avesse senza costo. Oltre a ciò apparecchiava una
collana di preziosi camei, perchè fosse offerta da sua parte alla
signora.
Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate
nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano de' due terzi
per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni
cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault,
ministro del direttorio, e per questo non voleva che si facesse una
rivoluzione violenta per ispegnere il governo papale, ma bensì che si
lasciasse andare di per sè stesso alla distruzione. I democrati non
incitava Cacault, nè aveva partecipazione delle loro macchinazioni,
perchè gli stimava gente dappoco e credeva che il popolo non li
volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il che
veniva in grande diminuzione della reputazione del governo pontificio.
Crescevano la penuria ed il caro delle vettovaglie; i popoli male si
soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte dei grani,
che il papa era sforzato a concedere ad alcuni fra gli agenti sì civili
che militari della repubblica. Il papa, oltre la sua età cadente,
si trovava infermo di paralisia. S'aggiungevano spaventi come se il
cielo fosse sdegnato contro Roma. La polveriera del Castel Sant'Angelo
s'accendeva la vigilia di San Pietro con orribile fracasso; furonvi
molte morti e parecchi edifizii rovinati.
S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione: in pena
di guerra non si volle che il pontefice conducesse a' suoi soldi il
generale Provera, su cui aveva fatto disegno. Alle cagioni politiche,
le quali operavano contro il papa, se ne aggiungeva una di natura molto
singolare, e quest'era il pensiero nato in Francia, del voler fondare
la religione naturale che col nome di teofilantropia chiamavano.
Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma
Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura
assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi
aggirare da chi voleva piuttosto fare che aspettare la rivoluzione.
Per la qual cosa era la sua casa piena continuamente di novatori,
ai quali dava segrete speranze, però che aveva dal suo governo avuto
mandato espresso di mutar lo Stato in Roma, pur facendo le viste di non
parervi mescolato. Ma siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta,
mandarono per dargli spirito ed aiutarlo a perturbar Roma i generali
Duphot, e Sherlock. Aveva il governo papale avviso delle trame che si
macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, da
spesse pattuglie la città e teneva diligentissime guardie.
S'avvicinava quest'anno al suo fine quando nasceva in Roma un caso
funestissimo, dal quale scorsero improvvisamente con precipitosa piena
quelle acque che già tanto soprabbondando, minacciavano di allagare.
La notte del 27 dicembre i soldati urbani, incontrando un'affollata di
democrati armati, ne sorse una mischia confusa; un democrato fu morto,
due urbani feriti. Il sangue chiama sangue, il terrore già dominava la
città. L'ambasciatore Giuseppe di ciò informato, rispondeva, farebbe
che i suoi non si mescolassero in quei tumulti; ma non giovava, perchè,
o il volesse egli o nol volesse, si adunavano il dì 28 nella villa
Medici circa trecento democrati. Era fra di loro Duphot, e con la
voce e coi gesti e coll'alzar il cappello gli animava a novità, e le
facevano. Bande di fanti e di cavalli li disperdevano. Correvano al
palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze l'ambasciatore di Francia,
d'onde chiamavano ad alta voce la libertà e gridavano di volerne
piantar le insegne sul Campidoglio.
Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica
i suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini,
rincacciavano verso di esso a luogo a luogo i resistenti novatori.
Fra quella mischia i ponteficii traendo d'archibuso ferivano alcuni
democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo
dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atri, le scale. Si
fermavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto
a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. I democrati
intanto, prevalendosi della sicurezza del luogo con parole e con gesti
agl'irati soldati insultavano. Non si poterono frenare, entrarono
con l'armi impugnate nel cortile. Nasceva una mischia, un gridare,
un fremere misto che meglio si può immaginare che descrivere. Indarno
mostravasi l'ambasciatore. Preso allora Duphot da empito sconsigliato,
siccome quegli che giovane subito ed animoso era, sguainata la spada,
si precipitava dalle scale e messosi coi democrati, gli animava a
voler scacciare i soldati pontificii dal cortile. In tale forte punto
i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano parecchi
furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo morì.
Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di Stato,
comandasse ai soldati che si ritirassero dai contorni del palazzo.
Rispondeva rappresentando quanto fosse difficile la condizione in cui
versava il governo del papa. Fuvvi chi, tentando di mitigare l'animo
dell'ambasciatore, voleva indurlo a far uscire dalla sua sede i nemici
del governo; alla quale richiesta non solamente non volle acconsentire,
cagionando che essi l'avevano preservato contro una nuova tragedia
Basvilliana, ma ancora più sdegnato che mai, rescriveva mandando al
cardinale una lista coi nomi degli assassini di Basville che dicea
abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente. Il governo
di Roma rispondeva di nuovo che coloro che l'ambasciatore notava nella
sua lista o in Roma non dimoravano o erano stati per esami giuridici e
per sentenze solenni conosciuti innocenti.
Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti
i passaporti, protestava di volersene partire, il che era segno di
guerra. Quindi, non avuto riguardo alle offerte di satisfazione che gli
si facevano, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di
fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse o che il
facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso
Toscana. Giunto a Parigi, rapportato il fatto nel modo più conforme
al suo intento ed a quello del direttorio, stimolava la Francia alla
guerra contro Roma.
Ordinava il pontefice rimedii spirituali di preghiere, di digiuni,
di penitenze, per ovviare alla ruina imminente. Parigi intanto veniva
fulminando: il sangue di Basville e di Duphot chiamar vendetta; doversi
disfare quel nido di assassini; l'ultima ora esser giunta della romana
tirannide; a quest'opera d'umanità esser serbata la Francia; vedrebbe
il mondo quanto avesse la repubblica a cura i suoi cittadini che vivi
li proteggeva, uccisi li vendicava. Tali erano le amplificazioni dei
tempi, e le turbe seguitavano. Il direttorio, imputando a disegno
espresso del pontefice ciò che era l'effetto fortuito di provocazioni
straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontenente
con tutto l'esercito a passi presti contro Roma.


Anno di CRISTO MDCCXCVIII. Indiz. I.
PIO VI papa 24.
FRANCESCO II imperatore 7.

Avutosi da Berthier il comandamento di marciare incontanente con tutto
lo esercito a passi presti contro Roma, quantunque se ne vivesse molto
di mala voglia per essergli venute a noia le rivoluzioni, si metteva in
assetto per mandarlo ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni,
gli comandava che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della
battaglia a Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse
discosto dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con
Rey, con mandato di osservare le bocche d'Ascoli per le quali si va
nel regno di Napoli, e di far sicure le strade degli Appenini fra
Tolentino e Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona
Dessolles, con avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese
e tenerlo purgato dai contadini Urbinati che, portando grande affezione
alla sedia apostolica, erano sempre inchinati a far moto in suo favore.
Metteva alle stanze di Rimini quattro mila Polacchi sotto la condotta
di Dombrowski, e con questi anche le legioni cisalpine, le quali
nissuna cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti di cui quei
popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte
all'ultima uccisione se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di
Francia. Così il sacco e la rapina erano usati in Italia non solamente
dai forastieri, ma ancora dagli Italiani.
Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori
Berthier da Ancona, il dì 29 gennaio, un manifesto, in cui tra le
altre cose diceva che un esercito franzese movevasi ora contro Roma,
ma che solo si muoveva per punire gli assassini del prode Duphot, per
punire quegli assassini medesimi ancora rossi del sangue dell'infelice
Basville, per castigar coloro che si erano arditi disprezzare il
carattere e la persona dell'ambasciatore di Francia; che la Francia
sapeva, essere il popolo romano innocente di tanta immanità e perfidia:
che l'esercito franzese il terrebbe indenne e sicuro da ogni oltraggio.
Poscia, rivoltosi ai soldati, gli ammoniva ed avvertiva che il popolo
romano non si era mescolato nelle scelleraggini di chi li riggeva,
l'amassero pertanto, il proteggessero; sapessero che la repubblica
comandava loro che rispettassero le persone, le proprietà, i riti ed i
templi di Roma; darebbesi pene asprissime a chi si dasse al sacco.
Ciò detto, moveva le schiere al destino loro. Le genti repubblicane,
preso Loreto e commessovi qualche sacco, posto a taglia Osimo che si
era levato a favor del papa, varcati prestamente gli Appenini, alla
appetita Roma si approssimavano. Era in questo estremo punto l'aspetto
della città vario e per ogni parte pericoloso; alcune condizioni
riguardavano le passate cose, alcune le presenti; generavansi sette ed
umori molto diversi. Il trattato di Tolentino aveva tolto al papa gran
parte della riputazione e della riverenza che prima gli portavano. Il
vedere poi la magnifica Roma spogliata dei suoi ornamenti più preziosi
partoriva sdegno ne' popoli non solamente contro gli spogliatori,
ma ancora contro il pontefice; giudicando essi sempre dagli effetti
e non dalle cagioni. Trovavasi inoltre il pontefice ridotto alla
necessità, per le stipulazioni del trattato, d'aggravare con nuove
tasse i sudditi, a fine di poter bastare alle somme esorbitanti ch'era
tenuto di sborsare alla repubblica. Quindi, speso tutto il tesoro di
San Pietro, si era dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati,
gittar nuove cedole con maggiore scapito così delle vecchie come delle
nuove, ed ordinare una tassa del cinque per centinaio su tutti i beni.
Di più si venne alla vendita del quinto dei beni ecclesiastici, il
che parve grande attentato contro le immunità ecclesiastiche, e questa
rivoluzione fu molto dannosa al pontefice, perchè gli tolse il favore
di coloro sui quali principalmente si fondava la sua potenza. Le casse
piene di gentilezze antiche, quelle che contenevano i denari estorti
con tanta difficoltà dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente
partendo e la sembianza e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani
rappresentando, accrescevano la mala contentezza e rendevano il papa
spregiato ed odioso. Nè era nascosto che le gioie stesse per la valuta
di parecchi milioni erano state poste in balia del vincitore. Per le
angustie dell'erario aveva il papa molto rimesso da quelle pompe e
da quella magnificenza con le quali era stato solito vivere. Mancato
questo splendore, si cambiava l'affetto in disprezzo.
In tanta mutazione d'animi le antiche querele si rinnovavano. I
servitori soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarii,
si lamentavano e facevano, sfrenati, un parlare perniziosissimo.
Si arrogevano i discorsi dei politici e degli amatori dell'antica
disciplina della Chiesa, gridavano quelli contro il governo di preti
inesperti, ed affermavano doversi lo Stato commettere al freno di
uomini prudenti e conoscitori delle umane cose; se Roma spirituale
periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale. I secondi
dimostravano dannosa la potenza terrena dei pontefici; esser tempo
di ridurre i costumi trascorsi della Chiesa alla semplicità antica,
e la potenza dei papi ai limiti primitivi. Le dottrine pistoiesi,
mostrandosi più spacciatamente, acquistavano maggior credito ed i
fautori loro nutrivano speranza che lo Stato della Chiesa si avesse
a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quelli degli
Apostoli.
Ma i democrati, che non amavano meglio una religione riformata che
uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche al papa,
ed avendo ardente desiderio della vittoria de' Franzesi, pigliavano
novelli spiriti, e, più vivamente operando, minacciavano prossima la
ruina al reggimento antico. Sentivano e vedevano i raggiratori della
turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano che potessero porvi
rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma il
tempo era più forte di loro e la proibizione accresceva la licenza.
Così lo stringere e l'allentare il freno era parimente esiziale al
papa, crollavasi lo Stato già prima che Francia gli desse la ultima
spinta. Il pontefice, abbandonato da que' primi rumori da quasi tutti
i cardinali, trovava un debole conforto di parole nel cardinale
Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel principe Belmonte
Pignatelli, mandato a lui dal re di Napoli, e finalmente nel cavaliere
Azzara, ministro di Spagna. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile,
ordinava ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza,
e si ritirassero con quel passo con cui i Franzesi si avvicinavano;
pensava alla quiete di Roma, ingrossando il presidio; perchè non voleva
che l'anarchia precedesse la conquista.
Il dì 10 febbraio molto per tempo si mostravano i repubblicani
sui romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee,
piantavano cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da
Azzara e da alcuni cardinali, entravano nella magnifica Roma il
giorno medesimo e, fatto sloggiare dal Castel Sant'Angelo il presidio
pontificio, l'occupavano. Pretendevano anche, condotti da Cervoni,
i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi primi
ufficiali e scortato da grosse squadre di cavalleria, entrava il dì
11 trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti promettitori
di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla religione si
affiggevano su per le mura. Alloggiava Berthier nel Quirinale, mandava
Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice, assicurandolo
della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì medesimo del
suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo occupava
Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nessun canto; che
un solo democrata era venuto a trovarlo offrendogli di dar libertà
a due mila galeotti. Dava speranze e faceva promesse d'aiuto ai
novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse e
questi incitamenti sortivano lo effetto; il giorno 15 di febbraio,
correndo l'anniversario della incoronazione del pontefice, che a quel
dì medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per
tutta Roma un moto grandissimo di gente che chiamava la libertà, e,
mossa fin su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco
non so qual fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino.
La folla, le grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti
correvano per vedere, alcuni per aiutare, nissuno per contrastare,
perchè le pattuglie repubblicane che giravano, impedivano ogni
moto contrario. Giunta che fu quella immensa frotta dirimpetto al
Campidoglio, crescendo vieppiù le grida e lo schiamazzo, a fronte
del famoso colle rizzava l'albero con una berretta in cima, e
viemmaggiormente infiammandosi a tale vista, gridava _libertà,
libertà_! nè contenti a questo, i capi givano ad alta voce interrogando
gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava tutto Campo Vaccino
del sì. Seguitavano capi a domandare: È _volontà questa del popolo
Romano?_ Di nuovo risuonava il Campo Vaccino del sì. Cinque notai
richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo romano sovrano e libero
aveva vendicato i suoi diritti, che libero e franco si dichiarava, che
al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva libero vivere
e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar dei cappelli,
l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger della gioia, il rider
per pazzia che sorsero, non son cose che da umana penna si possano
agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro i cardinali,
e le ipotiposi sui vizii della corte romana andavano all'eccesso. Gli
atti e gli scherzi che si fecero, non sono da raccontarsi.
Rogato l'atto, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta
perchè l'atto medesimo portassero a Berthier e gli raccomandassero la
novella repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore
per la porta del Popolo il generale di Francia, con magnifico
corteggio dietro ed intorno di splendidi ufficiali e di cento cavalli
eletti da ciascun reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli
stromenti della musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non
così tosto compariva alla porta del Popolo, che era presentato di una
corona dai capi in nome del popolo romano. L'accettava, protestando
ch'ella di ragione apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese
avevano preparato la libertà romana. Salito in Campidoglio bandiva la
repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della Francia,
lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di Scipione.
Queste cose si facevano veggendo ed udendo dalle stanze del deserto
Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante giorno
e la seguente notte canti, balli e rallegramenti di ogni forma.
La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava; scriveva
il direttorio nella solita lingua servile, per mezzo del presidente,
ai legislatori cisalpini mille esagerazioni. Queste erano le poesie, o,
per parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi.
Fra mezzo a tanta ruina continuava a starsene nelle sue stanze del
Vaticano papa Pio VI con qualche apparato di sovranità. Ma in quello
stato di Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui, per
la dignità, nè pei repubblicani per la sicurezza. In oltre, l'opera
del direttorio doveva consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar
carcerati in Castel Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case, alcuni
cardinali ed altri personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi
dal Vaticano la guardia svizzera con dolore vivissimo del pontefice,
che non se ne poteva dar pace; vi surrogavano la guardia franzese.
E qui la verità vuol che si dica che il venerando Pio, ridotto in
caso di sì estremo abbassamento, non andava esente da parte di alcuni
repubblicani di Francia da scherni tali che l'ammazzarlo sarebbe
stato poco maggiore mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio:
Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze
del pontefice, in nome della repubblica Franzese gl'intimava che
si dispogliasse della sovranità temporale. Rispondeva Pio, avere la
sua temporale sovranità ricevuto da Dio e per libera elezione degli
uomini; non potere nè volere rinunziarvi; alla età sua di ottant'anni
potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi; essere parato a qualunque
strazio; essere stato creato papa con piena potestà; volere, per quanto
in lui fosse, papa morire con piena potestà; usassero la forza, poichè
in mano l'avevano, ma avvertissero che se avevano in poter loro il
corpo, non avevano parimenti l'animo, il quale, in più libera regione
spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi un'altra vita per lui
oggimai vicina, in lei nulla gli empi, nulla i prepotenti potrebbero.
Restava, poichè l'animo non avevano potuto vincere, che vincessero il
corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle romane finanze
era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava,
tempo due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere
resistere alla forza; ma volere che il mondo sapesse che sforzato il
proprio gregge abbandonava.
Il dì 20 febbraio sforzavano i repubblicani il papa a partire. Lasciava
Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai. L'accompagnavano
solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa, oltre alcuni
addetti ai servigi domestici, monsignor Incio Caracciolo di Martina,
suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di retorica