Annali d'Italia, vol. 8 - 53
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Da ciò, di passo in passo e di mena in mena, vennero quelle risoluzioni
del direttorio che resero tanto famoso il dì 18 fruttidoro, anno
V della repubblica, o il 4 settembre del presente anno. Per esse
si carceravano ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano
Barthelemi, Pichegru e gli altri capi della congiura. Alcuni, e
fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono
in forastiere terre scampo contro chi li chiamava a prigione ed a
morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale, affortificatosi
il direttorio coll'esclusione dei dissidenti e coll'unione dei
consenzienti e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la
somma delle cose e pareva che vieppiù avesse confermato la repubblica.
Tornato vano questo tentativo, i confederati si gettarono ad un altro
cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Volgevansi a Buonaparte, e gli venivano dicendo le cose più
incalzanti. Le esortazioni lo muovevano; ma da Borboni a repubblica ei
non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio,
ed anche la felicità o le disgrazie umane troppo nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito che quello che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue mire. Si mostrava pertanto disposto a fare
quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo di favorirsi del
consentimento e cooperazione altrui per arrivare alla potestà suprema
di Francia.
Dato in tal modo intenzione ai confederati, aveva procurato la libertà
al conte d'Entraigues, ministro molto fidato di Luigi XVIII, fatto già
arrestare in Trieste e condurre gelosissimamente custodito nel castello
di Milano, e mandato in Russia, dove l'imperadore Paolo, succeduto alla
sua madre Caterina, piegavasi con divenire molto meno acerbo verso
la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si
fecero assai più morbidi per modo che non tardarono ad avvicinarsi
alla conclusione. Tutti i disegni molto gli arridevano e quantunque
fosse uomo di natura molto coperta e di pensieri cupissimi, tuttavia si
lasciava di quando in quando uscir di bocca certi moti, che disvelavano
la sua intenzione e le fatte macchinazioni.
Frattanto la necessità in cui si trovava il direttorio di rammollire
con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile
rivoluzione del 4 settembre operava di modo che, rimosse da ambe
le parti tutte le difficoltà, si veniva il giorno 17 ottobre alla
conclusione nella villa di Campoformio di un trattato di pace in
cui fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica
Franzese si avesse i Paesi Bassi; che lo imperatore consentisse che
le isole venete dell'Arcipelago e dell'Ionio, e così ancora tutte le
possessioni della veneta repubblica in Albania, cedessero in potestà
della Francia; che la repubblica Franzese consentisse che l'imperadore
possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la
Dalmazia, le isole venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro e tutti
i paesi situati fra i suoi stati ereditarii ed il mezzo del lago di
Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto Legnago, e
finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina
comprendesse la Lombardia austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il
Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera e tutta la parte
degli Stati veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini
sovraddescritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente compenso
al duca di Modena; che finalmente i potenziarii di Francia e d'Austria
convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'impero
d'Alemagna.
A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza
pe' quali l'imperadore consentiva che la Francia acquistasse certi
territorii germanici infino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominii
una parte del circolo di Baviera.
Fatto il trattato di Campoformio ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dell'Italia per andare a Rastadt. Quale
e quanto da quella diversa la lasciasse che nel suo primo ingresso
la aveva trovata, facilmente concepirà colui che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi già raccontati. Le difese delle Alpi
prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica
di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio; ora
disfatto ed in licenze convertito l'antichissimo governo, fatta
provincia e sensale di Francia; un duca di Parma, ingannato dalle
speranze di Spagna e taglieggiato da genti oscurissime; un duca di
Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa, schernito e spogliato;
un regno di Napoli, poco sicuro e per poca sicurezza crudo;
un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo e gran parte
della civiltà moderna, condotta all'ultimo fine, prima dagl'inganni,
poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato
in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di
governo forastiero, e là dove una volta addottrinavano le genti con
dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria ed i Verri, farla da
maestri i Beauvinais ed i Prelli. A questo, le opere di Tiziano e di
Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze di soldati strani; una
lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni
volti alla adulazione; le ambizioni svegliate, le virtù schernite,
i vizi lodati, e, per giunta, il che fu il pessimo de' mali, uomini
virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o
per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage de'
tempi. In tanto male, nissun lume di bene; perchè nè a quali governi
avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano
corrotti, i fondamenti pubblici estranei, e, se fosse mancata o la mano
franzese o la potenza tedesca, nissuno poteva congetturare che cosa
fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva se la indipendenza non
fosse per diventare condizione peggiore della servitù. Così corrotte le
speranze e cambiati i tempi erano succeduti ai benefizii di Giuseppe,
di Leopoldo, di Beccaria e di Filangeri una rapina incredibile, una
tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo
di vedere allontanato quel bene ch'essi avevano tanto vicino e tanto
soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia
contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte e sanguinose,
le lacerava anche la fama.
Ora, tornando alla pace conchiusa, restava che le stipulazioni
di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di
raccontare la consegna fatta di quella città, è indispensabile andar
brevemente rammemorando quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico Stato veneto e nella metropoli
stessa innanzi che i capitoli di Campoformio si pubblicassero, e
dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto
il nuovo, al quale non si sa qual nome dare.
Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi
fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano
alle parti, chi seguitando i modi dei democrati franzesi più ardenti
a' tempi delle rivoluzioni, e chi accostandosi a pensieri più miti
e più temperati; quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da
altri giacobini; questi presso alcuni avevano nome di veri amatori
della libertà, presso altri, di aristocrati. Seguitavano queste parti
i Veneziani, pochi con que' primi consentendo, molti, fra' quali
i nobili, per lo minor male si accostavano ai secondi. Sedevano i
municipali, pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le
discussioni e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e
trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia,
anche posta al giogo forastiero, parteggiava; tutti però in questo
consentivano, ch'ella intiera si conservasse.
Perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano
delegati e lettere a tutte le città del dominio veneto, dando loro
parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia,
ed invitandole ad accomunarsi ed incorporarsi con esso lei. Ma i
patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime
mire che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna e
dominatrice, avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Anzi una
nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta
la terraferma contro Venezia. Poichè poi gli odii già tanto intensi
vieppiù si invelenissero, li rinfiammavano, non solo colle parole, ma
ancora con gli scritti: Victor generale, che aveva le sue stanze in
Padova, esortava con lettere pubbliche e con parole molto veementi i
municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco ed a
diffidarsi de' municipali di Venezia.
I democrati, facevano quello, e più di quello a che gli aveva esortati
Victor. E appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia,
si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette cisalpine; anzi i
Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre
ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorii, cosa che solo
contro ad un nemico, e forse nemmeno a chi fosse nemico in guerra, non
si sarebbe usata.
Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani
e del Dandolo, di riputazione, ma ancor più di potenza, essendole
occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di
amicizia, i suoi dominii verso levante. Veniva di leggieri fatta
l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non
s'erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome
veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza austriaca, perchè
l'imperio franzese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro,
stimavano odioso.
Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti
atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi
per antica consuetudine al nome franzese, e delle nuove opinioni per
lontananza e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche
giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni e le ruine
d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno
recente. A questo si aggiungeva che i soldati della loro nazione,
che in Venezia ed in Verona ed in altre piazze venete erano stati di
presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che
verso di loro avevano usato i repubblicani, troppo intemperanti della
vittoria. Udite poi le veneziane cose e come e quanto i municipali
di Venezia trascorressero nelle opinioni e nei costumi nuovi, si
erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente che non
avrebbero più comportato che s'ingerissero nelle loro faccende. Già
minaccie annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro
gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi
furono i villani ed i montanari di Traù e di Sebenico, i quali, scesi
a furia commettevano atti di estrema barbarie; ucciso il Dalmata
che fungeva le veci di console di Francia con tutta la sua famiglia;
saccheggiate le case dei deputati eletti dai municipali di Venezia
ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, ed i lor parenti perseguitati e
parte uccisi. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole
vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni e
di sangue.
Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattro mila
soldati imperiali e vi giungevano parte sul finire di giugno, parte al
cominciar di luglio. Accettavano i Zaratini lietamente gli Austriaci
a sicurtà contro l'anarchia: giuravano fede all'imperatore tutti i
magistrati e circa due mila soldati veneti che si trovavano in quella
fortezza per presidio. Dopo Zara restava che si occupasse il rimanente
della provincia. Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di
Trieste, occupava Spalatro, Clissa e Singo, per terra; per mare entrava
Roccavina in Sebenico, dov'era accolto con molta allegrezza, perchè
la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove
infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva
quindi dai monti con una mano di Ungari di Transilvani, il conte di
Warstensleben, e si univa a Roccavina, e così insieme occupavano i siti
importantissimi delle Bocche di Cattaro. La Dalmazia tutta e l'Albania
veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore. A questo modo si
andava sfasciando appoco appoco l'antichissimo imperio dei Veneziani.
A novità di tanto momento si risentivano i municipali di Venezia e
facevano istanze presso Buonaparte e il direttorio, domandando che
la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse.
Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi
che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato da
Buonaparte ai municipali veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse
quale ministro loro. Querelavasi anche gravemente Sanfermo mandato
dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso
il direttorio di Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non
dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a
rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati che
Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza
che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si
restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni.
Era necessario che le isole del Levante veneto venissero in potestà dei
Franzesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato che con accordo
dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri
a Corfù, isola per la grandezza e la fortezza molto principale in
quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche
perchè vi erano fornimenti di marineria di molta importanza, aveva,
per mezzo del direttorio, dato ordine che al tempo medesimo da Tolone
l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata.
Erano a quei tempi le isole del Levante veneto rette con dolce e giusto
freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, il quale aveva
con tanta efficacia e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon
naturale operato che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili,
malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia,
fermamente si conservassero affezionate al nome veneziano. Quando poi
incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto
a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome
quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica
repubblica, nondimeno pensando che, se era perduto lo stato vecchio,
gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese al quale era suo
debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti per
farli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque
avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a
cagione dell'amore che generalmente gli era portato.
Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali
di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi
distrutta l'aristocrazia ed allargato il governo alla democrazia.
Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti;
ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era
creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli
abitatori delle isole e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli;
manderebbero due commissarii per metter all'ordine il nuovo Stato;
Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata e con sei
mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere veneziani o
franzesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza
sua gli animi; spiasse bene e raffrenasse coloro che fossero di
genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone
prudenti e religiose di ogni rito; soprattutto impedisse, che gli
uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto;
in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali
ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella
temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo
accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa
terra, adunava Vidiman i primarii magistrati sì civili che militari, e
leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione
ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono
rassegnazione, ignari ancora a che cosa li serbassero i fati.
Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchi necessarii per la
spedizione di Levante. Intendeva il direttorio al far uscire da
Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte d'armata veneziana,
che sull'ancore se ne stava nel porto. Perilchè si appresentava
Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali franzesi da mare che
dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con
parole melliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando
la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo che tutte le
forze franzesi si adoprerebbe perchè ella fosse restituita alla antica
sua grandezza. Si destinava a governar le genti da terra il generale
Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdé. Molte navi atte
a trasportar soldati l'accompagnavano, empiute di Franzesi la maggior
parte della settuagesimanona. Volle Buonaparte, poichè si trattava di
andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, in cui
aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle
antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli.
Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù
per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se
arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con sè danaro
per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli
amministratori che mandavano nelle isole, sei mila zecchini.
Appariva il dì 28 giugno nel porto de' Corfiotti l'armata apportatrice
dei soldati stranieri. Vidiman e gl'isolani molto si maravigliarono
al vedere insegne ed uomini franzesi in luogo d'insegne e d'uomini
veneziani. Suonavano a festa il dì 29 gli stromenti da guerra; i
nuovi repubblicani sbarcavano. Venivano i magistrati a far riverenza
agl'insoliti signori.
Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava
nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua
volontà qualunque cosa ei volesse. Poi s'impadroniva dei magazzini
del pubblico e di tutte le artiglierie ch'erano belle ed in numero
considerabile.
A Gentili succedeva Bourdé, che poneva le mani addosso ai magazzini di
mare ed a sei navi di fila e tre fregate veneziane. Gentili intanto i
sei mila zecchini mandati da Venezia recava in suo potere per dar le
paghe a' suoi soldati ed agli amministratori venuti con lui.
Posto il piede e confermato il dominio franzese nell'isola principale
di Corfù, mandavano Gentili e Bourdé forze di terra e da mare a prender
possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo.
Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primarii
abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali nominavano
Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità.
A Venezia dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da
sè, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa
Pisani con fasto grande e con carico gravissimo di quella famiglia;
i municipali non deliberavano se non sentito lui; i posti principali
erano custoditi dai Franzesi; i municipali, chi per forza, chi per
prudenza, chi per adulazione, servivano a Baraguey. Villetard, siccome
giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo
democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè
gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come
era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si
vedeva. S'incominciava a dar mano alle opere gentili insino a tanto
che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e
più prezioso avevano prodotto gli scarpelli od i pennelli o le penne
greche, latine ed italiane era rapito dagli strani amici. Le gallerie,
le librerie, i templi, i musei sì pubblici che privati diligentemente
si scrutavano e violentemente si sfioravano.
Il palazzo pubblico di Venezia fu dei più preziosi ornamenti espilato.
Con pari rabbia fu la galleria privata dei nobili Bevilacqua di
Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di
Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini,
di Mantegna, tanto care ai Veneziani e per bellezza propria e per
essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne
andavano ad ornare forestieri e lontani lidi. Molte statue di bassi
rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio,
e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla libreria
pubblica di Venezia e dalla galleria Bevilacqua. Nè i camei, opere
preziose, si risparmiavano, e fra di loro quello tanto famoso che
rappresentava Giove Egioco. Sessantanove medaglie greche o romane
erano levate dai privati musei dei Muselli e dei Verità di Verona.
Dei manoscritti, con grandissimo dolore degl'Italiani, dalla sola
libreria di Venezia più di duecento greci o latini o italiani o arabi,
o in carta pergamena, o carta usuale o in carta di seta, saziavano le
voglie dei repubblicani d'oltramonti. Sentivano la comune spogliazione
le librerie pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso e di
San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono
settantasei testi a penna preziosissimi. Alle medesime espilazioni
andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la
Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosia
si custodivano nelle librerie di Venezia, Treviso, Padova, Verona e
san-Daniele. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura
dei templi, dei musei e delle librerie. Restava il più bello e più
glorioso segno della grandezza veneziana, che sull'anteriore faccia del
principal tempio di Venezia dimostrava quale fosse stato anticamente
il valore di questa generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come
si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re
di Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati
finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Franzesi, ch'ebbero
in sorte altre costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal
doge Pietro Ziani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico
della gente veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld che questi cavalli
restassero a Venezia: spiacevagli altresì che i leoni conquistati dal
valore del Morosini nel Pireo continuassero a starsene nella sede
loro, segni della veneziana gloria. Ne gli spiacque e ne scrisse
a Buonaparte. Cavalli e leoni furono per suo comandamento condotti
in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto
dolore loro che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite
che dolorose. Alcuni dicevano e tuttavia dicono che questi spogli si
eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva
voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver
per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo
di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue
peggiori condizioni contro Venezia e di non osservar quelle che erano
in suo favore.
Non solo gli ornamenti e le ricchezze veneziane si trasportavano, ma
quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano.
Erasi il duca di Modena, come si è detto, fuggendo la furia dei
repubblicani, ricoverato in Venezia; poi giù romoreggiando le armi
loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, s'era per sua sicurezza
ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè
credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o
non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per
la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli
agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che
fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti
tostamente si calavano e circondato improvvisamente con soldatesche
armate il palazzo in San Pontaleone, dove aveva abitato il duca,
cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò
fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria.
Perlochè fatto armata mano improvviso insulto contro di essa, e
ricercato in ogni canto, trovarono il denaro e via se lo portavano;
furono, come portò la fama, circa duecento mila zecchini. I Modenesi
erano venuti a Venezia per averselo; ma ei furon novelle. Gli agenti li
serbarono, dissero, per la cassa militare.
Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande
apparato di soldati, perchè, sebbene fossero i piè dei Veneziani
in ceppi, si temeva che ad un bel levarsi il popolo prorompesse
e rivendicasse alla patria, con qualche solenne precipizio
degl'involatori, le gloriose spoglie. Accresceva il timore il
pensare che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre
rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli.
Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro che
aveva in titolo: _I Romani in Grecia_, e che fu generalmente creduto
opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei
Romani in Grecia simboleggiando i Franzesi in Italia, eccitava i
popoli italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione.
Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni
dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava e più era letto.
Villelard istesso il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche
sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome franzese.
Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello
che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia
ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e
che stimolava i popoli a correre armati contro i Franzesi, partoriva un
effetto incredibile.
Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze
tristi e funeste. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di
san Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero
della libertà. Avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta
a San Marco un'ampia loggia a cui si saliva per due scale laterali
ornate di vaghi fiori e di arbusti odoriferi. Da ambi i lati della
loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con
insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella
ducale. Due altre logge adorne e belle si vedevano in mezzo alla
piazza e davanti alle procuratie, con orchestre pure a lato. Gli archi
delle procuratie e così ancora la chiesa di San Marco comparivano
alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati.
Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto
dell'albero. Ed ecco alle diciassette italiane comparire con solenne
comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano
i municipali. Quindi poscia essendosi congiunti col corteggio del
generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnavano, gli
strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano. Intanto
giva la processione; soldati italiani precedevano, seguitavano due
fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una
giovane che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con
istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in
addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso; i consoli delle nazioni,
e i magistrati sì civili che militari e i capi delle arti coi simboli
delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da
musica militare, i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto
ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato
del direttorio che resero tanto famoso il dì 18 fruttidoro, anno
V della repubblica, o il 4 settembre del presente anno. Per esse
si carceravano ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano
Barthelemi, Pichegru e gli altri capi della congiura. Alcuni, e
fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono
in forastiere terre scampo contro chi li chiamava a prigione ed a
morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale, affortificatosi
il direttorio coll'esclusione dei dissidenti e coll'unione dei
consenzienti e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la
somma delle cose e pareva che vieppiù avesse confermato la repubblica.
Tornato vano questo tentativo, i confederati si gettarono ad un altro
cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Volgevansi a Buonaparte, e gli venivano dicendo le cose più
incalzanti. Le esortazioni lo muovevano; ma da Borboni a repubblica ei
non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio,
ed anche la felicità o le disgrazie umane troppo nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito che quello che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue mire. Si mostrava pertanto disposto a fare
quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo di favorirsi del
consentimento e cooperazione altrui per arrivare alla potestà suprema
di Francia.
Dato in tal modo intenzione ai confederati, aveva procurato la libertà
al conte d'Entraigues, ministro molto fidato di Luigi XVIII, fatto già
arrestare in Trieste e condurre gelosissimamente custodito nel castello
di Milano, e mandato in Russia, dove l'imperadore Paolo, succeduto alla
sua madre Caterina, piegavasi con divenire molto meno acerbo verso
la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si
fecero assai più morbidi per modo che non tardarono ad avvicinarsi
alla conclusione. Tutti i disegni molto gli arridevano e quantunque
fosse uomo di natura molto coperta e di pensieri cupissimi, tuttavia si
lasciava di quando in quando uscir di bocca certi moti, che disvelavano
la sua intenzione e le fatte macchinazioni.
Frattanto la necessità in cui si trovava il direttorio di rammollire
con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile
rivoluzione del 4 settembre operava di modo che, rimosse da ambe
le parti tutte le difficoltà, si veniva il giorno 17 ottobre alla
conclusione nella villa di Campoformio di un trattato di pace in
cui fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica
Franzese si avesse i Paesi Bassi; che lo imperatore consentisse che
le isole venete dell'Arcipelago e dell'Ionio, e così ancora tutte le
possessioni della veneta repubblica in Albania, cedessero in potestà
della Francia; che la repubblica Franzese consentisse che l'imperadore
possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la
Dalmazia, le isole venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro e tutti
i paesi situati fra i suoi stati ereditarii ed il mezzo del lago di
Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto Legnago, e
finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina
comprendesse la Lombardia austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il
Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera e tutta la parte
degli Stati veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini
sovraddescritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente compenso
al duca di Modena; che finalmente i potenziarii di Francia e d'Austria
convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'impero
d'Alemagna.
A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza
pe' quali l'imperadore consentiva che la Francia acquistasse certi
territorii germanici infino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominii
una parte del circolo di Baviera.
Fatto il trattato di Campoformio ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dell'Italia per andare a Rastadt. Quale
e quanto da quella diversa la lasciasse che nel suo primo ingresso
la aveva trovata, facilmente concepirà colui che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi già raccontati. Le difese delle Alpi
prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica
di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio; ora
disfatto ed in licenze convertito l'antichissimo governo, fatta
provincia e sensale di Francia; un duca di Parma, ingannato dalle
speranze di Spagna e taglieggiato da genti oscurissime; un duca di
Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa, schernito e spogliato;
un regno di Napoli, poco sicuro e per poca sicurezza crudo;
un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo e gran parte
della civiltà moderna, condotta all'ultimo fine, prima dagl'inganni,
poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato
in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di
governo forastiero, e là dove una volta addottrinavano le genti con
dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria ed i Verri, farla da
maestri i Beauvinais ed i Prelli. A questo, le opere di Tiziano e di
Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze di soldati strani; una
lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni
volti alla adulazione; le ambizioni svegliate, le virtù schernite,
i vizi lodati, e, per giunta, il che fu il pessimo de' mali, uomini
virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o
per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage de'
tempi. In tanto male, nissun lume di bene; perchè nè a quali governi
avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano
corrotti, i fondamenti pubblici estranei, e, se fosse mancata o la mano
franzese o la potenza tedesca, nissuno poteva congetturare che cosa
fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva se la indipendenza non
fosse per diventare condizione peggiore della servitù. Così corrotte le
speranze e cambiati i tempi erano succeduti ai benefizii di Giuseppe,
di Leopoldo, di Beccaria e di Filangeri una rapina incredibile, una
tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo
di vedere allontanato quel bene ch'essi avevano tanto vicino e tanto
soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia
contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte e sanguinose,
le lacerava anche la fama.
Ora, tornando alla pace conchiusa, restava che le stipulazioni
di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di
raccontare la consegna fatta di quella città, è indispensabile andar
brevemente rammemorando quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico Stato veneto e nella metropoli
stessa innanzi che i capitoli di Campoformio si pubblicassero, e
dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto
il nuovo, al quale non si sa qual nome dare.
Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi
fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano
alle parti, chi seguitando i modi dei democrati franzesi più ardenti
a' tempi delle rivoluzioni, e chi accostandosi a pensieri più miti
e più temperati; quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da
altri giacobini; questi presso alcuni avevano nome di veri amatori
della libertà, presso altri, di aristocrati. Seguitavano queste parti
i Veneziani, pochi con que' primi consentendo, molti, fra' quali
i nobili, per lo minor male si accostavano ai secondi. Sedevano i
municipali, pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le
discussioni e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e
trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia,
anche posta al giogo forastiero, parteggiava; tutti però in questo
consentivano, ch'ella intiera si conservasse.
Perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano
delegati e lettere a tutte le città del dominio veneto, dando loro
parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia,
ed invitandole ad accomunarsi ed incorporarsi con esso lei. Ma i
patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime
mire che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna e
dominatrice, avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Anzi una
nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta
la terraferma contro Venezia. Poichè poi gli odii già tanto intensi
vieppiù si invelenissero, li rinfiammavano, non solo colle parole, ma
ancora con gli scritti: Victor generale, che aveva le sue stanze in
Padova, esortava con lettere pubbliche e con parole molto veementi i
municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco ed a
diffidarsi de' municipali di Venezia.
I democrati, facevano quello, e più di quello a che gli aveva esortati
Victor. E appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia,
si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette cisalpine; anzi i
Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre
ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorii, cosa che solo
contro ad un nemico, e forse nemmeno a chi fosse nemico in guerra, non
si sarebbe usata.
Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani
e del Dandolo, di riputazione, ma ancor più di potenza, essendole
occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di
amicizia, i suoi dominii verso levante. Veniva di leggieri fatta
l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non
s'erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome
veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza austriaca, perchè
l'imperio franzese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro,
stimavano odioso.
Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti
atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi
per antica consuetudine al nome franzese, e delle nuove opinioni per
lontananza e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche
giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni e le ruine
d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno
recente. A questo si aggiungeva che i soldati della loro nazione,
che in Venezia ed in Verona ed in altre piazze venete erano stati di
presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che
verso di loro avevano usato i repubblicani, troppo intemperanti della
vittoria. Udite poi le veneziane cose e come e quanto i municipali
di Venezia trascorressero nelle opinioni e nei costumi nuovi, si
erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente che non
avrebbero più comportato che s'ingerissero nelle loro faccende. Già
minaccie annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro
gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi
furono i villani ed i montanari di Traù e di Sebenico, i quali, scesi
a furia commettevano atti di estrema barbarie; ucciso il Dalmata
che fungeva le veci di console di Francia con tutta la sua famiglia;
saccheggiate le case dei deputati eletti dai municipali di Venezia
ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, ed i lor parenti perseguitati e
parte uccisi. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole
vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni e
di sangue.
Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattro mila
soldati imperiali e vi giungevano parte sul finire di giugno, parte al
cominciar di luglio. Accettavano i Zaratini lietamente gli Austriaci
a sicurtà contro l'anarchia: giuravano fede all'imperatore tutti i
magistrati e circa due mila soldati veneti che si trovavano in quella
fortezza per presidio. Dopo Zara restava che si occupasse il rimanente
della provincia. Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di
Trieste, occupava Spalatro, Clissa e Singo, per terra; per mare entrava
Roccavina in Sebenico, dov'era accolto con molta allegrezza, perchè
la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove
infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva
quindi dai monti con una mano di Ungari di Transilvani, il conte di
Warstensleben, e si univa a Roccavina, e così insieme occupavano i siti
importantissimi delle Bocche di Cattaro. La Dalmazia tutta e l'Albania
veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore. A questo modo si
andava sfasciando appoco appoco l'antichissimo imperio dei Veneziani.
A novità di tanto momento si risentivano i municipali di Venezia e
facevano istanze presso Buonaparte e il direttorio, domandando che
la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse.
Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi
che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato da
Buonaparte ai municipali veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse
quale ministro loro. Querelavasi anche gravemente Sanfermo mandato
dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso
il direttorio di Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non
dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a
rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati che
Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza
che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si
restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni.
Era necessario che le isole del Levante veneto venissero in potestà dei
Franzesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato che con accordo
dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri
a Corfù, isola per la grandezza e la fortezza molto principale in
quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche
perchè vi erano fornimenti di marineria di molta importanza, aveva,
per mezzo del direttorio, dato ordine che al tempo medesimo da Tolone
l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata.
Erano a quei tempi le isole del Levante veneto rette con dolce e giusto
freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, il quale aveva
con tanta efficacia e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon
naturale operato che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili,
malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia,
fermamente si conservassero affezionate al nome veneziano. Quando poi
incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto
a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome
quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica
repubblica, nondimeno pensando che, se era perduto lo stato vecchio,
gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese al quale era suo
debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti per
farli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque
avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a
cagione dell'amore che generalmente gli era portato.
Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali
di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi
distrutta l'aristocrazia ed allargato il governo alla democrazia.
Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti;
ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era
creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli
abitatori delle isole e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli;
manderebbero due commissarii per metter all'ordine il nuovo Stato;
Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata e con sei
mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere veneziani o
franzesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza
sua gli animi; spiasse bene e raffrenasse coloro che fossero di
genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone
prudenti e religiose di ogni rito; soprattutto impedisse, che gli
uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto;
in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali
ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella
temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo
accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa
terra, adunava Vidiman i primarii magistrati sì civili che militari, e
leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione
ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono
rassegnazione, ignari ancora a che cosa li serbassero i fati.
Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchi necessarii per la
spedizione di Levante. Intendeva il direttorio al far uscire da
Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte d'armata veneziana,
che sull'ancore se ne stava nel porto. Perilchè si appresentava
Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali franzesi da mare che
dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con
parole melliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando
la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo che tutte le
forze franzesi si adoprerebbe perchè ella fosse restituita alla antica
sua grandezza. Si destinava a governar le genti da terra il generale
Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdé. Molte navi atte
a trasportar soldati l'accompagnavano, empiute di Franzesi la maggior
parte della settuagesimanona. Volle Buonaparte, poichè si trattava di
andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, in cui
aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle
antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli.
Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù
per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se
arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con sè danaro
per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli
amministratori che mandavano nelle isole, sei mila zecchini.
Appariva il dì 28 giugno nel porto de' Corfiotti l'armata apportatrice
dei soldati stranieri. Vidiman e gl'isolani molto si maravigliarono
al vedere insegne ed uomini franzesi in luogo d'insegne e d'uomini
veneziani. Suonavano a festa il dì 29 gli stromenti da guerra; i
nuovi repubblicani sbarcavano. Venivano i magistrati a far riverenza
agl'insoliti signori.
Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava
nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua
volontà qualunque cosa ei volesse. Poi s'impadroniva dei magazzini
del pubblico e di tutte le artiglierie ch'erano belle ed in numero
considerabile.
A Gentili succedeva Bourdé, che poneva le mani addosso ai magazzini di
mare ed a sei navi di fila e tre fregate veneziane. Gentili intanto i
sei mila zecchini mandati da Venezia recava in suo potere per dar le
paghe a' suoi soldati ed agli amministratori venuti con lui.
Posto il piede e confermato il dominio franzese nell'isola principale
di Corfù, mandavano Gentili e Bourdé forze di terra e da mare a prender
possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo.
Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primarii
abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali nominavano
Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità.
A Venezia dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da
sè, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa
Pisani con fasto grande e con carico gravissimo di quella famiglia;
i municipali non deliberavano se non sentito lui; i posti principali
erano custoditi dai Franzesi; i municipali, chi per forza, chi per
prudenza, chi per adulazione, servivano a Baraguey. Villetard, siccome
giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo
democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè
gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come
era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si
vedeva. S'incominciava a dar mano alle opere gentili insino a tanto
che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e
più prezioso avevano prodotto gli scarpelli od i pennelli o le penne
greche, latine ed italiane era rapito dagli strani amici. Le gallerie,
le librerie, i templi, i musei sì pubblici che privati diligentemente
si scrutavano e violentemente si sfioravano.
Il palazzo pubblico di Venezia fu dei più preziosi ornamenti espilato.
Con pari rabbia fu la galleria privata dei nobili Bevilacqua di
Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di
Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini,
di Mantegna, tanto care ai Veneziani e per bellezza propria e per
essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne
andavano ad ornare forestieri e lontani lidi. Molte statue di bassi
rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio,
e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla libreria
pubblica di Venezia e dalla galleria Bevilacqua. Nè i camei, opere
preziose, si risparmiavano, e fra di loro quello tanto famoso che
rappresentava Giove Egioco. Sessantanove medaglie greche o romane
erano levate dai privati musei dei Muselli e dei Verità di Verona.
Dei manoscritti, con grandissimo dolore degl'Italiani, dalla sola
libreria di Venezia più di duecento greci o latini o italiani o arabi,
o in carta pergamena, o carta usuale o in carta di seta, saziavano le
voglie dei repubblicani d'oltramonti. Sentivano la comune spogliazione
le librerie pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso e di
San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono
settantasei testi a penna preziosissimi. Alle medesime espilazioni
andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la
Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosia
si custodivano nelle librerie di Venezia, Treviso, Padova, Verona e
san-Daniele. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura
dei templi, dei musei e delle librerie. Restava il più bello e più
glorioso segno della grandezza veneziana, che sull'anteriore faccia del
principal tempio di Venezia dimostrava quale fosse stato anticamente
il valore di questa generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come
si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re
di Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati
finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Franzesi, ch'ebbero
in sorte altre costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal
doge Pietro Ziani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico
della gente veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld che questi cavalli
restassero a Venezia: spiacevagli altresì che i leoni conquistati dal
valore del Morosini nel Pireo continuassero a starsene nella sede
loro, segni della veneziana gloria. Ne gli spiacque e ne scrisse
a Buonaparte. Cavalli e leoni furono per suo comandamento condotti
in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto
dolore loro che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite
che dolorose. Alcuni dicevano e tuttavia dicono che questi spogli si
eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva
voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver
per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo
di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue
peggiori condizioni contro Venezia e di non osservar quelle che erano
in suo favore.
Non solo gli ornamenti e le ricchezze veneziane si trasportavano, ma
quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano.
Erasi il duca di Modena, come si è detto, fuggendo la furia dei
repubblicani, ricoverato in Venezia; poi giù romoreggiando le armi
loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, s'era per sua sicurezza
ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè
credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o
non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per
la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli
agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che
fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti
tostamente si calavano e circondato improvvisamente con soldatesche
armate il palazzo in San Pontaleone, dove aveva abitato il duca,
cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò
fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria.
Perlochè fatto armata mano improvviso insulto contro di essa, e
ricercato in ogni canto, trovarono il denaro e via se lo portavano;
furono, come portò la fama, circa duecento mila zecchini. I Modenesi
erano venuti a Venezia per averselo; ma ei furon novelle. Gli agenti li
serbarono, dissero, per la cassa militare.
Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande
apparato di soldati, perchè, sebbene fossero i piè dei Veneziani
in ceppi, si temeva che ad un bel levarsi il popolo prorompesse
e rivendicasse alla patria, con qualche solenne precipizio
degl'involatori, le gloriose spoglie. Accresceva il timore il
pensare che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre
rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli.
Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro che
aveva in titolo: _I Romani in Grecia_, e che fu generalmente creduto
opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei
Romani in Grecia simboleggiando i Franzesi in Italia, eccitava i
popoli italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione.
Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni
dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava e più era letto.
Villelard istesso il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche
sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome franzese.
Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello
che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia
ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e
che stimolava i popoli a correre armati contro i Franzesi, partoriva un
effetto incredibile.
Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze
tristi e funeste. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di
san Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero
della libertà. Avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta
a San Marco un'ampia loggia a cui si saliva per due scale laterali
ornate di vaghi fiori e di arbusti odoriferi. Da ambi i lati della
loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con
insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella
ducale. Due altre logge adorne e belle si vedevano in mezzo alla
piazza e davanti alle procuratie, con orchestre pure a lato. Gli archi
delle procuratie e così ancora la chiesa di San Marco comparivano
alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati.
Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto
dell'albero. Ed ecco alle diciassette italiane comparire con solenne
comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano
i municipali. Quindi poscia essendosi congiunti col corteggio del
generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnavano, gli
strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano. Intanto
giva la processione; soldati italiani precedevano, seguitavano due
fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una
giovane che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con
istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in
addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso; i consoli delle nazioni,
e i magistrati sì civili che militari e i capi delle arti coi simboli
delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da
musica militare, i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto
ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato
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