Annali d'Italia, vol. 8 - 52
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in mezzo alle monarchie d'Italia e contro l'imperatore medesimo
una repubblica che, fondata sui principii nuovi, desse loro cagione
continua d'inquietudine. Parevagli ancora che la fondazione della nuova
repubblica avesse nella opinione dei popoli a compensare la distruzione
di una vecchia, e che la Cisalpina potesse in lui cancellare il biasimo
incorso per la Veneziana. Forse in questo, come alcuni pensarono,
oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel
caso in cui, per opera o di altrui o sua, venisse a mutarsi la forma
del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla
monarchia; poichè quel nuovo Stato italiano avrebbe potuto divenire per
esso lui o asilo o ricompensa.
Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben e dato
ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a
Montebello, donde poteva e svegliar le pratiche della pace e dar moto
alle faccende cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni
di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano o palesi
nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi cisalpini
di soldati piemontesi, austriaci, polacchi, papali e napolitani, che
nelle legioni lombarda e polacca si descrivevano, o segrete per gli
uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorta, in cui
vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia,
massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi, per la
natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose
che si scrivevano a quei tempi in Milano contro il re e contro il
papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Erano esorbitanze pazze e
stravaganti, l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano
un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che
chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi,
si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove
dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e
nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano e risplendevano
molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti e leali
operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei
tempi. In un discorso, e basti dir di questo, di un giovane dotto,
che aveva l'animo buono e come buono non sospettava in altrui quel
male che non aveva in sè, esposti prima con molto acume i modi con
cui gli uomini s'aggregavano primitivamente in società, favellava
egli la domenica dei 7 maggio, paragonando le antiche epoche colla
presente, descrivendo la libertà siciliana data da Timoleonte ed
esortando gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie,
con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua
forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno e contro
il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a
quella libertà che, abbandonate le amene sponde del Ceso e del Peneo
e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo
essere stata sì lungamente ne' boschi, e ne' deserti nascosta, comparve
di nuovo per grandeggiar sulla Senna e per brillar con successo intorno
al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, _che Apennin
parte e 'l mar circonda e l'Alpe_.»
Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel
Genovesato, si è già raccontato. Il ducato di Parma, a grave stento si
manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia
non voleva pregiudicare. Continuava la Toscana nel suo tranquillo
stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita
per le contribuzioni, e le arti cisalpine vi avessero prodotto qualche
impressione. Lucca, corrotti con denari e fattisi benevoli alcuni
agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi,
non senza grandissime querele dei patriotti cisalpini che quella
aristocrazia ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma
stessa, dove si scoversero congiure per cambiar lo Stato, ed in cui si
mescolarono Franzesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei.
Condotti dall'occupamento del secolo, avevano parlato molte cose e
nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi
sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in
atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione.
Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva e gli animi si
sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto; oltre a
ciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere romane: il governo
macchinava ingrandimento; e voleva per sè e domandava con molta istanza
ai Franzesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia e Zante nella
Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio
e da Buonaparte, più inchinati a sovvertire gli Stati deboli che ad
ingrandirli. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano
più che parole o congiure o desiderii; i popoli vi tumultuavano a
mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi
qualche sangue: poi dai Grigioni e dai Valtellini fu fatto compromesso
nella repubblica Franzese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che
non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni che
avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della cisalpina.
Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre
principali di quella valle con tutti i distretti, sottratte dalla
divozione di gente tedesca si congiungevano con gente italiana. Così
dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi
più recondite delle nazioni elvetiche, grande aiuto ai disegni che si
avevano.
Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerie dei patriotti per
sommuovere gli Stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per
fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non
si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina
con una costituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia
col freno d'una amministrazione generale, potestà non solo serva del
generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o
comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe lunga
bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano. Quello
non era governo nè civile, nè libero, nè comune; ma bensì un reggimento
incomposto, difforme ed a volontà di forastieri; perciò era veduto non
senza disprezzo e indegnazione dei popoli.
Buonaparte, ch'era solito a gettar via gli stromenti, che per servir
lui erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Avendo dato
vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con
leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci
personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il
carico di formare il modello della costituzione cisalpina. Fra essi
notavasi il padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità
e vastità delle dottrine, e certamente fra i dotti dottissimo.
Buonaparte interveniva spesso alla congregazione. Pareva che dovesse
sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte e da un Fontana. Ne usciva
una copia della costituzione franzese con poche mutazioni e di niun
momento. Restava che quello che si era fatto in nome, si recasse in
atto. Eleggeva Buonaparte quattro cisalpini al direttorio; furono
quest'essi: Serbelloni, Moscati, Paradisi, Alessandri. Siccome poi non
si potevano così presto eleggere i rappresentanti che nei due consigli
legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni,
l'una di costituzione, l'altra di giurisprudenza, la terza di finanze,
la quarta di guerra, composte d'uomini, se non tutti, certamente la
maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato
infino a che fossero creati ed entrassero in ufficio i consigli
legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici
dello Stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di
polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi,
di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava secretario del
direttorio Sommariva.
Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da
servir per principio alla cisalpina repubblica. Destinavasi il dì 9
luglio ed il campo del Lazzaretto fuori di Porta Orientale, vasto e
magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica.
Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurii i deputati
di tutti i municipii, di tutti i drappelli delle guardie nazionali,
di tutti i reggimenti assoldati dalla repubblica. Era, nei giorni
che precedevano la festa, in tutta la città una folla ed un andar
e venire di popoli contenti; pareva che non solo la nobile Milano,
ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle ore
9 del destinato giorno il campo della confederazione (che così dal
fatto chiamarono il Lazzaretto), e vi accorrevano giulivamente ed a
pressa meglio di quattrocento mila cittadini. Suonavano le campane a
gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite
col turchino o col verde sventolavansi all'aria, e le grida e il
tumulto e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al
colmo. I democrati non capivano in sè dall'allegrezza e dicevano le
più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da
quella vita morta di una volta a quella viva d'adesso; la magnifica
Milano, città di per sè stessa e per naturale indole allegrissima,
ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si
commoveva e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito
verde ricamato d'argento alla cisalpina: il seguitavano i magistrati
e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico
spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve
le artiglierie, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano:
celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre
a quando a quando rimbombavano le artiglierie. Dopo il santo sacrificio
benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava
un concerto strepitosissimo e pure melodioso d'inni, di suoni, di _viva
repubblicani_. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati
inscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso simboleggiatore
dell'amore della patria; a' piedi urne con motti dimostrativi del
desiderio, e della gratitudine verso i soldati franzesi morti nelle
cisalpine battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano
le cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto
in ispecial seggio alla testa, al quale, come a vincitore di tante
guerre ed a fondatore della repubblica, riguardavano principalmente
i popoli circostanti. Nè piccola parte dello spettacolo erano gli
uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa,
ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser
presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel
corso dei secoli, grande testimonianza d'amore e di concordia italiana.
Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra
un più elevato seggio postosi, fatto silenzio in mezzo agli adunati
popoli favellava, e giunto a quel passo: «Accendiamoci di un amor
santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi o di morire:
il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo e ve ne dà
l'esempio,» sguainata la spada ed i suoi colleghi levati i cappelli,
ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati,
giuravano i capi de' reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i
viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli,
lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed
allegro.
Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue e
con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la costituzione e le leggi.
Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi che questa terra che
abitiamo, è la terra de' Curzi, degli Scevola, de' Catoni; imitiamo
quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole e lascino ogni
speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme la Europa si accorga
che qui l'antica Roma rinasce.»
Qui ricominciavano i plausi ed i cannoni strepitavano. A questo modo
s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che
pareva eterno ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno
corsi di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi
la sera bellissime luminarie sì dentro che fuori del teatro. Insomma
fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città
del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella e
splendida Milano.
Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente de'
posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel
campo della confederazione ad onore di ciascuna schiera dello esercito
franzese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide
si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del
popolo cisalpino verso la repubblica Franzese e l'esercito d'Italia;
s'inscrivessero su due altri lati i nomi di que' forti uomini che
avevano dato la vita per la patria loro e per la libertà cisalpina
nelle battaglie; che lo ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi,
ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che
fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute e
libertà alla patria cisalpina.
Contaminava l'allegrezza de' patriotti l'essersi fatta serrare dal
direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto
dell'essere contraria agli ordini della constituzione.
Continuava ad usare Buonaparte la autorità suprema. Nominava i
giudici, gli amministratori de' distretti o de' dipartimenti, o que'
dei municipii. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due
consigli, cioè del consiglio grande o de' giovani, e del consiglio de'
seniori o degli anziani.
I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi temporanei
e tumultuarii, veduto le forme più regolari e più promettenti della
Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le
portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara
furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più
ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la
memoria dell'antica superiorità. La giunta bolognese titubava; ma
tanti furono i maneggi de' patriotti più accesi e l'intromettersi de'
cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anche essa alla
prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè
era Bologna città grossa e piena d'uomini forti e generosi. Unite le
legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio; vi chiamava per
quinto un Costabili Containi di Ferrara.
Principalmente accrebbe la grandezza cisalpina la unione della forte
Brescia, membro tanto principale della terraferma. Fu tratto presidente
del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta
principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente
per la conservazione dello Stato nuovo.
Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di
quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe che pel trattato
di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra
di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I
Cisalpini poi, fatto di per sè stessi impeto nell'Oltre-Po piacentino,
consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.
Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte le
divideva in venti dipartimenti con Milano, città capitale. Per tal modo
in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa
larghezza si distendeva la Cisalpina che conteneva in sè la Lombardia
austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara,
Bergamo, Brescia coi territorii loro, la Valtellina, e le tre legazioni
di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese e l'Oltre-Po
piacentino. Poco dopo, Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si
dava alla Cisalpina.
L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in sè non poca
malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il
dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni che loro pareva
che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa
mala contentezza si era vieppiù dilatata quando si domandarono i
giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza
inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli
aristocrati ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero
e di contribuire con tutte le forze al sostegno della libertà ed
uguaglianza e alla conservazione e prosperità della repubblica. Per
mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i
magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo
debiti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi
gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo
d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio VII. Il suo testimonio e le
sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di
molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente
anno 1797 una omelia, in cui parlava ai fedeli della sua diocesi parole
di tanta soavità, che, dette com'erano da un uomo così eminente per
dignità e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli
spiriti raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo Stato.
Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la
riconoscessero in solenne modo come potentato europeo. Vi si adoperava
Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse
la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero Stato. In
questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era
che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la
chiamavano.
A questo fine mandava il direttorio cisalpino per suo ambasciatore a
Parigi un Visconti. Fu veduto a Parigi molto volentieri ed in pubblica
udienza, presenti tutti i ministri di Francia e gli ambasciadori
delle potenze amiche, il dì 27 agosto, solennemente udito. Parlava
magnificamente de' benefizii della repubblica Franzese, della
gratitudine della Cisalpina; esprimeva unico e primo desiderio de'
cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione franzese; di
loro non potere aver ella amici nè più affezionati nè più fedeli;
comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune
ancora dover avere la felicità, nè senza i Franzesi volere o potere
essere i cisalpini felici; le vittorie del trionfatore Buonaparte già
aver procurato pace e quiete alla Cisalpina; desiderare che la Francia
ancor essa quella pace si godesse e quella felicità gustasse che le sue
vittorie e la sublime di lei costituzione le promettevano. Queste cose
scritte in franzese, poi tradotte in pessimo italiano ne' giornali dei
tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente,
secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla
repubblica Franzese la creazione e l'amicizia della Cisalpina; non
dubitasse che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di
serpenti che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima poi
deposte dai ministri delle due repubbliche. Sapere il direttorio che
quest'uomini velenosi e perfidi volevano distruggere la libertà sulla
terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più
per una corona intorno di popoli liberi e governati da leggi consimili.
Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non
di quella degli animi vili e timorosi, ma di quella degli animi ben
composti e forti. «Stessero pur sicuri i cisalpini, conchiudeva, e
confidassero nelle grandezza e nella lealtà della nazione franzese,
nel coraggio e nel valore de' suoi soldati, nella rettitudine e nella
costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio
avere il direttorio di questo, che i cisalpini vivessero felici e
liberi.»
Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori che, o già
serve all'in tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente
dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire.
Per la qual cosa non esitavano i re di Spagna, quei di Napoli e di
Sardegna, il granduca di Toscana, la repubblica Ligure ed il duca
di Parma a mandar ambasciatori o ministri o simili altri agenti a
Milano, acciocchè tenessero bene edificato e bene inclinato quel
nuovo Stato tanto prediletto a Buonaparte. In questo ancora ponevano
l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosie ed a tanti timori
quello che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati
loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli Stati
d'Italia. Perciò i patriotti gridavano che questi ministri erano
spie per rapportare, stromenti per subornare. Li laceravano con gli
scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti li
maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti
delle diverse parti d'Italia raccolti in gran numero in Milano, non
si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava e dava loro spesso sulla
voce, e talvolta sulle mani; ma essi ripullulavano e straboccavano più
molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.
Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole
di pace e di amicizia, a cui non credeva nè chi le diceva nè chi le
udiva.
Esitava il papa il mandare un ministro, perchè gli pareva chi i
Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi
certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini
che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo e
minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose e coi manifesti
più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, secondo la suo
dignità, volendo indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore
a Milano, allegando, ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come
già si trovata costituita legalmente in repubblica ordinata, non era
Stato franco e independente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei
Franzesi ed i comandanti Franzesi pubblicavano di propria autorità in
tutta la Cisalpina e nella sede stessa di Milano ordini e manifesti,
ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano se non dopo
che fossero veduti ed appruovati dai comandanti franzesi.
Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio
cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze
medesime. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i
legati cisalpini. Bene pe' suoi fini avea scelto gli uomini suoi la
Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti
vivi ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti,
almeno astuti e senza intermissione operativi. Solo Marescalchi, di
famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore
a Vienna, non faceva frutto, perchè l'imperadore non l'aveva voluto
riconoscere nella sua qualità pubblica.
Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè
non fosse il direttorio franzese amico, ma perchè l'inviato doveva
arrivarvi con molta materia apprestata.
Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli
ordinamenti politici quell'opera che con le armi aveva fondato, i
legislatori cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per
quello degli anziani. Onorati uomini vi risplendevano per sapere, per
antichità, per ricchezze, per amore di libertà. A questi aggiungeva
Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato e
cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina,
considerato, tali furono le parole della legge, che il cittadino
Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti
a celebrare il genio della libertà italiana ed encomiare l'invitta
armata franzese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù
promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge
la naturalità.
I consigli radunati ardentemente procedendo, si accostavano alle
opinioni dei democrati più vivi, il che dall'un dei lati dispiaceva
a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere,
dall'altro gli piaceva per dar timore alle potenze nemiche.
Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore
scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli: «Il dì
21 novembre fia pienamente in atto la vostra costituzione; e saranno
altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il
tribunale di cassazione e le altre amministrazioni subalterne. Voi
siete fra tutti i popoli il primo che senza fazioni, senza rivoluzioni,
senza stragi, libero divenga. Noi vi demmo la libertà; voi sappiate
conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la
più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa;
secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle
con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione.
Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini
nudriti nei principii della repubblica ed amatori della sua prosperità.
Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra
forza e della dignità che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di
voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste
mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni
potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia;
proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran
nazione; col nostro sarà lo Stato vostro congiunto. Se il popolo
romano avesse usato la sua forza, come la sua il franzese, ancora sul
Campidoglio si anniderebbero le romane aquile, nè diciotto secoli di
schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane
generazioni. Per consolidare la libertà vostra e mosso unicamente dal
desiderio della vostra felicità, io feci quello che altri han fatto per
ambizione e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione
di tutti i magistrati e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo
probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste
fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano
compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando
un ordine del mio governo od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma
qualunque sia il luogo a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti
della mia patria, questo vi potete promettere di me che sono e sempre
sarommi ardente amatore della felicità e della gloria della vostra
repubblica.»
Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi.
Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre, uguale anzi
di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a
quei tempi al mondo quattro cose che a tutte le altre sovrastavano,
la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore che avevano i
re che quella repubblica Franzese non li conducesse tutti a ruina, la
repubblica franzese stessa fondata in una nazione che per la natura
sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone,
esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci e
più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava
pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori
da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse ed il consueto
reggimento, per quanto gl'interessi nuovi permettessero, col mezzo
dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire
coll'armi civili della Vandea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa,
perchè la nazione franzese, che forte ed animosa era, non aveva voluto
lasciarsi sforzare, si pensava che i maneggi segreti, le promesse, le
corruttele e le adulazioni potessero avere maggior efficacia.
una repubblica che, fondata sui principii nuovi, desse loro cagione
continua d'inquietudine. Parevagli ancora che la fondazione della nuova
repubblica avesse nella opinione dei popoli a compensare la distruzione
di una vecchia, e che la Cisalpina potesse in lui cancellare il biasimo
incorso per la Veneziana. Forse in questo, come alcuni pensarono,
oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel
caso in cui, per opera o di altrui o sua, venisse a mutarsi la forma
del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla
monarchia; poichè quel nuovo Stato italiano avrebbe potuto divenire per
esso lui o asilo o ricompensa.
Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben e dato
ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a
Montebello, donde poteva e svegliar le pratiche della pace e dar moto
alle faccende cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni
di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano o palesi
nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi cisalpini
di soldati piemontesi, austriaci, polacchi, papali e napolitani, che
nelle legioni lombarda e polacca si descrivevano, o segrete per gli
uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorta, in cui
vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia,
massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi, per la
natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose
che si scrivevano a quei tempi in Milano contro il re e contro il
papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Erano esorbitanze pazze e
stravaganti, l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano
un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che
chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi,
si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove
dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e
nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano e risplendevano
molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti e leali
operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei
tempi. In un discorso, e basti dir di questo, di un giovane dotto,
che aveva l'animo buono e come buono non sospettava in altrui quel
male che non aveva in sè, esposti prima con molto acume i modi con
cui gli uomini s'aggregavano primitivamente in società, favellava
egli la domenica dei 7 maggio, paragonando le antiche epoche colla
presente, descrivendo la libertà siciliana data da Timoleonte ed
esortando gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie,
con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua
forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno e contro
il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a
quella libertà che, abbandonate le amene sponde del Ceso e del Peneo
e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo
essere stata sì lungamente ne' boschi, e ne' deserti nascosta, comparve
di nuovo per grandeggiar sulla Senna e per brillar con successo intorno
al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, _che Apennin
parte e 'l mar circonda e l'Alpe_.»
Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel
Genovesato, si è già raccontato. Il ducato di Parma, a grave stento si
manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia
non voleva pregiudicare. Continuava la Toscana nel suo tranquillo
stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita
per le contribuzioni, e le arti cisalpine vi avessero prodotto qualche
impressione. Lucca, corrotti con denari e fattisi benevoli alcuni
agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi,
non senza grandissime querele dei patriotti cisalpini che quella
aristocrazia ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma
stessa, dove si scoversero congiure per cambiar lo Stato, ed in cui si
mescolarono Franzesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei.
Condotti dall'occupamento del secolo, avevano parlato molte cose e
nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi
sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in
atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione.
Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva e gli animi si
sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto; oltre a
ciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere romane: il governo
macchinava ingrandimento; e voleva per sè e domandava con molta istanza
ai Franzesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia e Zante nella
Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio
e da Buonaparte, più inchinati a sovvertire gli Stati deboli che ad
ingrandirli. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano
più che parole o congiure o desiderii; i popoli vi tumultuavano a
mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi
qualche sangue: poi dai Grigioni e dai Valtellini fu fatto compromesso
nella repubblica Franzese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che
non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni che
avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della cisalpina.
Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre
principali di quella valle con tutti i distretti, sottratte dalla
divozione di gente tedesca si congiungevano con gente italiana. Così
dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi
più recondite delle nazioni elvetiche, grande aiuto ai disegni che si
avevano.
Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerie dei patriotti per
sommuovere gli Stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per
fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non
si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina
con una costituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia
col freno d'una amministrazione generale, potestà non solo serva del
generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o
comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe lunga
bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano. Quello
non era governo nè civile, nè libero, nè comune; ma bensì un reggimento
incomposto, difforme ed a volontà di forastieri; perciò era veduto non
senza disprezzo e indegnazione dei popoli.
Buonaparte, ch'era solito a gettar via gli stromenti, che per servir
lui erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Avendo dato
vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con
leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci
personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il
carico di formare il modello della costituzione cisalpina. Fra essi
notavasi il padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità
e vastità delle dottrine, e certamente fra i dotti dottissimo.
Buonaparte interveniva spesso alla congregazione. Pareva che dovesse
sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte e da un Fontana. Ne usciva
una copia della costituzione franzese con poche mutazioni e di niun
momento. Restava che quello che si era fatto in nome, si recasse in
atto. Eleggeva Buonaparte quattro cisalpini al direttorio; furono
quest'essi: Serbelloni, Moscati, Paradisi, Alessandri. Siccome poi non
si potevano così presto eleggere i rappresentanti che nei due consigli
legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni,
l'una di costituzione, l'altra di giurisprudenza, la terza di finanze,
la quarta di guerra, composte d'uomini, se non tutti, certamente la
maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato
infino a che fossero creati ed entrassero in ufficio i consigli
legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici
dello Stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di
polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi,
di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava secretario del
direttorio Sommariva.
Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da
servir per principio alla cisalpina repubblica. Destinavasi il dì 9
luglio ed il campo del Lazzaretto fuori di Porta Orientale, vasto e
magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica.
Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurii i deputati
di tutti i municipii, di tutti i drappelli delle guardie nazionali,
di tutti i reggimenti assoldati dalla repubblica. Era, nei giorni
che precedevano la festa, in tutta la città una folla ed un andar
e venire di popoli contenti; pareva che non solo la nobile Milano,
ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle ore
9 del destinato giorno il campo della confederazione (che così dal
fatto chiamarono il Lazzaretto), e vi accorrevano giulivamente ed a
pressa meglio di quattrocento mila cittadini. Suonavano le campane a
gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite
col turchino o col verde sventolavansi all'aria, e le grida e il
tumulto e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al
colmo. I democrati non capivano in sè dall'allegrezza e dicevano le
più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da
quella vita morta di una volta a quella viva d'adesso; la magnifica
Milano, città di per sè stessa e per naturale indole allegrissima,
ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si
commoveva e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito
verde ricamato d'argento alla cisalpina: il seguitavano i magistrati
e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico
spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve
le artiglierie, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano:
celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre
a quando a quando rimbombavano le artiglierie. Dopo il santo sacrificio
benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava
un concerto strepitosissimo e pure melodioso d'inni, di suoni, di _viva
repubblicani_. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati
inscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso simboleggiatore
dell'amore della patria; a' piedi urne con motti dimostrativi del
desiderio, e della gratitudine verso i soldati franzesi morti nelle
cisalpine battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano
le cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto
in ispecial seggio alla testa, al quale, come a vincitore di tante
guerre ed a fondatore della repubblica, riguardavano principalmente
i popoli circostanti. Nè piccola parte dello spettacolo erano gli
uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa,
ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser
presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel
corso dei secoli, grande testimonianza d'amore e di concordia italiana.
Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra
un più elevato seggio postosi, fatto silenzio in mezzo agli adunati
popoli favellava, e giunto a quel passo: «Accendiamoci di un amor
santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi o di morire:
il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo e ve ne dà
l'esempio,» sguainata la spada ed i suoi colleghi levati i cappelli,
ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati,
giuravano i capi de' reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i
viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli,
lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed
allegro.
Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue e
con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la costituzione e le leggi.
Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi che questa terra che
abitiamo, è la terra de' Curzi, degli Scevola, de' Catoni; imitiamo
quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole e lascino ogni
speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme la Europa si accorga
che qui l'antica Roma rinasce.»
Qui ricominciavano i plausi ed i cannoni strepitavano. A questo modo
s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che
pareva eterno ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno
corsi di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi
la sera bellissime luminarie sì dentro che fuori del teatro. Insomma
fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città
del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella e
splendida Milano.
Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente de'
posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel
campo della confederazione ad onore di ciascuna schiera dello esercito
franzese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide
si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del
popolo cisalpino verso la repubblica Franzese e l'esercito d'Italia;
s'inscrivessero su due altri lati i nomi di que' forti uomini che
avevano dato la vita per la patria loro e per la libertà cisalpina
nelle battaglie; che lo ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi,
ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che
fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute e
libertà alla patria cisalpina.
Contaminava l'allegrezza de' patriotti l'essersi fatta serrare dal
direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto
dell'essere contraria agli ordini della constituzione.
Continuava ad usare Buonaparte la autorità suprema. Nominava i
giudici, gli amministratori de' distretti o de' dipartimenti, o que'
dei municipii. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due
consigli, cioè del consiglio grande o de' giovani, e del consiglio de'
seniori o degli anziani.
I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi temporanei
e tumultuarii, veduto le forme più regolari e più promettenti della
Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le
portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara
furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più
ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la
memoria dell'antica superiorità. La giunta bolognese titubava; ma
tanti furono i maneggi de' patriotti più accesi e l'intromettersi de'
cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anche essa alla
prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè
era Bologna città grossa e piena d'uomini forti e generosi. Unite le
legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio; vi chiamava per
quinto un Costabili Containi di Ferrara.
Principalmente accrebbe la grandezza cisalpina la unione della forte
Brescia, membro tanto principale della terraferma. Fu tratto presidente
del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta
principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente
per la conservazione dello Stato nuovo.
Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di
quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe che pel trattato
di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra
di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I
Cisalpini poi, fatto di per sè stessi impeto nell'Oltre-Po piacentino,
consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.
Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte le
divideva in venti dipartimenti con Milano, città capitale. Per tal modo
in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa
larghezza si distendeva la Cisalpina che conteneva in sè la Lombardia
austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara,
Bergamo, Brescia coi territorii loro, la Valtellina, e le tre legazioni
di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese e l'Oltre-Po
piacentino. Poco dopo, Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si
dava alla Cisalpina.
L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in sè non poca
malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il
dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni che loro pareva
che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa
mala contentezza si era vieppiù dilatata quando si domandarono i
giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza
inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli
aristocrati ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero
e di contribuire con tutte le forze al sostegno della libertà ed
uguaglianza e alla conservazione e prosperità della repubblica. Per
mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i
magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo
debiti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi
gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo
d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio VII. Il suo testimonio e le
sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di
molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente
anno 1797 una omelia, in cui parlava ai fedeli della sua diocesi parole
di tanta soavità, che, dette com'erano da un uomo così eminente per
dignità e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli
spiriti raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo Stato.
Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la
riconoscessero in solenne modo come potentato europeo. Vi si adoperava
Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse
la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero Stato. In
questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era
che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la
chiamavano.
A questo fine mandava il direttorio cisalpino per suo ambasciatore a
Parigi un Visconti. Fu veduto a Parigi molto volentieri ed in pubblica
udienza, presenti tutti i ministri di Francia e gli ambasciadori
delle potenze amiche, il dì 27 agosto, solennemente udito. Parlava
magnificamente de' benefizii della repubblica Franzese, della
gratitudine della Cisalpina; esprimeva unico e primo desiderio de'
cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione franzese; di
loro non potere aver ella amici nè più affezionati nè più fedeli;
comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune
ancora dover avere la felicità, nè senza i Franzesi volere o potere
essere i cisalpini felici; le vittorie del trionfatore Buonaparte già
aver procurato pace e quiete alla Cisalpina; desiderare che la Francia
ancor essa quella pace si godesse e quella felicità gustasse che le sue
vittorie e la sublime di lei costituzione le promettevano. Queste cose
scritte in franzese, poi tradotte in pessimo italiano ne' giornali dei
tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente,
secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla
repubblica Franzese la creazione e l'amicizia della Cisalpina; non
dubitasse che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di
serpenti che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima poi
deposte dai ministri delle due repubbliche. Sapere il direttorio che
quest'uomini velenosi e perfidi volevano distruggere la libertà sulla
terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più
per una corona intorno di popoli liberi e governati da leggi consimili.
Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non
di quella degli animi vili e timorosi, ma di quella degli animi ben
composti e forti. «Stessero pur sicuri i cisalpini, conchiudeva, e
confidassero nelle grandezza e nella lealtà della nazione franzese,
nel coraggio e nel valore de' suoi soldati, nella rettitudine e nella
costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio
avere il direttorio di questo, che i cisalpini vivessero felici e
liberi.»
Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori che, o già
serve all'in tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente
dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire.
Per la qual cosa non esitavano i re di Spagna, quei di Napoli e di
Sardegna, il granduca di Toscana, la repubblica Ligure ed il duca
di Parma a mandar ambasciatori o ministri o simili altri agenti a
Milano, acciocchè tenessero bene edificato e bene inclinato quel
nuovo Stato tanto prediletto a Buonaparte. In questo ancora ponevano
l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosie ed a tanti timori
quello che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati
loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli Stati
d'Italia. Perciò i patriotti gridavano che questi ministri erano
spie per rapportare, stromenti per subornare. Li laceravano con gli
scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti li
maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti
delle diverse parti d'Italia raccolti in gran numero in Milano, non
si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava e dava loro spesso sulla
voce, e talvolta sulle mani; ma essi ripullulavano e straboccavano più
molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.
Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole
di pace e di amicizia, a cui non credeva nè chi le diceva nè chi le
udiva.
Esitava il papa il mandare un ministro, perchè gli pareva chi i
Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi
certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini
che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo e
minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose e coi manifesti
più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, secondo la suo
dignità, volendo indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore
a Milano, allegando, ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come
già si trovata costituita legalmente in repubblica ordinata, non era
Stato franco e independente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei
Franzesi ed i comandanti Franzesi pubblicavano di propria autorità in
tutta la Cisalpina e nella sede stessa di Milano ordini e manifesti,
ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano se non dopo
che fossero veduti ed appruovati dai comandanti franzesi.
Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio
cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze
medesime. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i
legati cisalpini. Bene pe' suoi fini avea scelto gli uomini suoi la
Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti
vivi ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti,
almeno astuti e senza intermissione operativi. Solo Marescalchi, di
famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore
a Vienna, non faceva frutto, perchè l'imperadore non l'aveva voluto
riconoscere nella sua qualità pubblica.
Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè
non fosse il direttorio franzese amico, ma perchè l'inviato doveva
arrivarvi con molta materia apprestata.
Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli
ordinamenti politici quell'opera che con le armi aveva fondato, i
legislatori cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per
quello degli anziani. Onorati uomini vi risplendevano per sapere, per
antichità, per ricchezze, per amore di libertà. A questi aggiungeva
Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato e
cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina,
considerato, tali furono le parole della legge, che il cittadino
Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti
a celebrare il genio della libertà italiana ed encomiare l'invitta
armata franzese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù
promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge
la naturalità.
I consigli radunati ardentemente procedendo, si accostavano alle
opinioni dei democrati più vivi, il che dall'un dei lati dispiaceva
a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere,
dall'altro gli piaceva per dar timore alle potenze nemiche.
Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore
scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli: «Il dì
21 novembre fia pienamente in atto la vostra costituzione; e saranno
altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il
tribunale di cassazione e le altre amministrazioni subalterne. Voi
siete fra tutti i popoli il primo che senza fazioni, senza rivoluzioni,
senza stragi, libero divenga. Noi vi demmo la libertà; voi sappiate
conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la
più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa;
secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle
con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione.
Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini
nudriti nei principii della repubblica ed amatori della sua prosperità.
Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra
forza e della dignità che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di
voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste
mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni
potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia;
proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran
nazione; col nostro sarà lo Stato vostro congiunto. Se il popolo
romano avesse usato la sua forza, come la sua il franzese, ancora sul
Campidoglio si anniderebbero le romane aquile, nè diciotto secoli di
schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane
generazioni. Per consolidare la libertà vostra e mosso unicamente dal
desiderio della vostra felicità, io feci quello che altri han fatto per
ambizione e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione
di tutti i magistrati e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo
probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste
fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano
compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando
un ordine del mio governo od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma
qualunque sia il luogo a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti
della mia patria, questo vi potete promettere di me che sono e sempre
sarommi ardente amatore della felicità e della gloria della vostra
repubblica.»
Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi.
Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre, uguale anzi
di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a
quei tempi al mondo quattro cose che a tutte le altre sovrastavano,
la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore che avevano i
re che quella repubblica Franzese non li conducesse tutti a ruina, la
repubblica franzese stessa fondata in una nazione che per la natura
sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone,
esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci e
più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava
pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori
da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse ed il consueto
reggimento, per quanto gl'interessi nuovi permettessero, col mezzo
dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire
coll'armi civili della Vandea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa,
perchè la nazione franzese, che forte ed animosa era, non aveva voluto
lasciarsi sforzare, si pensava che i maneggi segreti, le promesse, le
corruttele e le adulazioni potessero avere maggior efficacia.
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