Annali d'Italia, vol. 8 - 51

s'incamminavano infuriati verso la capitale. Duphot con una squadra
di Franzesi e di democrati andava loro all'incontro; il principal
nervo consisteva nelle artiglierie, di cui i sollevati mancavano.
Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Prevalevano finalmente
l'arte e la disciplina, contro il numero ed il furore: andavano in fuga
i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga
crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori,
sanguinosi e non senza preda.
Non ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, un nuovo rumore di
guerra già si faceva sentire nella Polcevera. Gli abitatori di questa
valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani e dalle instigazioni di alcuni
ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero e correvano contro
la capitale. Accostatisi a loro non pochi degli avanzati alle stragi di
Binasco, la moltitudine armata s'impadroniva per una battaglia di mano
del forte della Sperona; poi, più avanti procedendo, occupava tutto
il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batteria di San
Benigno. Una prima squadra di soldati liguri e franzesi mandata in quel
primo tumulto contro di loro, vedutigli bene armati e bene fortificati,
se ne rimaneva e tornavasene. Poi si negoziava e si fermava un accordo.
Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva che i giacobini
erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio
far le vendette. Novellamente s'inferocivano, e, prese impetuosamente
le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo
punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato,
aveva avuto tempo di raccorre e di ordinare tutti i suoi, aiutato
fortemente dal colonello Seras, soldato molto animoso, traversava la
città e correva contro la turba degli insorti. Seguitava una feroce
mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e
Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani,
nuovi soldati; durava quattro ore la battaglia; furono non pochi i
morti, non pochi i feriti; superava infine la veterana disciplina: i
paesani scacciati dai posti, voltavano le spalle e seguitati con molta
pressa dai repubblicani, perdevano gran gente. Cinquecento, essendo
presi, empievano le carceri di Genova.
La fama della doppia vittoria di Albero e di San Benigno, e le forze
mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari ed in altre
terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali,
o Monti Liguri che si voglian nominare. Ogni cosa si ricomponeva in
quiete, ma per terrore, non per amore; truce e minacciosa, non lieta e
consenziente.
Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio
militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a
giudicare i ribelli. Sette ad otto, ma di oscuro nome, dannati a
morte tingevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non
pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad
altri. Faipoult avvertiva Buonaparte che si dannavano soltanto gli
ignobili: mettevagli in sospetto Serra; chiamavalo uomo pericoloso,
dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo,
finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col
fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti
protettori di una parte turbatrice e pervertitrice di ogni buon ordine
politico, e d'impedire che la quiete tornasse in Genova. Niuno altro
mezzo di salute e di riposo esservi, dicevano, che quello di mandar via
Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza
ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello Stato, l'anarchia,
i disordini, il sangue. Per tal guisa gli animi si invelenivano; ed era
vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo che annullasse
il decreto, pel quale aveva ordinato che la commissione militare
terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che
i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel
castello di Milano.
In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte,
a cui le turbazioni genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il
quale, non curandosi nè di governo nè di Faipoult, nè di preti nè di
frati, nè di nobili nè di plebei, nè di patriotti nè di aristocrati, e
solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città e se
ne faceva padrone.
Intanto i legati, accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti
della costituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento
e, lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani,
uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in
quindici dipartimenti; dei magistrati giudiziali, distrettuali e
municipali si statuisse a modo di Francia. Fu questo un modello tutto
franzese; e insomma la genovese costituzione fu data, non presa. Pure
fra le armi serrate ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizii
popolari. L'approvavano cento mila voti favorevoli, diciassette mila
contrarii. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrie
assai. Nominavansi i due consigli e dai consigli il direttorio.
Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò
Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente.
Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i
nuovi ordini e s'instituiva la costituzione. Poi, partitosi Faipoult,
gli veniva sostituito un Soltin. A questo modo periva l'antica
repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa ed impaziente.
Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca e con pochi
soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero e con soldati.
Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia
l'avere in suo favore i soldati del re se di nuovo si dovesse tornare
sull'armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio,
Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi
assoluti ed allettato dalle adulazioni dei nobili piemontesi. Pure
non era possibile che le massime che correvano, i rivoltamenti della
vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non
partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello Stato.
Quanto prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il
Piemonte, i ministri del re ed il re medesimo, anteponendo la salute
dello Stato all'inclinazione propria, posero ogni cura nel nodrire
l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzavano tutti i
loro pensieri. La principale difficoltà a superarsi però in questo
consisteva, che si persuadesse al direttorio che il re per interesse
proprio doveva star aderente colla Francia, e che la Francia, anche per
interesse proprio, doveva avere per aderente il re.
A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva,
come già si è narrato, Carlo Emmanuele mandato suo ambasciadore a
Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente
entrar di sotto, aveva fra le mani molto denaro. Del che molto
sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi
facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti
delle cose italiane, insisteva e dimostrava, esser necessario
contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia
e Nizza, farlo insomma polente e grande; ma perchè non fosse scemata
autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per sè, aveva
operato che Franzesi de' primi, coi quali si era accordato, queste
medesime cose per bocca e come per motivo proprio rappresentassero.
Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa
del Balbo, ma per mezzo di Franzesi che avevano parte nello Stato,
un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe
stata od intieramente esclusa dall'Italia, desiderio principale della
Francia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace.
L'ambasciatore piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo
dimostrare che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il
benefizio di Francia, procedeva più innanzi forse poco prudentemente,
perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte.
Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche italiane
non potevano di per sè stesse sussistere. Necessaria cosa essere
adunque che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli
assicurassero gli Stati; il che meglio e più fermamente non si poteva
fare che col metterlo in possesso della Lombardia.
Queste piemontesi insinuazioni erano astutissime, siccome quelle che
sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie de' Franzesi tanto
desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia e dell'aumento
della potenza propria. Perciò erano udite volontieri, non già dal
direttorio, sempre invasato dai suoi pensieri di rivoluzione, ma da
chi stava allato a lui e molto con lui poteva. Le avvalorava anche
con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari
esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la
spesa che si facessero ammazzare quaranta mila Franzesi per loro;
errare il ministro in pensando che la libertà potesse far fare gran
cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediante e
vile; volere il ministro ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli, ma non
saperne fare; non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse
quindici centinaia di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze
di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare che
a far guerra; il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più
forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, che qualche avventuriere,
o forse anche qualche ministro, gli desse a credere che ottanta mila
italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti parigini,
bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'italiani: se i ministri
cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse allo
esercito più di quindici centinaia de' loro e più di due mila destinati
a mantenere il buon ordine in Milano; rispondesse loro che dicevano
bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone
a dirsi ne' caffè e nei discorsi, ma non ai governi; romanzi esser
quelle, che son buone a dirsi ne' manifesti e ne' discorsi stampati;
doversi ai governi parlare di un altro suono, perchè le falsità gli
sviano, e le male strade li fan rovinare; non l'amore degl'italiani per
la libertà e per l'equalità aver aiutato i Franzesi in Italia, ma sì
la disciplina dello esercito, il valore de' soldati, il rispetto per la
repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; aver ad
essere un abile legislatore quello che potesse invogliar dell'armi i
cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo
si ordinerebbe bene la loro repubblica infino a metter su trenta mila
soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di
Svizzeri, ma per allora non vi si poter far su fondamento. Nè maggior
capitale potersi fare de' patrioti cisalpini e genovesi; doversi aver
per certo, che se i Franzesi se ne gissero, il popolo gli ammazzerebbe
tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarii di niun conto sono e Genovesi
e cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia, per avere un
ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza austriaca, che
stringere amicizia col re di Sardegna e fermare con lui un trattato di
alleanza.
Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era
negoziato quando ancora l'imperadore combatteva in Italia e tuttavia
erano gli eventi della guerra dubbii. Infine era stato concluso il dì
5 aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della
Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano,
fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente,
solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro
principe che all'imperadore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale
colla Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro
Stati d'Europa e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni
che interni; fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta
cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia,
partecipassero nelle taglie poste in sui paesi vinti in proporzione del
numero loro; quelle poste sugli Stati del re cessassero; niuna parte
potesse fare accordo col nemico comune se non comune: si stipulasse
un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil
fosse, avvantaggiasse alla pace generale, o del continente, le
condizioni del re di Sardegna.
Questo trattato conteneva una condizione principalissima e di tutto
momento pel re, e quest'era la guarentigia degli Stati contro i nemici
sì esterni che interni, gli uni agli altri pericolosi, i primi per la
forza, i secondi per quella sequela delle cose milanesi e genovesi.
Restava che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè
già il direttorio l'aveva approvato. Qui sorsero parecchie cagioni
d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava che la
ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo
ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo; poi per parte
della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i
preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza
consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva che il
ratificare ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche
di fresco aperte con l'imperadore. Ma il re, sentiti i preliminari di
Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva
timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè lo imperadore
era sceso agli accordi, che il direttorio si ritirasse da lui e si
stipulassero ne' sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi.
Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più
formidabili, quanto egli con maggior sincerità e calore si era gettato
dalla parte franzese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con
ragioni forti e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè
il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai
consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte.
Alle cose dette da Buonaparte, rispondeva dal canto suo Carlo Maurizio
di Talleyrand, non volere il direttorio ratificare il trattato
conchiuso col re di Sardegna, per molte ragioni che venia specificando.
Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse
mostrate appunto perch'ei trovasse modo di ammollire, o che le cose
di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura
coll'Austria, il trattato d'alleanza con Sardegna era mandato dal
direttorio ai consigli, e questi il ratificarono.
Mentre così il governo repubblicano di Francia studiava modo di usare
le forze del re di Sardegna durante la guerra e di distruggerlo
durante la pace, i semi venuti di Francia e pullulati con tanto
vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i frutti
loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete, procedevasi
alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse, oltre le
opinioni de' tempi, le condizioni infelici di quel paese; imposizioni
gravissime, quantità esorbitante di carta monetata che scapitava del
cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia eccessiva
e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami de' soldati
repubblicani, o di stanza nel paese, o di passo, le leve di genti, sì
pei regolari che per le milizie, molto onerose, l'orgoglioso procedere
de' nobili, certamente intempestivo, stantechè da esso principalmente
nasceva la mala contentezza de' popoli e contro di loro specialmente
si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava rimedio nè la
natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i consigli
prudenti de' ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al conte
di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo quanto svegliato d'animo.
Della nobiltà non si curava, de' re poco, della libertà si rideva,
della non libertà parimenti, i patriotti perseguitava piuttosto
per vanagloria dell'arte che per opinione. Un Bonino, cameriere del
marchese di Cravanzana, ed un Pafio, materassaio, furono sostenuti
come di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per
alla Veneria a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta
gente; non trovarono nissuno. Intanto l'astio delle due parti vieppiù
s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regi a Novara con lacerar di
forza certe nappe d'oro che i giovani Novaresi portavano sui cappelli:
fuvvi qualche tumulto e qualche ferita. Tumultuava il popolo a Fossano,
pretendendo il caro de' viveri, faceva oltraggio alle case del conte
di San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usuraio: poi i
sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le
vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di
libertà, preso principio dalla bottega d'un panattiere che non voleva
vender pane. Questi erano cattivi segni d'un peggior avvenire; ed
appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il
livore un caso molto lagrimevole: che un medico Boyer con un compagno
Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso
e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù che possano capire in
mortali uomini. Amici e nemici piangevano le sue disgrazie: tanto amore
lasciava nell'estremo supplizio.
I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chiari e
Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano.
In Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè fatti prigioni
i mille cinquecento soldati regi che vi stanziavano, insignorivansi
intieramente non solo della città, ma ancora del castello. Molti
altri luoghi vi aderivano. Al tempo medesimo nella già tentata Novara
prevalevano i regi, ma più per insidia che per onorevole vittoria.
Poi i soldati correndo alla scapestrata, incominciavano a mettere a
sacco le case di coloro che erano in voce di desiderar le novità; poi
saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città
non andasse tutta a ruba.
Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa
dal popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di
libertà o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re o per
odio ai novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo
si faceva sangue o si temeva che si facesse. Già si sospettava di
Torino; ma otto mila fanti e due mila cavalli, chiamati in fretta per
sussidio della regia sede e posti a campo sullo spaldo della cittadella
minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte
stesse della città regia udirsi un rumor confuso d'armi e d'armati:
erano i Moncalieresi, che levatisi a rumore e sovvertita in Moncalieri
l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo
d'andar più oltre a tentar Torino. Sogliono i popoli sollevati nei
primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto i lor maneggi per
tirare le cose a sè, ricorrere e far capo a personaggi autorevoli
per dottrina e per virtù. Viveva a questi tempi in Moncalieri un
uomo dottissimo e tanto buono quanto dotto, Carlo Tenivelli, autore
elegante di storie piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi,
avverso per natura a quanto venia di fuori, ed oltre a ciò di costume
molto indolente e non curante, non avendo attività alcuna se non per
iscrivere istorie, non aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e
molto meno quelle che si assomigliassero alle franzesi. Devoto alle
casa di Savoia, dedito, anche con singolare compiacenza, ai nobili,
non era uomo, non che a fare, sognar rivoluzioni. Suonavano l'armi e le
grida tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli
non se ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni.
Ma i sollevati lo andavano a levare di casa e per forza il portavano in
piazza, senza che egli ancora si avvedesse che cosa volesse significare
tanta novità. Insomma condottolo sulla piazza e fattolo montar sulle
panche, gli dicevano: «Fa, Tenivelli, un discorso in lode del popolo,»
ed egli, che eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo:
poi gli dicevano: «Tenivelli, tassa le grasce che son troppo care,»
ed ei tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che vien
le lagrime in pensando al fine che il fato gli apprestava. Tassate le
grasce ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano,
come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino.
In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava
per la guerra civile e che il suono dell'armi contrarie si udiva perfin
dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo. Il
giorno stesso in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re,
con un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei
giudici ordinarii sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli.
Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville
di Moncalieri, il che era più facile e più pronto per la vicinanza
e pel gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai
soldati andassero contro i ribelli e li vincessero. Non poterono i
sollevati sostenere l'impeto delle compagnie regie ed in poco d'ora si
disperdettero; tornava Moncalieri sotto la consueta divozione.
Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando
che quel che aveva fatto fosse male, non che delitto, se ne veniva
quietamente a Torino, e quivi tornava sui soliti studi, come se gli
accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo o di un altro
secolo. Ma gli amici gli dicevano: «Tenivelli, che hai fatto? o fuggi
o ti nascondi, se no tu sei morto.» Non la sapeva capire: tornava
nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa di un soldato
urbano, che faceva professione di libertà: il soldato, per prezzo
di trecento lire, il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri e
condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non
cambiava nè viso nè parole. Condotto sulla piazza di Moncalieri, gli fu
rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.
Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio.
Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso e per temperare
un furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar
adito al pentimento e forza contro i renitenti, che si perdonassero
le offese a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i
sudditi si armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile
per l'effetto, feroce per l'esecuzione. Sanguinosa era per ogni parte
la terra del Piemonte. Siccome poi per pretesto principale di tanti
movimenti sfrenati si allegava la carestia dei viveri, ed anche era
andata la stagione molto sinistra pel grano e per le biade, si facevano
provvisioni sull'annona, e, fra le altre, che nissuno potesse negar
grano o qualunque biada al pubblico, ove la volesse comprare al prezzo
comune.
Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava,
era il disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze e della
cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista,
gli uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste
del Piemonte. Si sforzava il governo, premendo i tempi, a rimediare
ad un pregiudizio sì grave con obbligare infino alla somma di cento
milioni ai possessori dei biglietti i beni degli ordini di Malta, di
San Maurizio e Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare,
eccettuati i benefizi vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando
a tanta pernicie, diminuiva poco dopo il valore della moneta erosa
ed erosomista e al tempo medesimo creava, con autorità del papa, una
tassa di cinquanta milioni sul clero; ed altre cose ancora ordinava
a queste consonanti. Miravano cotali provvedimenti alle rendite dello
Stato ed al far tollerabile il vitto del popolo: altri se ne facevano
per mansuefar le opinioni, buoni in sè perchè giusti, ma insufficienti
perchè i novatori a niuna cosa che venisse dal re, volevano star
contenti.
Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo Stato che
pericolava. Ma due rimedii assai più efficaci di questi gli apprestava
il cielo che voleva che la monarchia piemontese non cadesse se non
dopo che avesse provato tutte le amarezze di una lunga e penosa
agonia. Fu il primo l'aiuto dai propri soldati, l'altro l'amicizia
di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo e condotte dal
conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì, Fossano e
Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano, Moretta
ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al consueto
dominio, e, già non si aveva più timore che le valli di Pinerolo
abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche sospetto,
tumultuassero; solo alcune teste di novatori più ostinati o più
coraggiosi facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro
intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di
San Marsano mandato a Milano ad implorare aiuto alle cose pericolanti,
e che a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Il
generalissimo scriveva di essere parato a fare quanto sapesse il re,
desiderare per assicurarne la quiete, e lo avvertiva che già aveva
fatto arrestare quel Ranza, promovitore di scandali in Piemonte co'
suoi scritti.
Le lettere di Buonaparte partorirono l'effetto che se ne aspettava.
I novatori, già rotti dai soldati regi ed ora caduti dalle speranze
degli aiuti di Francia, posarono interamente. Domati i democrati,
si faceva passo dalle battaglie ai suplizii: erano giusti, perchè
contro i ribelli, ma sì frequenti che pareano piuttosto vendetta che
giustizia. Di quattordici si prendeva l'estremo supplizio a Biella;
di più di trenta in Asti; nè Moncalieri stava senza sangue, oltre
quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a Racconigi; poi
si soprastava per intercessione del principe di Carignano, dolente
di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi fra i giustiziati
un giovine Goveano, di natali onesti ed apparentato con famiglie di
buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato, anzi lacerato
il governo, come di una cosa enorme, e questa fu che il re, avendo
ordinato che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero i fatti
di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono. A Chiari le palle
soldatesche ammazzarono venti persone in un giorno. Tanti supplizii
frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire;
avrebbero raffermo uno Stato intatto, indebolivano uno Stato scosso,
insidiato e circondato da ogni parte da esempi pestiferi.
La moltiplicità dei supplizii non isvoglieva gli animi dall'infelice
Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le
dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui.
Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. S'offerivano
testimonii pronti al carcere per le difese. Non furono ammessi,
perchè si sospettava che amassero meglio servire alle amicizie ed alle
opinioni che alla verità. Pure quello aver negato le difese parve cosa
incomportabile. Castellango fra i giudici, Priocca fra i ministri,
opinavano per la mansuetudine, il primo perchè gli pareva che il
sangue di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed
anche per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato
a morte, e ambedue giustiziati sugli spaldi della cittadella. La morte
sua contristava tutta la città e la rendeva attonita e paventosa lungo
tempo.
Buonaparte vincitore desiderava che un testimonio solenne si fondasse
in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse
ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti e del suo valore.
Questo era, come si è narrato, uno Stato nuovo, che fosse a lui
obbligato della sua origine e della sua conservazione. Oltre a ciò,
non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni
momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva che sorgesse