Annali d'Italia, vol. 8 - 50

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Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno 21 maggio, un
tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult che la rivoluzione nascesse
in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione
ei voleva ben essere, ma non parere. Venuti a lui due legati del
senato, Gian Luca Durazzo e Francesco Cataneo, il pregavano che
facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse che
la frenesia dei giornali milanesi contro Genova cessasse. Dava loro
la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si
metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo Stato ed
a biasimarli dei tridui e delle novene come di dimostrazioni dirette
ad odio dei Franzesi: cercava di temporeggiare, perchè gli accidenti
di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili e con
grida spaventose, cantando a tratto la marsigliese, s'incamminavano
al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire,
nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi e chi più ambiva il
sangue o il sacco. A tanto rumore si adunava una calca incredibile
fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i
buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa
giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida
addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a
buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero
al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il
palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano perchè in quel primo
impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che
bastasse. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte
fra l'allegrezza dei piaceri presenti e la cupidigia dei tumulti
avvenire.
Sorgeva ai 22 l'alba che doveva addurre a Genova un giorno
funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e, ad ogni
passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano
una turba assai numerosa, con non pochi Lombardi ed alquanti Franzesi
ancora. Il senato senza difese pel caso improvviso, si era perduto
d'animo ed aspettava invece di operare.
Il popolo fedele al principe non si moveva. Andando loro il moto a
seconda, i sollevati ardivano cose maggiori ed orrende. Traevano alle
prigioni della Malpaga, sentina infame d'indebitati e di falliti,
e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati
ed armati i prigionieri, se li facevano compagni ai disegni loro.
Cresceva il furore. Impadronitisi della darsena, davano la libertà
ai condannati, e poste loro l'armi in mano correvano con l'infame
satellizio di ladri e d'assassini a disfare uno dei più illustri
governi del mondo.
Fatto indi concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi
successi, bandivano con allegria e romore incredibile, essere spenta
l'aristocrazia, Genova libera, i poveri esenti da' tributi, cassi gli
antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in
mano del governo, i popoli di Bisagno e della Polcevera deditissimi al
nome del principe ed all'antica repubblica. Però, credendo non esser
compiuta l'opera se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano
l'assicurarsi delle porte e delle mura, spedivano, a ciò consigliati
da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati ed occupar
l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di
San Benigno. Il che veniva agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi
i difensori.
Intanto s'era il senato raccolto timoroso e non pari tanto estremo.
Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati
a Faipoult, perchè lo pregassero s'interponesse a concordia ed
offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al
Franzese, per essergli aperta l'occasione, e, condottosi al senato,
con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo,
s'accomodassero al secolo, riformassero lo Stato, verso gli ordini
democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare.
Stanziavano, si traessero quattro patrizi, i quali, convenendo con
quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la
forma antica dovesse scendere alla democrazia. S'eleggevano i patrizii,
gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La
massa de' novatori infuriata correva al ducale palazzo e contro di lui
piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben
custodito. Tuttavia pareva che più rimedio non vi fosse per reprimere
la ribellione.
Ma ciò che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il
faceva il popolo. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente
dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari, e facchini
massimamente, ed opponendo allo improvviso grida a grida, nappe a
nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria che già pareva
certa. Facevano risuonare per tutta la città voce festose ad un tempo e
minacciose. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano
a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierie a cagione
della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armeria,
nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno l'armi, con ardore
inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro
si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra
questi alcuni che sapevano maneggiar le artiglierie. Si attaccava una
battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i
fratelli contro i fratelli, ed il suono delle armi civili, già da lungo
tempo insolito, si udiva da lungi ne' più segreti recessi de' liguri
Apennini. Durava la battaglia parecchie ore; prevaleva finalmente
la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue,
dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi da'
Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa.
La maggior parte fuggirono o nelle private case si nascosero: i più
animosi, ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte
reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo
Doria. Li seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una
battaglia ostinatissima, combattendo dall'un dei lati la disperazione,
dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano
finalmente oppressi i Morandiani con ferite e morte di molti: morì
Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà come nelle guerre
civili: il cadavere di Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini
infieriti.
In mezzo a quella furia perirono parecchi Franzesi, parte mescolati coi
sollevati, parte non mescolati. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte
ne prese occasione per disfare il governo. Si vegliava la notte fra il
dolore de' morti, il terrore de' vivi: s'accendevano i lumi alle case
da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il
senato vincitore per opera altrui, di nuovo si adunava per consultare
sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo,
da cui era veduto e salutato con grandissimi segni di allegrezza.
Faipoult, veduto che la forza de' novatori era stato indarno, tornava
sull'esortare e più accesamente di prima insisteva sulla necessità
delle riforme.
Si stava intanto per la signoria in grandissima apprensione del come
l'avrebbe sentita Buonaparte. Gli scriveva il doge in nome del senato
lettere molto sommesse di rammarico e di scusa pei Franzesi uccisi.
Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte
funestissime: non potere, scriveva, la repubblica franzese tollerare
gli assassinii e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i
Franzesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro che
avevano fatto ardere la Modesta e maltrattare i Franzesi cittadini:
se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro che
il popolo contro di loro avevano provocato non si carcerassero, se
la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la genovese
aristocrazia e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare
la vita de' senatori per quella de' Franzesi in Genova, tutto lo Stato
per le proprietà loro. Del resto tale fu la forza della verità che
Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo genovese
aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto per
evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro
che, non che gli obbedissero, gli comandavano ed il difendevano; che
delle uccisioni de' Franzesi i patriotti erano stati cagione per aver
inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica, nissun
Franzese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo
in pericolo i Franzesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica
Franzese per aver usurpato i suoi colori nazionali: ch'essi finalmente
avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per
l'apertura delle carceri e delle galere.
Quest'era la condizione di Genova: il senato sbigottito, e servo della
moltitudine, e diviso per le opinioni, tra il non poter inveire contro
il popolo perchè lo avea salvato, ed il dover inveire perchè gli agenti
del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la
buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere
ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli
aveva per sospetti. Già la casa di Morando spogliata da capo a fondo,
incomiciavano a spogliar le case con solo degl'innocenti, ma ancora
dei benemeriti. Ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che
mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Franzesi, si arrestassero
gli uccisori, si dichiarasse non aver i Franzesi avuto parte nella
ribellione. Infuriava Lavallette e secondava Faipoult. Affermava che
i carbonari erano stati pagati perchè uccidessero i Franzesi, e che
per ordine espresso erano stati assassinati. Orrore, dolore, terrore
prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi, spinti
dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte
franzese, a loro malgrado consentirono.
Il fine principale a cui miravano tutte le arti, gli spaventi e
le minacce, non era punto la liberazione di pochi carcerati, nè
l'incarcerazione di pochi magistrati. Volevasi la mutazione. Perilchè,
vintesi dagli agenti repubblicani le prime domande, insorgevano con
maggior calore, richiedendo il senato riducesse lo stato a forma più
democratica e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al
generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava;
e alla richiesta aggiungendo rappresentazioni, considerazioni ed
esortazioni calorosissime.
Cotali esortazioni fortissime in sè stesse, operavano gagliardamente.
Pure trovava non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano
in quei reggimenti democratici, non amore nè gratitudine per la
rinunziazione dei privilegii, ma scherni e persecuzione, nè cambiando
era andare dall'aristocrazia alla democrazia, ma bensì dal dominio
consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio
di Venezia, che già si vedeva non avere, pel cambiamento fatto, trovato
nè la libertà nè la concordia. Così si stava in pendente, e come accade
nei casi dubbii e pericolosi, si amava lo stare solo perchè lo stare
era consueto.
Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in
quella occorrenza di suprema anzi di unica importanza per la patria,
comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per
la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si
udiva eziandio che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che
da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a
Serrurier ove da per sè non bastassero. Erasi alcuni giorni innanzi
appresentata alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza
del Senato e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata
entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne
tornasse verso Tolone. Sebbene però quell'armata si fosse ritirata, si
sapeva che andava volteggiandosi ora a vista ed ora poco lontana dalla
riviera di ponente, e poteva dare animo e fare spalla facilmente ai
novatori della riviera ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso
dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune
squadre di soldati franzesi sparsi nella riviera e la prossimità di
Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitanti
delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò
nonostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, e già in
essa e nel Finale e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero che
chiamavano della libertà. Il senato, minacciato da una setta potente
nella sua sede medesima, attorniato da soldati forastieri, lacerato
dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che
sempre parlavano dello sdegno del direttorio e di Buonaparte, non aveva
più libertà di deliberare.
Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si
riformerebbe lo Stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al
popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legati a Buonaparte, con facoltà
di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili
Michiel Angelo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra. Partivano i
deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche,
conseguito l'intento, per alla volta medesima Faipoult e Lavallette,
per informare il generale dell'adempimento delle commissioni loro,
e per consigliarlo intorno alle persone che per gl'interessi della
Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento.
Il doge, i governatori ed i procuratori della repubblica avvertivano
del fatto il pubblico; esortando se ne vivessero intanto quieti e non
corrompessero con moti inopportuni un'occasione dalla quale dipendevano
il riposo e la felicità di tutti. Spedivano al tempo stesso il nobile
Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli in una faccenda di tanto
momento per la repubblica s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare,
che la forma antica il meno che fare si potesse si alterasse e la
integrità dei territorii in sicuro si ponesse.
Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo che
padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si
doveva definire il destino di Genova. Quivi consuonando i pensieri di
Buonaparte, che la somma delle cose si confidasse non a gente fanatica
e spaventevole ai re, ma bensì ad uomini temperati e savii, che o per
necessità consentivano al cambiamento o volevano la democrazia mista
con leggi, non pura e senza leggi, con quelli dei legati, ed anche
la volontà del vincitore non essendo contrastabile, non fu lungo il
negoziare, e a dì 5 giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra
la repubblica di Francia e quella di Genova, pei principali capitoli
del quale si statuiva: che il governo rimettesse alla nazione, così
richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità
che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse la sovranità stare nella
universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a
due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta
consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato
di dodici e a cui presiedesse un doge; il doge ed i senatori dai
consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali
municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà
giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorii secondo
il modello da farsi in una congregazione a posta si ordinassero, con
ciò però che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i
debiti dei pubblico si guarentissero; il porto franco ed il banco di
San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil
fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che
intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il
doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il
dì 14 di giugno. Statuisse delle indennità dei Franzesi offesi nei
giorni 22 e 23 maggio; finalmente la repubblica perdonasse a tutti che
l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei
territorii della repubblica genovese.
Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici
di dolci parole mostrando, molta affezione verso la repubblica e
consigliando fossero savi, fossero uniti e non dubitassero della
protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporale Giacomo
Brignole, doge, ed altri soggetti a lui piacenti, e col pensiero, non
solamente di dare autorità ad uomini prudenti e lontani da voglie
estreme, ma ancora, mescolando uomini di diverse condizioni, di
mostrare che la sovranità non cadeva già in pochi, ma bensì in tutti,
cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molli
mali umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili,
e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente
dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato
aristocrazia; gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima
perchè pretendeva parole d'amore di patria.
Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade
erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla
novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza e dal
desiderio di far certe dimostrazioni che credevano libertà; ed era
uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia,
che, ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. «Viva
la libertà, muoia l'aristocrazia, viva Francia, viva Buonaparte,»
gridavano le genovesi voci; in ogni angolo piantavansi gli alberi della
libertà; i balli, i canti ed i discorsi che si facevano loro intorno
erano eccessivi. Morando era fuori di sè dalla contentezza, sebbene
non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo,
parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava. I nobili o
si nascondevano nelle più segrete case o fuggivano dalla città, e ne
avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre il popolo mosso e
stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi.
La servile imitazione verso la tragicomedia della rivoluzione franzese
dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale
palazzo, i patriotti li guidavano, con animo di levarne il libro
d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica
aristocrazia. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo
portava con incredibili scede e giullerie sulla piazza dell'Acquaverde,
e quivi, acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida e le risa e gli
scherni furono molti. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del
doge e l'urna dove s'imborsavano i nomi dei senatori pegli squittinii.
Vi si aggiunsero altri stemmi gentilizii raccolti a furia di popolo
da diversi luoghi; poi piantavano sulle ceneri delle reliquie
aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi e le
musiche e i discorsi andavano al colmo.
Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, ed anche i carbonari vi si
mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere
ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle
sue virtù e de' suoi meriti verso la patria, i Genovesi antichi avevano
eretto nella corte del palazzo ducale. Dalle ingiurie si trapassava ad
insolenze criminose; perchè, sospettando che fossero ancora sostenuti
nelle carceri alcuni fra coloro che erano stati arrestati nei giorni
22 e 23 maggio, vi correvano a folla, ed, avendole sforzate, davano
comodità di fuggirsi a parecchi malfattori contaminando a questo modo
il nuovo governo con lo stesso fatto col quale avevano già assaltato
l'antico; tristi principii di libertà e di stato civile.
Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori
un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata
verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei
privilegii, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a
stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi
e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e
concordi. Venivano a congratularsi ed a parlare encomii dell'acquistata
libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva;
la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione genovese
parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire che i
feudi imperiali avevano fatto dedizione di sè medesimi a Genova e
mandato deputati. Poi, per esser allora odioso quel nome di feudi,
li chiamavano Monti Liguri. Erano volontieri accettati nella società
genovese, lodati e ringraziati i deputati.
Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto
geloso. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo luglio con
non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Ma l'affare
più importante che si esaminava nelle consulte genovesi, era quello
di formar il modello della nuova costituzione. Perlochè, conformandosi
ai patti di Montebello, creava il governo la stabilita congregazione,
chiamando e dalla città e dalla riviera e d'oltremonti uomini di
riputato valore. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo,
modellavano alla franzese e secondo i comandamenti di Buonaparte.
Serra, un di loro, s'intendeva col generalissimo ed aveva più dominio
degli altri. N'era imputato dai patriotti che incominciavano a
mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Piacevano a
Buonaparte quasi tutti i pensieri di Serra, e, come se fossero suoi, ne
scriveva lettere al governo genovese.
Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva
principio della religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche,
ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una coll'altra; i
chierici non che li disingannassero, li mantenevano nel falso concetto.
Comandava il governo che non fosse lecito ai vescovi di promuovere,
senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che, già
suddiaconi o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato o il
pretato, e parimente, senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o
donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache;
ordinamenti presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al
nuovo Stato se ne prevaleva. Poi decretava che ogni cherico, o regolare
o secolare che si fosse, se forastiero, dovesse fra certo termine e con
certe condizioni uscire dai territorii. Parevano questi stanziamenti
molto insoliti; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro
precetto, col quale si ordinava che uomini deputati dal governo a
tempo e dopo i divini uffici predicassero la democrazia alle genti. Fu
questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi
i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni
scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro
questa novità: i nemici dello Stato crescevano.
Questo quanto alla religione; si moltiplicavano per altre ragioni
gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si
lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse
a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e
si richiamasse Stefano Rivarola: si richiamasse ancora Cristoforo
Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero
posti al fisco, intanto si sequestrassero. L'atto rigoroso offendeva
i nobili; vieppiù gli animi s'inasprivano. Questo era riprensibile;
ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava
che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo
Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro
milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire
la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni
loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali
famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi,
i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei,
personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Ciò faceva
maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali, vedendo di
non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze nè per
le persone, pensavano a vendicarsi; non che si consigliassero di far
congiure o moti popolari perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò
tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano
le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero
era che il generalissimo aveva domandato parecchi milioni pel vivere
delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della
mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principii
e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati e il
patrocinio forastiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato
il rimedio di quell'ingiusto balzello. A tutto questo si aggiungevano
le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto
la speranza data espressamente che, cambiato il reggimento, la Francia
avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi.
Motivo potente di malumore era altresì quello che due generali
franzesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere e ad ordinare
i soldati, segno certo essere perita l'indipendenza. Ciò significava
inoltre che Buonaparte, o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava
inabili alle cose militari: dal che nasceva che chi pensava altamente,
si teneva mal soddisfatto. Udivasi che si voleva si smantellassero le
fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'indipendenza
verso Francia. Vedevano anche levarsi dalle porte della metropoli
i cannoni, il che interpretavano come voglia di aprir l'adito più
facile e più sicuro ai forastieri per invadere il cuore stesso della
repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi
dei forastieri. I nobili, i preti e gli aderenti loro, che non erano
pochi, fomentavano questi mali umori. Frano allora i reggitorii divisi
in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra
Corvetto, Ruzza e Carbonara; quello per un reggimento più stretto e
pendente all'aristocrazia: questi s'intendevano meglio con Faipoult,
alcuni per ambizione, altri a buon fine, credendo che, poichè i cieli
avevano destinato che i Franzesi divenissero padroni di Genova, miglior
partito era per arrivar a bene il vezzeggiarli che l'aspreggiarli,
perchè, volere o non volere, i Franzesi dominavano. Ma la maggior
dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva
odiosa, dall'altro la rendeva dipendente, più che non sarebbe stato
necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi
il chiamavano tiranno e nuovo duca di Orleans. Questi semi pestiferi
erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione e si
apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli
di Bisagno e di Polcevera. Era la cagione od il pretesto la nuova
costituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come
si era data intenzione, si doveva accettare il dì 14 settembre. Per far
posare gli animi, annunziavano essere prorogata l'accettazione, e si
torrebbe quanto potesse offendere la coscienza dei fedeli.
In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte
per consultar con lui degli articoli che avevano fatto adombrare i
popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono che s'arrestano.
Dava loro l'ultima pinta di essersi fatto arrestare tanto in città
quanto nel contado alcuni nobili che si credevano pericolosi; cinque
Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini
per nome e per ricchezza di molta dipendenza. Incominciavano il dì 4
settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane
a martello, i curati esortavano e guidavano i sollevati, si facevano
adunanze nelle ville dei nobili, poi, crescendo il numero ed il furore,
armati di armi diverse ma con animi concordi, fatta una gran massa,
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