Annali d'Italia, vol. 8 - 48
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che alloggiava nella terra di Castel Nuovo con due pezzi di cannone,
seicento Schiavoni, due mila cinquecento contadini, e fronteggiava
un grosso corpo di Franzesi e d'Italiani affinchè non corressero
contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente
in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il
presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con
tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso
della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio
il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare
liberamente e soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli
Emilii, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente
il Vecchio, e più fortemente dentro di essi si difendevano i Franzesi,
certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati
morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la
possessione dei luoghi, ma ancora la salute e la vita loro.
Il maggior propugnacolo che avessero era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggio a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere
quel castello; che anzi, più oltre procedendo, avevano piantato due
cannoni in San Leonardo, donde per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Franzesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivano
stragi, incendii, ruine. I villici avevano di volontà propria spedito
corrieri al generale austriaco Laudon; Balland aveva dato avviso a
Chabran, a Brescia, ed a Kilmaine, in Mantova; Victor medesimo era
stato da lui avvertito del pericolo: anche da Bologna s'accostava una
schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il
nembo che da ogni parte gli veniva addosso, aveva aperto una pratica
d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il
generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione,
che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle
comunicazioni dello esercito, il presidio veneziano alle poche genti
di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica
dallo accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia
infiammate, non volevano a patto nissuno udire che avessero a deporre
le armi: viemmaggiormente s'infuriavano.
Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa che
rappresentavano essere mescolata con la causa dello Stato la causa
della religione. Generavano i discorsi loro effetti incredibili.
Stupivano massimamente e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo
maraviglioso che sorse in mezzo a quella avviluppata tempesta, e questo
fu di un frate cappuccino che predicava ogni giorno sulla piazza,
stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Le parole
sue, dette e replicate più volte, destavano negli animi già tanto
concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli
uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno di insolenza ad un tempo e di crudele
risentimento.
Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo istituto ed a
cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse
armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato
significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in
Venezia, ed il Franzese ne aveva come tutti gli altri avuto notizia.
Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e
conveniente cosa, com'era veramente, che non si dovesse turbare con la
presenza d'armi forastiere la sede del governo. Ma ecco la sera del 20
aprile avvicinarsi al Lido di san Nicolò un legno armato in forma di
corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno
Franzese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato
alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato
e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra
medesima aveva obbedito. Il capitano, o per insolenza propria o
altrimenti che fosse, non curando le esortazioni del Pizzamano e
seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto e vi poneva
l'ancora con violazione manifesta d'una legge veneziana in Venezia.
Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, come
per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera veneziana; pensiero
veramente strano del volere, con pubblica dimostrazione, render onore
ad una potenza nel momento stesso in cui sotto gli occhi del suo
principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima
legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni franzesi, giunto
alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante
veneziano che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori.
Perilchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva rendendo fuoco
per fuoco, contro il legno franzese. Era da arrestarsi il legno, ed
obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir del porto. Ma le cose
non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere che più
oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni che allora
passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier
tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia e devota a
Venezia, assaltavano con grandissima forza e con arma bianca la nave
del capitano franzese, nella quale sfogando, troppo più che all'umanità
si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia.
Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Franzesi, fra i
quali il capitano medesimo: otto restarono feriti; che anzi se gli
ufficiali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati
loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi.
Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico
decreto Pizzamano e gli ufficiali; largiva di un caposoldo i gregari;
mandava un sunto del fatto ai legati Donato e Giustiniani acciocchè
il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da
altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro
di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato che cercasse
Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse
il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedette
fino alla risposta di Buonaparte.
Terrore era in Venezia e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima
si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavia i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto
perchè questo ardore era estremo, si doveva temere che non tardasse
a raffreddarsi. Già i Franzesi ingrossavano tutto all'intorno.
S'accostava Kilmaine venuto da Mantova. Chabran compariva sotto le
mura verso la porta di San Zeno; le prime squadre di Victor arrivavano
in luogo donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di
Judenborgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque
i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo
del colonnello Beaupoil; ma la pratica non ebbe perfezione, perchè
il popolo non volle udire che avesse a depor l'armi e non fossero
esclusi i Franzesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava
ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli.
Erano col primo il generale Chevalier e Landrieux, col secondo il conte
degli Emilii, il conte Giusti ed un Merighi, personaggio molto amato
dai Sanzenati. Pervenivano intanto le novelle che Lahoz con una banda
di tre mila soldati tra Italiani e Polacchi, al soldo della repubblica
Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contra
le leve campagnuole di quel distretto.
Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
veneto contro i Franzesi, quando stavano a fronte di un nimico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a far la tregua; che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux (e qui ognuno pensi
da sè), che i rei disegni del senato contro i Franzesi erano pruovati
dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia
de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi
per amore verso il principe e per opporsi ai ribelli apertamente
incitati e protetti dai Franzesi; l'intervenzione dei Franzesi in
tutti questi moti viemmaggiormente dimostrarsi da ciò che i turbatori
della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland come
in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di
lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo
aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro e vendicare il loro
principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti
ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato
minacciava che entrerebbe per forza, arderebbe e saccheggerebbe Verona.
Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello
San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il
fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i
castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano
spesso i Franzesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine
si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate che gli
contrastavano il passo. Già il rumore della victoriana schiera ormai
vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si
facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa
poteva impedire che vi entrassero.
Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il qual
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo Stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva che era già vinta Verona quando ancora
combatteva. Perlocchè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi nelle seguenti condizioni: deponessero i villani
l'armi e sgombrassero da Verona; i Franzesi la occupassero; tutte
le armi e munizioni si dessero in mano loro; fossero consegnati in
castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo,
Giuliari, Emilii, il vescovo Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi,
Filiberi, i due fratelli Carlotti, San-Fermo e Garavetta: eseguiti i
capitoli si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiugnere
il capitolo che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi,
delle truppe e dei capi loro; ma Kilmaine, ch'era sopraggiunto,
non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri
capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi
dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che
i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di
lei provvedessero. Fu grande in questi negozii il dolore e lo spavento
dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele
al nome veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso,
ma udivano anche parole espresse e funeste della vicina distruzione
della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed
almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la
repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici
secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi.
Entravano i Franzesi nella sanguinosa Verona. Ci è forza raccontare un
fatto orribile, e quest'è che i patriotti italiani, che pretendevano
parole di libertà e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano
diligentemente, secondando il furore dei capi dei repubblicani di
Francia, per le case gli autori della resistenza veronese, e trovati,
li davano loro in mano perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio.
Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino e lo consegnavano ai
percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva
scritta in istile più polito che a cappuccino si appartenesse, veniva
attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di
predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo.
Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza che
aveva sostenuto predicando. Condannato nel capo, incontrò la morte con
quella medesima costanza con la quale aveva vissuto. Conservò la storia
il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi
sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia che ad onore.
Si chiamava frate Luigi da Colloredo; e dopo la venuta dei Tedeschi
gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapide tramandatrice
ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte
i conti Francesco degli Emilii, Verità e Malenza, con alcuni altri di
minor nome. Tale fu l'esito della veronese sollevazione: la chiamarono
le pasque veronesi a confronto dei vespri siciliani; ma se ugualmente
crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè
a Verona si aggiunse la perfidia alla tirannide.
Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano
le armi; seguitavano minaccie crudeli e fatti peggiori; si viveva
dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più
preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti
tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di
minor prezzo, ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu
preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno; nè
si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste
furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto
commissario sopra il monte, fu carcerato e condotto in Francia per
esser processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente
o che altro si fosse. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventi
mila zecchini, e di più cinquanta mila per capo-soldo ai soldati dei
castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli
dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavalleria; ancora
desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in
quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese che del
pubblico si confiscasse in pro della repubblica; i quadri, gli erbarii,
i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi
posti al fisco della repubblica; i privati che meritassero di esser
fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.
Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata
mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione
dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi uffiziali
superiori aver colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte
di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose
suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto
rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli
espilatori impazienti all'indugio dell'aprir le porte, le avevano
sforzate; e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi
entrarono con le scuri e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere,
che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di
questo dilapidare; non dubitare che se si venisse a processo contro
di lui, non mettesse in compromesso cittadini che erano nei superiori
gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della
città; gl'incendii, i furti, le rapine generali e particolari fatte
d'arbitrio e senza legale autorità, avere spopolato parecchi villaggi e
ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere
a tal colmo questa peste, che uffiziali adescati dall'amor del sacco
si erano fatti comandanti di piazza da sè medesimi, ed avevano commesso
atti, cui la giustizia, l'onore e la severità della disciplina militare
condannavano; gli arbitrii di Verona essere ancora più orribili; tolte
sforzate esservi state fatte per iscritto fino a franchi sessanta mila,
e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni intieri le botteghe;
regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio; essere Verona
deserta; alcuni uffiziali essersi impadroniti di merci spettanti a'
negozianti sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case
saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più
di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui
desiderar di vendicare il sangue franzese; ma nissuno più di lui odiare
l'ingiustizia e la persecuzione; se i Franzesi erano stati rei di
ingiustizia e di persecuzione, a lui toccare il consolar i Veneziani, a
lui toccar fare ch'essi dimenticassero ch'erano obbligati d'una parte
dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele, richiedeva
Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il
contado partecipe.
Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, dava in un
grandissimo sdegno, con acerbissime parole lamentandosi del sangue
franzese sparso e protestando volerne aver vendetta. Adunque scriveva
al ministro Lallemand queste furiose parole: «S'insultano a Venezia
i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si
assassinano i Franzesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro e
protesto non voler udire proposta di conciliazione se prima non sono
arrestati i tre inquisitori di stato ed il comandante del Lido: si
carcerino, e poi venite a trovarmi.»
Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre
inquisitori ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole
della laguna: gli avvogadori del comune incominciavano a far loro il
processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo)
i carcerati per opinioni o fatti politici, fra gli altri i ribelli di
Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivano
i Franzesi; solo restava Villetard, segretario della legazione, come
agente eletto ad operare la mutazione di governo.
Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato e Leonardo
Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono
in Gradisca: introdotti, escusavano la repubblica: aver voluto Venezia
amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di
lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta quand'era pericolo il
riconoscerla: avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai
confederati a' danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli
eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato
com'era con l'imperatore gli Stati suoi; averle fatto copia delle sue
fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a
somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere
dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser
probabile, affermavano, che uno Stato illanguidito da danni sì gravosi,
consumato da dispendii sì enormi, mutilato per l'alterazione di tante
città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella
avea obbligato alla pace quasi tutta l'Europa? Volere il veneziano
governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè
trovavano nella guerra immensi profitti ed il compimento dei loro
fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti,
le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti
franzesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente, non venir loro per
muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere che si
appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero
tutti i sospetti dei comandanti essere opera dei raggiri e delle fraudi
dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a
punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizii dei fatti,
dei luoghi e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la
mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare
i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate e si
preservassero le fedeli dagl'insulti loro.
Non valsero le escusazioni o le profferte a vincere il generalissimo.
Rispose che volea che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di
Verona, perchè erano addetti a Francia; che non voleva più piombi, ed
anderebbe egli a romperli; che non voleva più inquisizione, barbarie
dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i
Franzesi erano stati assassinati in Venezia e nella terraferma, e che
i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano
vendetta e ch'ei la doveva fare; che bene aveva il senato tante spie
che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva
mezzi per frenare i popoli, era imbecille e non doveva più sussistere;
che non voleva alleanze con Venezia nè progetti; che voleva comandare;
che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che
insomma; se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro
d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigionieri,
non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egli intimerebbe la guerra a
Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare
all'autorità suprema; che il governo veneziano era vecchio e doveva
cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato veneto; se non avevano
altro a dire, se n'andassero.
Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le
novelle del fatto del Lido e con accomodate parole il rappresentarono
a Buonaparte. Rispondeva che non li voleva vedere, che non li voleva
udire, bruttati com'erano di sangue franzese, se prima non gli davano
in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido e gl'inquisitori di
Stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con
menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero
tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.
Adunque dichiarava il dì 2 maggio la guerra a Venezia. Avere, intimava,
il governo veneto usato la occasione della settimana santa, mentre
l'esercito franzese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere
in armi e col fine di tagliargli le strade, quaranta mila Schiavoni;
mandar Venezia armi e commissarii straordinarii in terraferma,
arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare la
piazza, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, di mali fatti
contro i Franzesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine
i popoli di Padova, Vicenza e Verona di armarsi a stormo per rinnovare
i Vespri Siciliani; gridare gli ufficiali veneti che si aspettava al
Lione veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba
dei Franzesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le
stampe la crociata; assassinarsi in Castiglione dei Mori; assassinarsi
sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona;
impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia;
suonarsi campana a martello a Verona; trucidarvisi i convalescenti;
assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidii franzesi ritirati
ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una
nave veneziana contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una
conserva austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine
Laugier: per tutte queste cose voleva ed ordinava, che il ministro di
Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero
dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero
come nemiche le truppe veneziane ed atterrassero il Lione di San Marco
da tutte le città della terraferma.
La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte non pareva poter bastare
per arrivare al fine del cambiar la forma del governo veneziano.
Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati
veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a
questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers che si
accostasse coi soldati alle rive dell'estuario e d'ogni intorno
tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della
repubblica: a questo fine ancora Villetard e gli altri repubblicani
rimasti a Venezia menavano un rumore incredibile contro l'aristocrazia,
esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare
lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo democratico: a
questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano e si
concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino,
confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli,
più apertamente insidiavano e minacciavano lo Stato: al medesimo
intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di
congiure occulte, d'armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni
accese, i malvagi trionfavano; dei buoni i più ristavano per timore
dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento che si vedeva in
aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.
Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel
senato in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era, o
per prudenza o per consuetudine o per ostinazione, risoluto a voler
perseverare nelle massime dell'antico Stato; già aveva ordinato che
diligentemente e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i
novatori che, ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni
negli antichi ordini della costituzione al consiglio grande, in cui
si era investita la sovranità e dal quale solo simili alterazioni
dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa
coloro che indrizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono
di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando che ad
accidenti straordinarii abbisognavano rimedii straordinarii. I savi
attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard,
operarono in modo che si facesse un'adunanza insolita nelle stanze
private del doge, la sera del 30 aprile. Interveniva il doge Manin,
i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savii attuali, i
savii di terraferma, i savii usciti ed i tre capi del consiglio dei
Dieci. Si trattava in questa adunanza di ciò che si convenisse fare
in sì luttuosa occorenza per la salute della repubblica. Il principal
fine era di rappresentar le cose in maniera che il consiglio grande
autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.
Il doge, venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in
questi termini: «La gravità e l'angustia delle presenti circostanze
chiama tutte elle a proponer il miglior mezzo possibile per presentar
al supremo maggior conseio el stato nel qual se trovemo per le notizie
che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima
peraltro ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de
raccoglier brevemente quel che xe per espornerghe el cavalier Dolfin.»
Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava che fosse molto a
proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale
egli aveva amicizia ed era, secondo ch'egli opinava, molto innanzi
nello animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta
dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica e gloriosa
repubblica; poichè ero parere di uno de' principali statuali, già
ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso
momento dall'intercessione di un pubblicano.
Non erano ancora gli animi de' circostanti tanto abietti che non
deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano
diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro che non si alterasse a modo
alcuno la costituzione e si facessero le più efficaci risoluzioni per
difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza veneziana.
Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai
legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre
si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer,
soprantendente alle difese dell'estuario, arriva novelle che già i
Franzesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia.
Parve si udisse il romor de' cannoni. Si suscitava gran terrore fra
seicento Schiavoni, due mila cinquecento contadini, e fronteggiava
un grosso corpo di Franzesi e d'Italiani affinchè non corressero
contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente
in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il
presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con
tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso
della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio
il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare
liberamente e soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli
Emilii, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente
il Vecchio, e più fortemente dentro di essi si difendevano i Franzesi,
certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati
morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la
possessione dei luoghi, ma ancora la salute e la vita loro.
Il maggior propugnacolo che avessero era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggio a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere
quel castello; che anzi, più oltre procedendo, avevano piantato due
cannoni in San Leonardo, donde per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Franzesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivano
stragi, incendii, ruine. I villici avevano di volontà propria spedito
corrieri al generale austriaco Laudon; Balland aveva dato avviso a
Chabran, a Brescia, ed a Kilmaine, in Mantova; Victor medesimo era
stato da lui avvertito del pericolo: anche da Bologna s'accostava una
schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il
nembo che da ogni parte gli veniva addosso, aveva aperto una pratica
d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il
generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione,
che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle
comunicazioni dello esercito, il presidio veneziano alle poche genti
di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica
dallo accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia
infiammate, non volevano a patto nissuno udire che avessero a deporre
le armi: viemmaggiormente s'infuriavano.
Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa che
rappresentavano essere mescolata con la causa dello Stato la causa
della religione. Generavano i discorsi loro effetti incredibili.
Stupivano massimamente e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo
maraviglioso che sorse in mezzo a quella avviluppata tempesta, e questo
fu di un frate cappuccino che predicava ogni giorno sulla piazza,
stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Le parole
sue, dette e replicate più volte, destavano negli animi già tanto
concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli
uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno di insolenza ad un tempo e di crudele
risentimento.
Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo istituto ed a
cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse
armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato
significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in
Venezia, ed il Franzese ne aveva come tutti gli altri avuto notizia.
Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e
conveniente cosa, com'era veramente, che non si dovesse turbare con la
presenza d'armi forastiere la sede del governo. Ma ecco la sera del 20
aprile avvicinarsi al Lido di san Nicolò un legno armato in forma di
corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno
Franzese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato
alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato
e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra
medesima aveva obbedito. Il capitano, o per insolenza propria o
altrimenti che fosse, non curando le esortazioni del Pizzamano e
seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto e vi poneva
l'ancora con violazione manifesta d'una legge veneziana in Venezia.
Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, come
per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera veneziana; pensiero
veramente strano del volere, con pubblica dimostrazione, render onore
ad una potenza nel momento stesso in cui sotto gli occhi del suo
principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima
legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni franzesi, giunto
alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante
veneziano che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori.
Perilchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva rendendo fuoco
per fuoco, contro il legno franzese. Era da arrestarsi il legno, ed
obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir del porto. Ma le cose
non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere che più
oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni che allora
passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier
tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia e devota a
Venezia, assaltavano con grandissima forza e con arma bianca la nave
del capitano franzese, nella quale sfogando, troppo più che all'umanità
si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia.
Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Franzesi, fra i
quali il capitano medesimo: otto restarono feriti; che anzi se gli
ufficiali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati
loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi.
Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico
decreto Pizzamano e gli ufficiali; largiva di un caposoldo i gregari;
mandava un sunto del fatto ai legati Donato e Giustiniani acciocchè
il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da
altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro
di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato che cercasse
Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse
il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedette
fino alla risposta di Buonaparte.
Terrore era in Venezia e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima
si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavia i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto
perchè questo ardore era estremo, si doveva temere che non tardasse
a raffreddarsi. Già i Franzesi ingrossavano tutto all'intorno.
S'accostava Kilmaine venuto da Mantova. Chabran compariva sotto le
mura verso la porta di San Zeno; le prime squadre di Victor arrivavano
in luogo donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di
Judenborgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque
i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo
del colonnello Beaupoil; ma la pratica non ebbe perfezione, perchè
il popolo non volle udire che avesse a depor l'armi e non fossero
esclusi i Franzesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava
ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli.
Erano col primo il generale Chevalier e Landrieux, col secondo il conte
degli Emilii, il conte Giusti ed un Merighi, personaggio molto amato
dai Sanzenati. Pervenivano intanto le novelle che Lahoz con una banda
di tre mila soldati tra Italiani e Polacchi, al soldo della repubblica
Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contra
le leve campagnuole di quel distretto.
Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
veneto contro i Franzesi, quando stavano a fronte di un nimico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a far la tregua; che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux (e qui ognuno pensi
da sè), che i rei disegni del senato contro i Franzesi erano pruovati
dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia
de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi
per amore verso il principe e per opporsi ai ribelli apertamente
incitati e protetti dai Franzesi; l'intervenzione dei Franzesi in
tutti questi moti viemmaggiormente dimostrarsi da ciò che i turbatori
della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland come
in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di
lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo
aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro e vendicare il loro
principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti
ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato
minacciava che entrerebbe per forza, arderebbe e saccheggerebbe Verona.
Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello
San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il
fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i
castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano
spesso i Franzesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine
si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate che gli
contrastavano il passo. Già il rumore della victoriana schiera ormai
vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si
facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa
poteva impedire che vi entrassero.
Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il qual
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo Stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva che era già vinta Verona quando ancora
combatteva. Perlocchè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi nelle seguenti condizioni: deponessero i villani
l'armi e sgombrassero da Verona; i Franzesi la occupassero; tutte
le armi e munizioni si dessero in mano loro; fossero consegnati in
castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo,
Giuliari, Emilii, il vescovo Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi,
Filiberi, i due fratelli Carlotti, San-Fermo e Garavetta: eseguiti i
capitoli si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiugnere
il capitolo che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi,
delle truppe e dei capi loro; ma Kilmaine, ch'era sopraggiunto,
non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri
capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi
dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che
i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di
lei provvedessero. Fu grande in questi negozii il dolore e lo spavento
dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele
al nome veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso,
ma udivano anche parole espresse e funeste della vicina distruzione
della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed
almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la
repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici
secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi.
Entravano i Franzesi nella sanguinosa Verona. Ci è forza raccontare un
fatto orribile, e quest'è che i patriotti italiani, che pretendevano
parole di libertà e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano
diligentemente, secondando il furore dei capi dei repubblicani di
Francia, per le case gli autori della resistenza veronese, e trovati,
li davano loro in mano perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio.
Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino e lo consegnavano ai
percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva
scritta in istile più polito che a cappuccino si appartenesse, veniva
attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di
predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo.
Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza che
aveva sostenuto predicando. Condannato nel capo, incontrò la morte con
quella medesima costanza con la quale aveva vissuto. Conservò la storia
il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi
sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia che ad onore.
Si chiamava frate Luigi da Colloredo; e dopo la venuta dei Tedeschi
gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapide tramandatrice
ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte
i conti Francesco degli Emilii, Verità e Malenza, con alcuni altri di
minor nome. Tale fu l'esito della veronese sollevazione: la chiamarono
le pasque veronesi a confronto dei vespri siciliani; ma se ugualmente
crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè
a Verona si aggiunse la perfidia alla tirannide.
Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano
le armi; seguitavano minaccie crudeli e fatti peggiori; si viveva
dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più
preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti
tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di
minor prezzo, ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu
preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno; nè
si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste
furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto
commissario sopra il monte, fu carcerato e condotto in Francia per
esser processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente
o che altro si fosse. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventi
mila zecchini, e di più cinquanta mila per capo-soldo ai soldati dei
castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli
dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavalleria; ancora
desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in
quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese che del
pubblico si confiscasse in pro della repubblica; i quadri, gli erbarii,
i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi
posti al fisco della repubblica; i privati che meritassero di esser
fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.
Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata
mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione
dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi uffiziali
superiori aver colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte
di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose
suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto
rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli
espilatori impazienti all'indugio dell'aprir le porte, le avevano
sforzate; e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi
entrarono con le scuri e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere,
che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di
questo dilapidare; non dubitare che se si venisse a processo contro
di lui, non mettesse in compromesso cittadini che erano nei superiori
gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della
città; gl'incendii, i furti, le rapine generali e particolari fatte
d'arbitrio e senza legale autorità, avere spopolato parecchi villaggi e
ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere
a tal colmo questa peste, che uffiziali adescati dall'amor del sacco
si erano fatti comandanti di piazza da sè medesimi, ed avevano commesso
atti, cui la giustizia, l'onore e la severità della disciplina militare
condannavano; gli arbitrii di Verona essere ancora più orribili; tolte
sforzate esservi state fatte per iscritto fino a franchi sessanta mila,
e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni intieri le botteghe;
regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio; essere Verona
deserta; alcuni uffiziali essersi impadroniti di merci spettanti a'
negozianti sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case
saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più
di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui
desiderar di vendicare il sangue franzese; ma nissuno più di lui odiare
l'ingiustizia e la persecuzione; se i Franzesi erano stati rei di
ingiustizia e di persecuzione, a lui toccare il consolar i Veneziani, a
lui toccar fare ch'essi dimenticassero ch'erano obbligati d'una parte
dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele, richiedeva
Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il
contado partecipe.
Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, dava in un
grandissimo sdegno, con acerbissime parole lamentandosi del sangue
franzese sparso e protestando volerne aver vendetta. Adunque scriveva
al ministro Lallemand queste furiose parole: «S'insultano a Venezia
i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si
assassinano i Franzesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro e
protesto non voler udire proposta di conciliazione se prima non sono
arrestati i tre inquisitori di stato ed il comandante del Lido: si
carcerino, e poi venite a trovarmi.»
Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre
inquisitori ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole
della laguna: gli avvogadori del comune incominciavano a far loro il
processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo)
i carcerati per opinioni o fatti politici, fra gli altri i ribelli di
Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivano
i Franzesi; solo restava Villetard, segretario della legazione, come
agente eletto ad operare la mutazione di governo.
Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato e Leonardo
Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono
in Gradisca: introdotti, escusavano la repubblica: aver voluto Venezia
amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di
lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta quand'era pericolo il
riconoscerla: avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai
confederati a' danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli
eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato
com'era con l'imperatore gli Stati suoi; averle fatto copia delle sue
fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a
somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere
dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser
probabile, affermavano, che uno Stato illanguidito da danni sì gravosi,
consumato da dispendii sì enormi, mutilato per l'alterazione di tante
città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella
avea obbligato alla pace quasi tutta l'Europa? Volere il veneziano
governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè
trovavano nella guerra immensi profitti ed il compimento dei loro
fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti,
le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti
franzesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente, non venir loro per
muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere che si
appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero
tutti i sospetti dei comandanti essere opera dei raggiri e delle fraudi
dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a
punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizii dei fatti,
dei luoghi e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la
mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare
i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate e si
preservassero le fedeli dagl'insulti loro.
Non valsero le escusazioni o le profferte a vincere il generalissimo.
Rispose che volea che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di
Verona, perchè erano addetti a Francia; che non voleva più piombi, ed
anderebbe egli a romperli; che non voleva più inquisizione, barbarie
dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i
Franzesi erano stati assassinati in Venezia e nella terraferma, e che
i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano
vendetta e ch'ei la doveva fare; che bene aveva il senato tante spie
che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva
mezzi per frenare i popoli, era imbecille e non doveva più sussistere;
che non voleva alleanze con Venezia nè progetti; che voleva comandare;
che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che
insomma; se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro
d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigionieri,
non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egli intimerebbe la guerra a
Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare
all'autorità suprema; che il governo veneziano era vecchio e doveva
cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato veneto; se non avevano
altro a dire, se n'andassero.
Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le
novelle del fatto del Lido e con accomodate parole il rappresentarono
a Buonaparte. Rispondeva che non li voleva vedere, che non li voleva
udire, bruttati com'erano di sangue franzese, se prima non gli davano
in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido e gl'inquisitori di
Stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con
menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero
tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.
Adunque dichiarava il dì 2 maggio la guerra a Venezia. Avere, intimava,
il governo veneto usato la occasione della settimana santa, mentre
l'esercito franzese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere
in armi e col fine di tagliargli le strade, quaranta mila Schiavoni;
mandar Venezia armi e commissarii straordinarii in terraferma,
arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare la
piazza, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, di mali fatti
contro i Franzesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine
i popoli di Padova, Vicenza e Verona di armarsi a stormo per rinnovare
i Vespri Siciliani; gridare gli ufficiali veneti che si aspettava al
Lione veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba
dei Franzesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le
stampe la crociata; assassinarsi in Castiglione dei Mori; assassinarsi
sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona;
impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia;
suonarsi campana a martello a Verona; trucidarvisi i convalescenti;
assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidii franzesi ritirati
ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una
nave veneziana contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una
conserva austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine
Laugier: per tutte queste cose voleva ed ordinava, che il ministro di
Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero
dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero
come nemiche le truppe veneziane ed atterrassero il Lione di San Marco
da tutte le città della terraferma.
La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte non pareva poter bastare
per arrivare al fine del cambiar la forma del governo veneziano.
Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati
veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a
questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers che si
accostasse coi soldati alle rive dell'estuario e d'ogni intorno
tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della
repubblica: a questo fine ancora Villetard e gli altri repubblicani
rimasti a Venezia menavano un rumore incredibile contro l'aristocrazia,
esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare
lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo democratico: a
questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano e si
concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino,
confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli,
più apertamente insidiavano e minacciavano lo Stato: al medesimo
intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di
congiure occulte, d'armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni
accese, i malvagi trionfavano; dei buoni i più ristavano per timore
dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento che si vedeva in
aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.
Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel
senato in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era, o
per prudenza o per consuetudine o per ostinazione, risoluto a voler
perseverare nelle massime dell'antico Stato; già aveva ordinato che
diligentemente e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i
novatori che, ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni
negli antichi ordini della costituzione al consiglio grande, in cui
si era investita la sovranità e dal quale solo simili alterazioni
dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa
coloro che indrizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono
di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando che ad
accidenti straordinarii abbisognavano rimedii straordinarii. I savi
attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard,
operarono in modo che si facesse un'adunanza insolita nelle stanze
private del doge, la sera del 30 aprile. Interveniva il doge Manin,
i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savii attuali, i
savii di terraferma, i savii usciti ed i tre capi del consiglio dei
Dieci. Si trattava in questa adunanza di ciò che si convenisse fare
in sì luttuosa occorenza per la salute della repubblica. Il principal
fine era di rappresentar le cose in maniera che il consiglio grande
autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.
Il doge, venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in
questi termini: «La gravità e l'angustia delle presenti circostanze
chiama tutte elle a proponer il miglior mezzo possibile per presentar
al supremo maggior conseio el stato nel qual se trovemo per le notizie
che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima
peraltro ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de
raccoglier brevemente quel che xe per espornerghe el cavalier Dolfin.»
Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava che fosse molto a
proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale
egli aveva amicizia ed era, secondo ch'egli opinava, molto innanzi
nello animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta
dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica e gloriosa
repubblica; poichè ero parere di uno de' principali statuali, già
ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso
momento dall'intercessione di un pubblicano.
Non erano ancora gli animi de' circostanti tanto abietti che non
deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano
diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro che non si alterasse a modo
alcuno la costituzione e si facessero le più efficaci risoluzioni per
difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza veneziana.
Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai
legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre
si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer,
soprantendente alle difese dell'estuario, arriva novelle che già i
Franzesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia.
Parve si udisse il romor de' cannoni. Si suscitava gran terrore fra
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