Annali d'Italia, vol. 8 - 47

Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a quella città.
Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del
governo veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi
dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra
quegli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro
sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai
sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni; vi mandava due provveditori
straordinarii, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e
Nicolò Erizzo, uomo di natura molto calda ed amantissimo del nome
veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava
facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilii, personaggio
ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del
contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa che in poter
suo fosse, facesse per isventare le macchinazioni dei repubblicani.
Accettava volentieri il carico il conte Emilii, e tra per l'autorità
del suo nome e l'efficacia delle sue ricchezze faceva non poco frutto,
soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a sè
buoni e cattivi per tenere in piedi la insidiata repubblica. Faceva
compagni alla sua impresa il conte Verità ed il conte Malenza co'
suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere
l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed
i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano
lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi,
già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per
l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno lo orribile governo
che facevano delle provincie le truppe repubblicane, sì quelle che
stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù inaspriva i popoli
una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in
guerra erano fatti pagare dai comuni.
Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò; perchè andata contro
questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di
qualche Franzese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani aiutati
dagli abitatori della valle di Sabbia. Queste erano le masse ordinate
dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio
di fedeltà e di ardire dava nello fazione di Salò il provveditore
Francesco Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di
cento, furono condotti a trionfo per Verona; i sudditi, carcerati
come rei di Stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi
sbigottiti in tutta la terra ferma. Armavansi a gara i popoli e
protestavano della fede loro verso il senato. E questo moto fu apposto
a delitto ai Veneziani dai Franzesi e da' lor partigiani.
Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I
moti della terraferma erano spontanei e solo cagionati dalla rabbia
concetta dai popoli infastiditi delle insolenze e sdegnati dalle
ingiurie dei forastieri. Perciò il senato li poteva qualificare come
opera non sua e sempre protestare, quanto spetta alla direzione dei
governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in
Italia, secondando il talento proprio, e, credendo di far cosa grata
al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo
un atto falso ad uno dei magistrati più principali, far in modo che il
governo veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni
contro i Franzesi. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto
attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica
in terra ferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i
Franzesi e ad ucciderli. Fu questo manifesto composto per opera di un
Salvadori, novatore molto operativo di Milano e rapportatore palese e
segreto di Buonaparte, poi caduto in miseria tale che, gittatosi in
fiume a Parigi, terminò con fine disperato una vita poco onorevole.
Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale che si scriveva
in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati
ancor essi dalla illusione e dalle vertigini di quell'età. Quantunque
astutamente gli sia stata apposta la data del 20 marzo, uscì veramente
al 5 aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo
a questo tempo, e già fatto sicuro della pace con l'imperadore, non
aveva più timore delle masse veneziane. Non daremo nè il manifesto nè
le parole gravissime nelle quali in tale proposito proruppe uno storico
famoso; ma dobbiam dire che il manifesto si spargeva in copia dai
patriotti e dai capi franzesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo
i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse,
perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le
genti Lombarde e Polacche, gli avvertiva con bando pubblico che la
neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale,
soggiungeva, si era pazzamente persuaso che «Voi altri contadini,
privi in tutto di arte militare, sareste, i vincitori dei Franzesi,
la prima nazione dell'universo pel coraggio e la scienza della guerra.
Sappiate adunque che il generale Buonaparte ha ordinato che Battaglia
sia messo in ferri ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro che
v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie
desolate; uscite d'errore e presto; deponete le armi, portatele al
comando di Brescia, mandategli deputati; quando no, perirete tutti.»
Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del
manifesto per far vedere ai popoli ch'ei fosse vero; e que' ferri e
quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi
allora in Venezia, non era in podestà loro nè di farlo arrestare nè di
farlo impiccare. Allontanava da sè Battaglia l'infamia del manifesto
con ismentirlo; lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava;
perchè i tempi erano più forti delle protestazioni.
Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio de' Veneziani,
era spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente
Stato. Restava che le condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli
Austriaci, che si potesse senza pericolo mandar fuori quello che già da
lungo tempo si era il generalissimo nell'animo concetto. A questo gli
dava occasione la tregua sottoscritta coi legali dell'imperadore il dì
7 aprile a Judenburgo. Ed in fatti non così tosto l'ebbe firmata, che
incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò
ad esecuzione in varii modi, ma che tutti tendevamo al meedesimo fine.
Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare
un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità
della repubblica. Arrivato Junot, altieramente richiedeva per parte
del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal
serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabbato,
in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel
giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Ne avvertivano Junot;
ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo,
insisteva dicendo o l'udissero subito o appiccherebbe le cedole della
guerra ai muri. Credettero i padri che il derogare all'uso antico fosse
minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e
consentirono ad udirlo la mattina del sabbato. Introdotto in collegio,
dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della
quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma ed i
cinque agli ordini, leggeva una lettera che scriveva Buonaparte al doge
il dì 9 aprile da Judenburgo, ed era questa: «Tutta la terraferma della
serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed
armati gridano i paesani morte ai Franzesi; molte centinaia di soldati
dell'esercito Italico già sono stati uccisi, invano voi disapprovate
le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi che nel momento in
cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare
il primo popolo dell'universo? Credete voi che le legioni d'Italia
sopporteranno pazientemente le stragi che voi eccitate? Il sangue de'
miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi
a molti doppii il coraggio ogni battaglione, ogni soldato franzese.
Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi
usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è
portatore o di pace o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse,
se non arrestate e non date in mia mano gli autori degli omicidii, la
guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun
nemico vi minaccia, d'animo deliberato voi avete inventato pretesti
per giustificar le masse armate contro l'esercito: ma ventiquattr'ore
di tempo e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo VIII. Se,
contro il chiaro intendimento del governo franzese, voi mi sforzate
alla guerra, non pensate per questo che, ad esempio degli assassini che
voi avete armati, i soldati franzesi siano per devastar le campagne del
popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed
egli benedirà un giorno sino i delitti che avranno obbligato l'esercito
franzese a liberarlo dal vostro tirannico governo.»
Qui non è bisogno d'aggiugner discorsi per giudicare di così fatta
intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il
loro sovrano, non si sarebbero mossi e non avrebbero ucciso i soldati
franzesi se gl'insidiatori non avessero seminato la ribellione. Del
resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia come la
solita gonfiezza ebbe allegato. Ridotto il principe di sì antica e
nobile repubblica a condizione tanto abbietta, rispose pacatamente,
delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e
di amicizia verso la nazione franzese. Intanto le crudeli calunnie,
l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo
de' circostanti di orrore e di terrore.
Acerbe lettere scriveva il dì medesimo del 9 aprile il generalissimo
a Lallemand: non potersi più dubitare che lo armarsi de' Veneziani
non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia;
non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte
le altre degli Stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata
contro di lui; meno ancora potuto comprendere come per calmare quel
piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè
quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la
mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli
atti dei provveditori di Brescia, Bergamo e Crema, in cui si affermava
essere la sollevazione opera de' Franzesi, esser bugie inventate a
disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato
veneziano; avere il senato usato la occasione in cui egli, inoltratosi
nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per
mandar ad effetto una fraude che sarebbe priva d'esempio se non fossero
quelle ordite contro Carlo VIII ed i Vespri Siciliani; essere stati i
Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento in cui
i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i
Veneziani più fortunati di Roma; la fortuna della repubblica Franzese,
stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune
veneziane.
Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una
nave veneziana, a fine di tutelare una conserva tedesca, combattuto
la fregata franzese la Bruna; essere stata arsa la casa del console
a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza
il governatore; dieci mila paesani armati e pagati dai senato aver
ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Franzesi; piene essere, malgrado
delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova e Treviso;
arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; gridarsi per ogni
parte morte ai Franzesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni
cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera
ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia;
saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi,
che il disapprovare con parole quelle masse che coi fatti armava e
pagava: domandasse adunque Lallemand, conchiudeva, a Venezia, che
risolutamente rispondesse se avesse pace o guerra con Francia: se
guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per
opinione e di non altro rei che di amare i Franzesi, fossero rimessi
in libertà; che tutti i presidii, salvo gli ordinarii quali erano sei
mesi prima, uscissero dalle piazze di terraferma; che tutti i paesani
si disarmassero e si riducessero alla condizione di un mese prima;
provvedesse il senato, che le cose fossero in terraferma tranquille e
sicure, e non pensasse solo alle lagune: gl'incenditori della casa del
console a Zante si punissero, e la casa si ristorasse a spese della
repubblica; il capitano, che aveva combattuto la Bruna, si punisse,
ed il costo della conserva nemica, protetta contro i patti della
neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di Bergamo e di
Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di nuovo le
cose allo stato quieto.
Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato
rappresentando. Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte:
«Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle
vostre lettere avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni
sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto
il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le
pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato ed ha sempre voluto
vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacergli
in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima
volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta e così solenne
dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno
correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale e del tutto inaspettata
rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle
popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento
di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati.
A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza e
presidii; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti
disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente non alla
volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato
che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente
manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero
ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi
su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni
i vostri desiderii, bene conoscerà l'equità vostra che al tempo
medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni
fedeli verso di noi e la comune nostra tranquillità siano guarentite
da insulti esterni e da perturbazioni interne. Vuole ed è pronto il
senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di
coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e
sarà per noi diligentemente ordinato che siano conosciuti, arrestati,
secondo i meriti loro, castigati. Per conseguire più acconciamente ed
a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo
due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra
e quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra
autorità verso il vostro governo per ricondurre all'ordine ed al
primiero stato le città d'oltre Mincio che si sono da noi allontanate.
Con questo vi confermiamo di nuovo e protestiamo la costanza e la
sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un
con la molta osservanza in cui abbiamo la vostra illustre e riputata
persona.»
Deputava il senato per alleggerire i sospetti e per intrattenere
Buonaparte dall'estremo fato della patria, Francesco Donato e Leonardo
Giustiniani. Intanto funeste novelle, consentanee all'aspetto delle
cose presenti ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna
e da Parigi. Simili cose scriveva il nobile Querini pur da Parigi,
ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue
pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio
ed ora dolci; ora accusava Venezia ed ora la scusava; e da tante
ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciatore veneto, se
non che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica. Ma
perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così
vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro
sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si
appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare
la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio
se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano
forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed aiuto
ai ribelli; che due Direttori erano in favore della repubblica, due
contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere
per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di
franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano
seicentomila franchi pel direttore titubante con altri centomila pei
beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità
di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi
dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo
da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la
morte della repubblica, si lasciava tirare al dir del sì per somma sua
divozione verso la patria e sottoscriveva biglietti per seicentomila
franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito
finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a
Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma e
ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini;
bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte e con la marca
del direttorio esecutivo e sottoscrizione del segretario di Barras, per
cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta
dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a
Venezia: mandavasi al console di Genova, s'intendesse con Pallavicini
perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione
l'ambasciadore di quello che avesse a succedere: ma, vedendo le cose
della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich
della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione.
Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il
cambiamento dello Stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: li
protestava; fu carcerato ed esaminato per ordine del direttorio per
querela di aver voluto corrompere il governo franzese. Questa fu
veramente un'arte cupa; perchè se vi fu corruzione, e certamente in
qualcuno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a
Querini.
Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte,
accompagnato da un'estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per
l'importanza sua e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle
storie, era vicino a sorgere nella principale città della veneta
terraferma. Abbiamo già raccontato come i repubblicani si erano
messi in punto di far rivoltare contro il senato lo Stato veneto.
Insidiarono principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna
cosa intentata, e la popolazione veronese contaminavano con promesse
agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con
abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato,
all'incontro, avendo avuto sentore anzi certezza delle trame di
Verona, vi aveva mandato, come già dicemmo, provveditori straordinari,
uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti schiavone. Vi
arrivavano oltre a ciò i villani dei contorni, ai quali erano state
messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano anche
le parti vigilanti, l'una per impedire gli effetti delle suggestioni
e delle sommosse d'oltre Mincio, l'altra per aiutarli. Gli animi
infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti,
si mostravano pronti non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma
ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un
segno che uscisse, potevano partorir una generale commozione. In tanta
concitazione reciproca le cagioni potevano nascere egualmente dall'una
e dall'altra parte.
Era debole il presidio franzese in Verona nè atto per sè a tanta mole:
ma si sperava nei maneggi segreti e nell'opera de' novatori, ed, oltre
a ciò, incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Victor. Si
accostava inoltre Lahoz coi Lombardi e Polacchi, accostavansi le masse
repubblicane di Brescia e di Bergamo ed il forte presidio di Mantova
poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano
Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica,
ma probo e religioso, vedendo il pericolo, tratteneva ogni Franzese
che da Francia venisse o in Francia ritornasse, per modo che riuscì
a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento
Cisalpini, valorosa gente capitanata in gran parte da Franzesi ed
assai disposta a secondarli. Già segni annunziatori di quanto doveva
succedere si spargevano per le campagne; erano in ogni luogo minaccie,
mischie ed uccisioni. Incessantemente si predicava, volere i Franzesi
fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze de' popoli, e
singolarmente del monte di pietà, dov'erano grandissime ricchezze.
Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minaccie tra Franzesi e
Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Franzesi e Veronesi,
ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Godeva il provveditore nel
vedere animi sì pronti e tante difese apprestate; raccomandava l'ordine
e la quiete, comandava non offendessero persona; solo stessero armati
e pronti. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto; il
generale Balland, surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona,
sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo
a provvedere che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano che il
farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi
degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le provincie.
Era il dì 17 aprile, secondo giorno di Pasqua, quando, alle ore quattro
meridiane, scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione veronese.
Incominciava da insulti e da minori fatti da' soldati veneziani e da'
Veronesi armati, contro le guardie franzesi sparse in varii luoghi
della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse
minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre
dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio
di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera,
qual segno di guerra, cannonate da' castelli. A quel rimbombo si
conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio,
contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il
rumore inaspettato delle artiglierie franzesi diè cagione di credere
ai Veronesi già tanto infiammati che fosse intenzione di Balland di
trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo
traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero
e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del
palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento lo aspetto della
città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i
Franzesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di
campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa.
Dei Franzesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime
al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu
senza pericolo, perchè rabbiosamente li seguitava il popolo che li
voleva ammazzare e bersagliandoli dalle finestre con palle, con sassi,
con ogni sorta d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il
furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi,
le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato
le ingiurie ed i patimenti. Molti de' Franzesi in tal modo fuggenti
restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi
non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza ne' più
segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano
loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi da' padroni la ospitalità,
vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furono gittati ne' pozzi,
altri trafitti da' pugnali, altri risospinti fuori delle porte,
perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida
orribili, fra il rimbombo delle artiglierie dei castelli, fra i tocchi
incessanti del suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori
dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti erano ammalati in
Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte
da un popolo che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le
ingiurie, le ruberie, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro
di lui contaminato il nome di Francia. Ma la pressa, le minaccie, la
crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanta
infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati
alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere,
nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un
ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei
quali null'altra cosa di uomo restava che il volto. Se per assenza
di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva
più fiero di prima ove fosse scoperto un Franzese; e di nuovo si dava
mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i
patriotti o veronesi o forastieri: che anzi maggiore contro di loro
si mostrava la rabbia del popolo che con più diligenza li cercava, e
quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati
ne' castelli, altri conficcati ne' nascondigli passarono fra la
speranza ed il timore parecchi giorni.
Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi
Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi
degli insorti, conservarono, nascondendoli, a molti Franzesi, la vita,
atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui
correvano pericolo della propria. Spargevasi intanto per le campagne il
grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici
accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio
furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida
e le stragi ricominciavano, nè cessarono le uccisioni se non quando
non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si
veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli Ebrei, oltre
l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già
i fondachi del pubblico pericolavano; e non fu poco che i provveditori
potessero impedire che coloro i quali sì ferocemente combattevano per
Venezia le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Correva il
sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli
Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo, volevano dar l'assalto a
quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia.
Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni,
avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli
animi veronesi nè il trarre continuo dei castelli il comportavano, ma
frenare la barbarie ed introdurre ordine e misura là dov'era solamente
confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero,
che per poco il popolo non l'aveva per sospetto e si proponeva,
posposta l'autorità di lui, di voler fare da sè. Importava intanto
l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte
che tuttavia si trovavano in possessione dei Franzesi. Il maggior
presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilii,