Annali d'Italia, vol. 8 - 45
generale di settant'anni, segno d'avversa fortuna, d'animo invitto.
Così Mantova, combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà
della repubblica.
Torniamo ai travagli ch'erano in Roma. L'esercito pontificio si
era, come abbiam narrato, accampato sulla destra dei Senio, pronto
a difendersi, non ad offendere. Avevano i soldati del pontefice, in
numero di sei in sette mila fanti e cinquecento cavalli, munito il
ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti e con quattordici pezzi
di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo che guarda
quasi per diritto la strada di Faenza. Avevano pur fatto un fosso
ed altre fortificazioni ancora. Il generale di Francia, come prima
giunse ad un quarto di miglio da Caslelbolognese, arrestava il passo
a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento
di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino
al ponte, ma oltre il tiro delle artigliere pontificie. Robillard
schierava, non fitti, ma larghi, duecento feritori alla leggiera lungo
il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor che costoro facessero
opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era
il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al
fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano:
ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al
cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi
nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento
sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi
nei ridotti; al che tanto più volontieri ne vennero, quanto più Victor,
accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi
feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri che varcasse ancor
essa. Ma i pontificii, siccome il fosso era stato scavato per diritto
e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie
traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori
nemici; il che li fece disordinare e sbigottire vieppiù. In questo la
cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in
fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere,
mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di
Polacchi. Non contrastarono più a lungo le truppe pontificali il passo,
e si ritirarono con grave disordine e precipitosamente a Faenza. Non
poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle
strade.
Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di
Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra
abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città
nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed
inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a sè
i preti ed i frati, li confortava a star di buona voglia, dimostrando
volere che da tutti la religion si rispettasse ed i suoi ministri si
beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Franzesi per tutto il
paese come folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia,
quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori.
Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi
fare qualche resistenza. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di
Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati
già fin dal principio dell'anno precedente dal direttorio, aveva
spacciatamente comandato che, posti sui carri gli arredi e le reliquie
più preziose, s'indrizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato
sulla Montagnola con cinquemila soldati e sette pezzi di buone
artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani ed ai Polacchi andassero
all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di
voler riuscire alle spalle dei pontificii. Fu debole la difesa, perchè
i soldati di Colli, spaventati dalla rotta precedente, si ritirarono in
gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona e la cittadella.
Se ne impadronirono i repubblicani. Il generale della Chiesa, come
prima potè raccorre i soldati disordinati, anduva a porre il campo tra
Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato di Urbino, eccettuata la
metropoli, la più gran parte dell'Umbria venivano sotto l'obbedienza
della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della Madonna, con
alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge,
Villetard e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si
mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati
che facessero sacco. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a
Foligno.
Andando tanto impetuosamente in precipizio lo Stato pontificio, un
alto terrore assaliva Roma. Già pareva ai Romani che quel primo seggio
della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco. L'erario, le
suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran
pressa verso Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi
incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone
al medesimo viaggio. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano ad ora ad
ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che
già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di averli uditi, e chi di
averli veduti. Raddoppiavansi il terrore, le grida, la confusione, la
fuga: pareva ad ognuno che già spenta fosse ogni salute, che già Roma,
l'antica madre, rovinasse.
In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Franzesi a volontà
loro correre per tutto lo Stato ecclesiastico, non era più luogo
ad altra deliberazione se non di piegarsi a quella dura necessità.
Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle
condizioni che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano
a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alla
consuetudine della Chiesa. Quanto agl'interessi temporali, preponendo
il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si
preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città; alla
concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della
repubblica veduto molto volontieri il cardinale Mattei: parve mediatore
opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Cresceva tuttavia il
pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati
al generale; il cardinale Mattei, monsignor Galeppi, il duca Luigi
Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la
pace, salva però la religione e la sedia apostolica. Incontravano per
viaggio il corriere portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale:
erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo;
questa fu la consolazione di Roma. Arrivarono i legati a Tolentino,
dove Buonaparte aveva le sue stanze. Accolti con dimostrazioni cortesi
dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una
faccenda che oggimai non aveva più in sè difficoltà di importanza,
perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva
più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio del temporale,
essendo già posto in balia del vincitore.
Si concludeva il giorno 19 febbraio a Tolentino il trattato di pace
fra il papa e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a
recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a
non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro,
nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi;
a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Franzesi; al
cedere alla Francia Avignone, il contado e le dipendenze; al cedere
ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che
non vi si facessero novità pregiudiziali alla religione cattolica;
al consentire che la città, la cittadella ed il territorio d'Ancona
sino alla pace si depositassero in mano della repubblica. Oltre a
questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Franzesi quindici
milioni di tornesi, dieci in contanti e cinque in diamanti; fra due
mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti.
Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro
altrettante, buoi, bufali ed altri animali dello Stato della Chiesa;
a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di
Bologna; a disapprovare la uccisione di Basseville, ed a pagare pel
ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecento mila tornesi; a
liberare i prigionieri per cause di Stato; a restituire ai Franzesi la
scuola delle arti in Roma; volle finalmente il vincitore, e consentiva
il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui e pei successori
nella cattedra di San Pietro per sempre.
Così finiva la romana guerra.
Il generale fortunato, domati i grandi, volle far mostra di onorare
e rispettare i piccoli. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di
Pesaro, a dì 7 febbraio, Monge a certificare la repubblica di San
Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica franzese.
Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei
padri, disse, enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma
e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere
venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la
libertà; ma pur finalmente il popolo franzese, del proprio servaggio
vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non
cale i proprii interessi, posti in non cale gl'interessi del genere
umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere
aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere,
avere debellato i suoi nemici: avere trionfato, venuti i suoi eserciti
in Italia, avervi vinto quattro eserciti austriaci, recatovi la
libertà, acquistatosi gloria immortale quasi fin sotto gli occhi della
sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal
sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare
intanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli;
ma vivessero sicuri che Francia era amica a San Marino. A questo passo
veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo
territorii di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare e
troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed
ammisurati; nè si sa perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli,
la facesse. Il torre e l'accettare erano ugualmente brutti e pericolosi
per una repubblica che era vissa sì lunga età innocente e pura da quel
d'altrui. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe
quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione
San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi
cittadini.
Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volontieri, accetterebbe
anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorii contento agli antichi,
non volerne nuovi; solo pregare qualche maggior larghezza di commercio,
e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu che i cannoni
non furono dati e che non si parlò più di San Marino. Continuò nella
solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini
senza vantarli, il che è meglio che il vantarli, senza rispettarli;
continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti e la
licenza dei popoli e dei soldati.
Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo Stato
ecclesiastico: poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese,
perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava.
Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di
Buonaparte, sicuro ormai di poter fare, o buon grado o mal grado del
suo governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era
dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i
pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo Stato in Lombardia,
acciocchè egli fosse della sua potenza e del suo nome testimonio
perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo
Stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva
della pace coll'imperadore. Si proponeva oltre a ciò Buonaparte,
solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, tostochè si
diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare con tutto l'esercito
le Alpi Giulie e di far sentire le sue armi nel cuore della Germania,
a fine di obbligare l'imperadore alla pace, pensiero che già aveva
concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie in Italia, e che solo
era stato interrotto dalla meravigliosa costanza dell'Austria nel
sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi. Confortavano massimamente
questa sua deliberazione la singolarità e la grandezza dell'impresa,
l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello dell'imperadore,
che aveva di recente combattuto vittoriosamente le armi repubblicane
sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato preposto, come ultima
speranza, all'esercito italiano. In questo poi era suo intento di
affrettarsi, sì perchè, credendo di poter fare da sè, non voleva che
Moreau, calandosi per le rive del Danubio, lo aiutasse, e sì perchè
aveva a cuore di assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova
leva, che già marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti.
A condurre a fine queste fazioni abbisognava principalmente di non
lasciarsi nissun sospetto alle spalle, e questo fine conseguiva col far
rivoluzione nei paesi veneti.
Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna.
Reggeva cinquanta mila soldati fioritissimi e veterani tutti
dell'esercito italico, ed a questi si erano congiunti venti mila venuti
dal Reno, sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo
distribuiti nelle stanze, che l'ala sinistra, governata da Joubert e
grossa di più di venti mila soldati molto agguerriti, guardava i passi
del Tirolo; la mezza schiera condotta da Massena alloggiava a Bassano;
l'ala destra, alla quale presiedeva Buonaparte stesso e che aveva un
novero di trenta mila soldati, alloggiava nel Trevigiano sino alle rive
della Piave. Così con le tre schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi
che dall'Italia danno l'adito all'Alemagna.
Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove prove:
badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie,
settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato
cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro
ponti; si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno,
mandato trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi
acquistato quanto di più bello avea penato trenta secoli l'antica
e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade dell'Europa
essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà
la Lombardia e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta
l'Adriatico le franzesi insegne; là oltre e poco distante mostrarsi
la Macedonia antica; i re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di
Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica;
gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimoni
del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare
a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro
coraggio; solo tra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperadore;
gissero dunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli
Stati ereditarii d'Austria; vedrebbero popoli valorosi; la religione
onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero.....
Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi,
vincitori, e che, non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto,
il giusto e l'onesto, non altro suono conoscevano che quello delle
armi.
Dalla parte dell'Austria, che mal volontieri si disponeva a lasciare
del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con
maggior moderazione, ma non con minore coraggio, se si guardano
le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le
reliquie de' soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia,
della Carniola e del Friuli circa trenta mila delle genti del Reno,
nuove leve si ordinavano negli Stati ereditarii, la nazione ungara
volonterosamente accorreva in aiuto del sovrano pericolante. Una massa
di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre
ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt come antemurale
alla capitale dello impero. Confortava l'oste il pensiero dell'avere
a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe
amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia e
di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna.
Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre e nella Marca
Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino
alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca
il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel
Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta.
Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio che corre dalla
frontiera de' Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige
sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo.
Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i
monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva
questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento
con que' soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di
Hohenzollern con sette mila soldati custodiva il paese da Feltre
scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare.
Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale
del Friuli, perchè sapeva che il più forte sforzo dell'inimico si
doveva indirizzare verso Gorizia.
Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di
Francia: il 10 marzo si muoveva con la sua destra e con la mezzana
schiera. Era suo primario intendimento di entrar framezzo agli Alemanni
per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò
aveva ordinato, che il principale sforzo di questa prima mossa fosse
fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a
Massena: nè mancava Massena del debito suo; perchè non così tosto
si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cordevole ed
i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno, a
fine di propulsare il nemico, se tentasse d'inoltrarsi nella valle di
Cadore. Seguitavali tostamente il Franzese, e, quantunque Lusignano con
grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero,
fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in
globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette,
a por giù l'armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà dei
vincitore. Per tal modo meglio di seicento soldati, Lusignano con
loro, vennero in poter de' Franzesi; ma fu maggiore il numero degli
Austriaci uccisi in quell'ostinato conflitto. Al tempo medesimo
Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a Vidor e ad Ospidaletto, ed
occupato Conegliano e Sacile, si avvicinavano al Tagliamento. Aveva
l'arciduca munito la sponda sinistra di questo, piuttosto impetuoso
torrente che giusto fiume, di trincee con averle afforzate con
artiglierie. Stanziava anche numerose torme di cavalleggieri pronte a
ributtare l'inimico ove passasse, ma queste erano meglio dimostrazioni
per ritardare che per arrestare l'inimico, perchè le acque del
Tagliamento, non ancora sciolta le nevi sui monti, si potevano guadare
in molti luoghi. Per la qual cosa i Franzesi, schivando i passi
muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi qualche incontro
di cavalleria assai brava, ma i fanti tedeschi fecero poca resistenza
quando la cavalleria dei repubblicani, varcato il fiume, gli ebbe
assaltati. Al contrario i primi fanti franzesi che avevano passato,
percossi vigorosamente dalla cavalleria tedesca, avevano contrastato
con molta forza.
Passato il Tagliamento ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per
la vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della
Piave a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti
alla Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso
il Lisonzo le armi austriache che, debolmente combattendo, facilmente
gli cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e
già Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra
s'impadroniva di Trieste abbandonato dai suoi difensori, e fatta
una subita correria sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere
d'argento vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la
fama. Verso sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva
Cividale e s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con
Massena nel carico che questi aveva d'impossessarsi dell'importante
passo della Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiachè se
Massena guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio,
che gli succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco
destro dell'arciduca, di separarlo da Kerpen e da Laudon, d'impedire
i rinforzi che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere
a Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo
austriaco vi arrivasse.
Ma prima che si raccontino le importanti fazioni che ne seguirono,
necessaria cosa è il descrivere come le cose passassero tra Joubert
da un canto e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro, nel Tirolo. Come
prima ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si
metteva all'ordine per eseguir le imprese che alla fede ed al valor suo
aveva Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì 20 di marzo,
nonostante che i cacciatori tirolesi posti ai passi con ispessi tiri
ogni opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen che aveva un forte
campo sulle alture di Cembra, cercando di accerchiarlo a sinistra
per Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano e a destra
marciarono Delmas e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la
difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra
della sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele,
donde gagliardamente anche combattuto dai Franzesi, viemmaggiormente
indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Entravano
successivamente, benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i
Franzesi in Salorno, in Peza ed in Newmarket. La ritirata tanto presta
di Kerpen poneva in grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra
dell'Adige, perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra.
Nè i Franzesi trasandavano la occasione; anzi varcato il fiume ai ponti
di Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen e
lo rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni e
parecchie artiglierie prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile
a Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio che di
cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi
stette aspettando che la fortuna gli offerisse nuova occasione di
risorgere.
Seguitavano i Franzesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato
Kerpen, che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevan
sloggiato e percosso di modo che, abbandonato anche Brissio, pensava a
ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile e
posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove
si spartono le acque dell'Adige e dell'Inn, ultima difesa d'Alemagna
contro chi viene dalle terre d'Italia. I Franzesi lo assaltavano
audacemente in quel fortissimo alloggiamento, fu dura e sanguinosa la
battaglia; furono costretti a tornarsene indietro. Joubert adunque si
fermava a Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose
del Tirolo o marciare per Bruneck e Toblach a Linz, e di là fino a
Villaco per trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna che
quello che era elezione per lui, diventasse necessità.
Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, li chiamava Kerpen: secondava
con ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio
di grande autorità e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi
abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano
all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro; nè il
sesso nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi e donne
e fanciulli, dato di mano alle armi che il caso od il furore parava
loro davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate
sedi loro. Nè la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed
impetuosi torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gli
impedivano. Passava tant'oltre questo improvviso tumulto, che sul
principiar di aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi
e di grida guerriere, meglio di ventimila combattenti erano in pronto
contro quella gente venuta da lontani paesi per conquistarli. Intanto
i generali tedeschi, che sapevano che le moltitudini disordinate
sono piuttosto preda che danno ad un nemico bene ordinato, avevano
distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultante, e
mescolatovi per dar polso e regola alcuni drappelli di regolari.
Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi
popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla
leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi
alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le
bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa, avanti, a'
fianchi e addietro, sospetta e pericolosa.
Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati
anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano,
si consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani.
Con questo pensiero Laudon calava minacciosamente da quei luoghi alti
e dirupati ed andava a battere a mezza strada fra Brissio e Bolzano,
col fine di tagliar il ritorno ai Franzesi, alle parti dissottane
dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le
vanguardie franzesi, le faceva piegare e s'impadroniva di Bolzano.
Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive
dell'Adige per congiungersi con Kerpen e per istringere vieppiù
Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava
la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Franzesi più in su quanto
più avvicinava Laudon; già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne
stava neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le
sue genti miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i
repubblicani fin sotto le mura di Brissio. Per questo molto a Joubert
accerchiato da tre parti non rimaneva più altro scampo che a levante
per la valle del Puster, poscia per quella della Drava fino a Villaco.
Partitosi da Brissio il dì 5 aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen
che lo voleva seguitare, con aver rotto il ponte sull'Eisac, arrivava
il giorno 8 a salvamento a Linz, dove trovava alcuni squadroni di
cavalleria che il generalissimo, geloso di quel passo mandava ad
incontrarlo. Poscia, marciando sollecitamente in giù per la riva della
Drava, e rotte alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano
serrargli il passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione
dei due eserciti. Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando
all'ingiù dell'Adige i Franzesi, entrava vittorioso in Trento e
Roveredo, s'allargava anche sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva.
Questa mossa, che già faceva sentir il romore delle armi tedesche
nella pianura trapposta tra l'Adige ed il Mincio, partoriva effetti
importanti.
La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di
Massena ad un evento terminativo per quanto spetta alla difesa degli
Stati ereditari d'Austria. Già per la molta importanza del passo
della Ponteba, aveva comandato l'arciduca a Ocskay che lo custodiva,
ostinatamente il difendesse. Confidando nel valore de' suoi, veniva
in pensiero di sopraccorrere con forze superiori contro Massena e
di conculcarlo prima che Buonaparte avesse tempo di soccorrerlo. Il
quale intento se avesse avuto il suo effetto, l'arciduca avrebbe
fatto a Buonaparte quello che Buonaparte voleva fare a lui, cioè
Così Mantova, combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà
della repubblica.
Torniamo ai travagli ch'erano in Roma. L'esercito pontificio si
era, come abbiam narrato, accampato sulla destra dei Senio, pronto
a difendersi, non ad offendere. Avevano i soldati del pontefice, in
numero di sei in sette mila fanti e cinquecento cavalli, munito il
ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti e con quattordici pezzi
di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo che guarda
quasi per diritto la strada di Faenza. Avevano pur fatto un fosso
ed altre fortificazioni ancora. Il generale di Francia, come prima
giunse ad un quarto di miglio da Caslelbolognese, arrestava il passo
a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento
di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino
al ponte, ma oltre il tiro delle artigliere pontificie. Robillard
schierava, non fitti, ma larghi, duecento feritori alla leggiera lungo
il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor che costoro facessero
opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era
il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al
fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano:
ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al
cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi
nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento
sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi
nei ridotti; al che tanto più volontieri ne vennero, quanto più Victor,
accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi
feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri che varcasse ancor
essa. Ma i pontificii, siccome il fosso era stato scavato per diritto
e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie
traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori
nemici; il che li fece disordinare e sbigottire vieppiù. In questo la
cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in
fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere,
mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di
Polacchi. Non contrastarono più a lungo le truppe pontificali il passo,
e si ritirarono con grave disordine e precipitosamente a Faenza. Non
poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle
strade.
Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di
Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra
abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città
nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed
inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a sè
i preti ed i frati, li confortava a star di buona voglia, dimostrando
volere che da tutti la religion si rispettasse ed i suoi ministri si
beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Franzesi per tutto il
paese come folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia,
quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori.
Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi
fare qualche resistenza. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di
Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati
già fin dal principio dell'anno precedente dal direttorio, aveva
spacciatamente comandato che, posti sui carri gli arredi e le reliquie
più preziose, s'indrizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato
sulla Montagnola con cinquemila soldati e sette pezzi di buone
artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani ed ai Polacchi andassero
all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di
voler riuscire alle spalle dei pontificii. Fu debole la difesa, perchè
i soldati di Colli, spaventati dalla rotta precedente, si ritirarono in
gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona e la cittadella.
Se ne impadronirono i repubblicani. Il generale della Chiesa, come
prima potè raccorre i soldati disordinati, anduva a porre il campo tra
Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato di Urbino, eccettuata la
metropoli, la più gran parte dell'Umbria venivano sotto l'obbedienza
della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della Madonna, con
alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge,
Villetard e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si
mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati
che facessero sacco. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a
Foligno.
Andando tanto impetuosamente in precipizio lo Stato pontificio, un
alto terrore assaliva Roma. Già pareva ai Romani che quel primo seggio
della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco. L'erario, le
suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran
pressa verso Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi
incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone
al medesimo viaggio. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano ad ora ad
ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che
già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di averli uditi, e chi di
averli veduti. Raddoppiavansi il terrore, le grida, la confusione, la
fuga: pareva ad ognuno che già spenta fosse ogni salute, che già Roma,
l'antica madre, rovinasse.
In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Franzesi a volontà
loro correre per tutto lo Stato ecclesiastico, non era più luogo
ad altra deliberazione se non di piegarsi a quella dura necessità.
Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle
condizioni che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano
a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alla
consuetudine della Chiesa. Quanto agl'interessi temporali, preponendo
il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si
preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città; alla
concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della
repubblica veduto molto volontieri il cardinale Mattei: parve mediatore
opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Cresceva tuttavia il
pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati
al generale; il cardinale Mattei, monsignor Galeppi, il duca Luigi
Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la
pace, salva però la religione e la sedia apostolica. Incontravano per
viaggio il corriere portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale:
erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo;
questa fu la consolazione di Roma. Arrivarono i legati a Tolentino,
dove Buonaparte aveva le sue stanze. Accolti con dimostrazioni cortesi
dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una
faccenda che oggimai non aveva più in sè difficoltà di importanza,
perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva
più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio del temporale,
essendo già posto in balia del vincitore.
Si concludeva il giorno 19 febbraio a Tolentino il trattato di pace
fra il papa e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a
recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a
non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro,
nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi;
a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Franzesi; al
cedere alla Francia Avignone, il contado e le dipendenze; al cedere
ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che
non vi si facessero novità pregiudiziali alla religione cattolica;
al consentire che la città, la cittadella ed il territorio d'Ancona
sino alla pace si depositassero in mano della repubblica. Oltre a
questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Franzesi quindici
milioni di tornesi, dieci in contanti e cinque in diamanti; fra due
mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti.
Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro
altrettante, buoi, bufali ed altri animali dello Stato della Chiesa;
a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di
Bologna; a disapprovare la uccisione di Basseville, ed a pagare pel
ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecento mila tornesi; a
liberare i prigionieri per cause di Stato; a restituire ai Franzesi la
scuola delle arti in Roma; volle finalmente il vincitore, e consentiva
il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui e pei successori
nella cattedra di San Pietro per sempre.
Così finiva la romana guerra.
Il generale fortunato, domati i grandi, volle far mostra di onorare
e rispettare i piccoli. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di
Pesaro, a dì 7 febbraio, Monge a certificare la repubblica di San
Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica franzese.
Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei
padri, disse, enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma
e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere
venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la
libertà; ma pur finalmente il popolo franzese, del proprio servaggio
vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non
cale i proprii interessi, posti in non cale gl'interessi del genere
umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere
aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere,
avere debellato i suoi nemici: avere trionfato, venuti i suoi eserciti
in Italia, avervi vinto quattro eserciti austriaci, recatovi la
libertà, acquistatosi gloria immortale quasi fin sotto gli occhi della
sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal
sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare
intanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli;
ma vivessero sicuri che Francia era amica a San Marino. A questo passo
veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo
territorii di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare e
troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed
ammisurati; nè si sa perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli,
la facesse. Il torre e l'accettare erano ugualmente brutti e pericolosi
per una repubblica che era vissa sì lunga età innocente e pura da quel
d'altrui. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe
quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione
San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi
cittadini.
Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volontieri, accetterebbe
anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorii contento agli antichi,
non volerne nuovi; solo pregare qualche maggior larghezza di commercio,
e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu che i cannoni
non furono dati e che non si parlò più di San Marino. Continuò nella
solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini
senza vantarli, il che è meglio che il vantarli, senza rispettarli;
continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti e la
licenza dei popoli e dei soldati.
Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo Stato
ecclesiastico: poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese,
perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava.
Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di
Buonaparte, sicuro ormai di poter fare, o buon grado o mal grado del
suo governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era
dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i
pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo Stato in Lombardia,
acciocchè egli fosse della sua potenza e del suo nome testimonio
perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo
Stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva
della pace coll'imperadore. Si proponeva oltre a ciò Buonaparte,
solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, tostochè si
diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare con tutto l'esercito
le Alpi Giulie e di far sentire le sue armi nel cuore della Germania,
a fine di obbligare l'imperadore alla pace, pensiero che già aveva
concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie in Italia, e che solo
era stato interrotto dalla meravigliosa costanza dell'Austria nel
sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi. Confortavano massimamente
questa sua deliberazione la singolarità e la grandezza dell'impresa,
l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello dell'imperadore,
che aveva di recente combattuto vittoriosamente le armi repubblicane
sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato preposto, come ultima
speranza, all'esercito italiano. In questo poi era suo intento di
affrettarsi, sì perchè, credendo di poter fare da sè, non voleva che
Moreau, calandosi per le rive del Danubio, lo aiutasse, e sì perchè
aveva a cuore di assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova
leva, che già marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti.
A condurre a fine queste fazioni abbisognava principalmente di non
lasciarsi nissun sospetto alle spalle, e questo fine conseguiva col far
rivoluzione nei paesi veneti.
Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna.
Reggeva cinquanta mila soldati fioritissimi e veterani tutti
dell'esercito italico, ed a questi si erano congiunti venti mila venuti
dal Reno, sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo
distribuiti nelle stanze, che l'ala sinistra, governata da Joubert e
grossa di più di venti mila soldati molto agguerriti, guardava i passi
del Tirolo; la mezza schiera condotta da Massena alloggiava a Bassano;
l'ala destra, alla quale presiedeva Buonaparte stesso e che aveva un
novero di trenta mila soldati, alloggiava nel Trevigiano sino alle rive
della Piave. Così con le tre schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi
che dall'Italia danno l'adito all'Alemagna.
Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove prove:
badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie,
settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato
cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro
ponti; si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno,
mandato trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi
acquistato quanto di più bello avea penato trenta secoli l'antica
e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade dell'Europa
essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà
la Lombardia e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta
l'Adriatico le franzesi insegne; là oltre e poco distante mostrarsi
la Macedonia antica; i re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di
Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica;
gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimoni
del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare
a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro
coraggio; solo tra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperadore;
gissero dunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli
Stati ereditarii d'Austria; vedrebbero popoli valorosi; la religione
onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero.....
Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi,
vincitori, e che, non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto,
il giusto e l'onesto, non altro suono conoscevano che quello delle
armi.
Dalla parte dell'Austria, che mal volontieri si disponeva a lasciare
del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con
maggior moderazione, ma non con minore coraggio, se si guardano
le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le
reliquie de' soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia,
della Carniola e del Friuli circa trenta mila delle genti del Reno,
nuove leve si ordinavano negli Stati ereditarii, la nazione ungara
volonterosamente accorreva in aiuto del sovrano pericolante. Una massa
di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre
ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt come antemurale
alla capitale dello impero. Confortava l'oste il pensiero dell'avere
a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe
amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia e
di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna.
Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre e nella Marca
Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino
alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca
il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel
Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta.
Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio che corre dalla
frontiera de' Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige
sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo.
Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i
monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva
questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento
con que' soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di
Hohenzollern con sette mila soldati custodiva il paese da Feltre
scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare.
Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale
del Friuli, perchè sapeva che il più forte sforzo dell'inimico si
doveva indirizzare verso Gorizia.
Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di
Francia: il 10 marzo si muoveva con la sua destra e con la mezzana
schiera. Era suo primario intendimento di entrar framezzo agli Alemanni
per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò
aveva ordinato, che il principale sforzo di questa prima mossa fosse
fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a
Massena: nè mancava Massena del debito suo; perchè non così tosto
si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cordevole ed
i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno, a
fine di propulsare il nemico, se tentasse d'inoltrarsi nella valle di
Cadore. Seguitavali tostamente il Franzese, e, quantunque Lusignano con
grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero,
fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in
globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette,
a por giù l'armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà dei
vincitore. Per tal modo meglio di seicento soldati, Lusignano con
loro, vennero in poter de' Franzesi; ma fu maggiore il numero degli
Austriaci uccisi in quell'ostinato conflitto. Al tempo medesimo
Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a Vidor e ad Ospidaletto, ed
occupato Conegliano e Sacile, si avvicinavano al Tagliamento. Aveva
l'arciduca munito la sponda sinistra di questo, piuttosto impetuoso
torrente che giusto fiume, di trincee con averle afforzate con
artiglierie. Stanziava anche numerose torme di cavalleggieri pronte a
ributtare l'inimico ove passasse, ma queste erano meglio dimostrazioni
per ritardare che per arrestare l'inimico, perchè le acque del
Tagliamento, non ancora sciolta le nevi sui monti, si potevano guadare
in molti luoghi. Per la qual cosa i Franzesi, schivando i passi
muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi qualche incontro
di cavalleria assai brava, ma i fanti tedeschi fecero poca resistenza
quando la cavalleria dei repubblicani, varcato il fiume, gli ebbe
assaltati. Al contrario i primi fanti franzesi che avevano passato,
percossi vigorosamente dalla cavalleria tedesca, avevano contrastato
con molta forza.
Passato il Tagliamento ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per
la vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della
Piave a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti
alla Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso
il Lisonzo le armi austriache che, debolmente combattendo, facilmente
gli cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e
già Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra
s'impadroniva di Trieste abbandonato dai suoi difensori, e fatta
una subita correria sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere
d'argento vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la
fama. Verso sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva
Cividale e s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con
Massena nel carico che questi aveva d'impossessarsi dell'importante
passo della Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiachè se
Massena guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio,
che gli succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco
destro dell'arciduca, di separarlo da Kerpen e da Laudon, d'impedire
i rinforzi che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere
a Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo
austriaco vi arrivasse.
Ma prima che si raccontino le importanti fazioni che ne seguirono,
necessaria cosa è il descrivere come le cose passassero tra Joubert
da un canto e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro, nel Tirolo. Come
prima ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si
metteva all'ordine per eseguir le imprese che alla fede ed al valor suo
aveva Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì 20 di marzo,
nonostante che i cacciatori tirolesi posti ai passi con ispessi tiri
ogni opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen che aveva un forte
campo sulle alture di Cembra, cercando di accerchiarlo a sinistra
per Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano e a destra
marciarono Delmas e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la
difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra
della sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele,
donde gagliardamente anche combattuto dai Franzesi, viemmaggiormente
indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Entravano
successivamente, benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i
Franzesi in Salorno, in Peza ed in Newmarket. La ritirata tanto presta
di Kerpen poneva in grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra
dell'Adige, perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra.
Nè i Franzesi trasandavano la occasione; anzi varcato il fiume ai ponti
di Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen e
lo rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni e
parecchie artiglierie prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile
a Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio che di
cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi
stette aspettando che la fortuna gli offerisse nuova occasione di
risorgere.
Seguitavano i Franzesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato
Kerpen, che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevan
sloggiato e percosso di modo che, abbandonato anche Brissio, pensava a
ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile e
posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove
si spartono le acque dell'Adige e dell'Inn, ultima difesa d'Alemagna
contro chi viene dalle terre d'Italia. I Franzesi lo assaltavano
audacemente in quel fortissimo alloggiamento, fu dura e sanguinosa la
battaglia; furono costretti a tornarsene indietro. Joubert adunque si
fermava a Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose
del Tirolo o marciare per Bruneck e Toblach a Linz, e di là fino a
Villaco per trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna che
quello che era elezione per lui, diventasse necessità.
Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, li chiamava Kerpen: secondava
con ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio
di grande autorità e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi
abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano
all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro; nè il
sesso nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi e donne
e fanciulli, dato di mano alle armi che il caso od il furore parava
loro davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate
sedi loro. Nè la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed
impetuosi torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gli
impedivano. Passava tant'oltre questo improvviso tumulto, che sul
principiar di aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi
e di grida guerriere, meglio di ventimila combattenti erano in pronto
contro quella gente venuta da lontani paesi per conquistarli. Intanto
i generali tedeschi, che sapevano che le moltitudini disordinate
sono piuttosto preda che danno ad un nemico bene ordinato, avevano
distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultante, e
mescolatovi per dar polso e regola alcuni drappelli di regolari.
Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi
popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla
leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi
alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le
bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa, avanti, a'
fianchi e addietro, sospetta e pericolosa.
Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati
anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano,
si consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani.
Con questo pensiero Laudon calava minacciosamente da quei luoghi alti
e dirupati ed andava a battere a mezza strada fra Brissio e Bolzano,
col fine di tagliar il ritorno ai Franzesi, alle parti dissottane
dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le
vanguardie franzesi, le faceva piegare e s'impadroniva di Bolzano.
Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive
dell'Adige per congiungersi con Kerpen e per istringere vieppiù
Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava
la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Franzesi più in su quanto
più avvicinava Laudon; già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne
stava neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le
sue genti miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i
repubblicani fin sotto le mura di Brissio. Per questo molto a Joubert
accerchiato da tre parti non rimaneva più altro scampo che a levante
per la valle del Puster, poscia per quella della Drava fino a Villaco.
Partitosi da Brissio il dì 5 aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen
che lo voleva seguitare, con aver rotto il ponte sull'Eisac, arrivava
il giorno 8 a salvamento a Linz, dove trovava alcuni squadroni di
cavalleria che il generalissimo, geloso di quel passo mandava ad
incontrarlo. Poscia, marciando sollecitamente in giù per la riva della
Drava, e rotte alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano
serrargli il passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione
dei due eserciti. Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando
all'ingiù dell'Adige i Franzesi, entrava vittorioso in Trento e
Roveredo, s'allargava anche sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva.
Questa mossa, che già faceva sentir il romore delle armi tedesche
nella pianura trapposta tra l'Adige ed il Mincio, partoriva effetti
importanti.
La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di
Massena ad un evento terminativo per quanto spetta alla difesa degli
Stati ereditari d'Austria. Già per la molta importanza del passo
della Ponteba, aveva comandato l'arciduca a Ocskay che lo custodiva,
ostinatamente il difendesse. Confidando nel valore de' suoi, veniva
in pensiero di sopraccorrere con forze superiori contro Massena e
di conculcarlo prima che Buonaparte avesse tempo di soccorrerlo. Il
quale intento se avesse avuto il suo effetto, l'arciduca avrebbe
fatto a Buonaparte quello che Buonaparte voleva fare a lui, cioè
- Parts
- Annali d'Italia, vol. 8 - 01
- Annali d'Italia, vol. 8 - 02
- Annali d'Italia, vol. 8 - 03
- Annali d'Italia, vol. 8 - 04
- Annali d'Italia, vol. 8 - 05
- Annali d'Italia, vol. 8 - 06
- Annali d'Italia, vol. 8 - 07
- Annali d'Italia, vol. 8 - 08
- Annali d'Italia, vol. 8 - 09
- Annali d'Italia, vol. 8 - 10
- Annali d'Italia, vol. 8 - 11
- Annali d'Italia, vol. 8 - 12
- Annali d'Italia, vol. 8 - 13
- Annali d'Italia, vol. 8 - 14
- Annali d'Italia, vol. 8 - 15
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 17
- Annali d'Italia, vol. 8 - 18
- Annali d'Italia, vol. 8 - 19
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 22
- Annali d'Italia, vol. 8 - 23
- Annali d'Italia, vol. 8 - 24
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 27
- Annali d'Italia, vol. 8 - 28
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