Annali d'Italia, vol. 8 - 42

se non sarebbe stato utile e sicuro alla repubblica il collegarsi con
l'Austria. Ma a tutte le considerazioni prevalsero i consigli quieti,
perchè il senato non voleva pendere più da questa parte che da quella
e non voleva soverchiamente irritare contro di sè i repubblicani già
padroni di buona porzione de' suoi territorii. Nondimeno, poichè non
era da credere che l'Austria si tirasse indietro, potendo in mezzo
alla fortuna avversa l'accessione di Venezia aver recato peso nella
somma delle facende militari, se i Veneziani avessero congiunto le loro
armi con quelle dell'imperatore, massimamente quando erano queste cose
ancora minacciose e forti, avrebbero i Franzesi potuto ricevere grave
danno.
Ma patti pieni di molta sicurtà venne offerendo a questo tempo
medesimo a Venezia una potenza forte per proteggerla, lontana per
non darle ombra; la Prussia. Il barone di Sandoz-Rollin, ministro
plenipotenziario di Prussia a Parigi, in un abboccamento avuto col
nobile Querini, si fece avanti dicendo che con dolore infinito vedeva
la condizione del senato e delle venete provincie divenute campo e
bersaglio di una crudele guerra; lodò il consiglio del senato dello
aver saputo conservare in mezzo a tanto turbine e con tanto costo la
sincera neutralità; che migliore contegno non poteva nè immaginare
nè tenere il senato: soggiunse poi però che non doveva il senato
aspettare i tempi sprovveduto d'amici e collegato con nissuno, nè
abbandonare gl'interessi dello Stato ad un avvenire certamente molto
incerto e probabilmente tempestoso; che il governo che facevano i
Franzesi delle terre veneziane, con aver violato le leggi le più
sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli altri di
turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che perciò gli
pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a premunirsi
di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni contro
qualunque tentativo. Detto tutto questo, passava Sandoz-Rollin a
dire che ei credeva che la sola potenza con la quale la repubblica
avrebbe utilmente e sicuramente potuto stringersi in alleanza, fosse
la Prussia, perchè gl'interessi politici del re tanto erano lontani da
quei di Venezia, che il senato non poteva a modo nissuno sospettare
ch'ei volesse una tale alleanza procurarsi per qualche sua mira
particolare; che anzi era la Prussia la sola potenza che potesse
conservare l'incolumità e l'integrità dei dominii veneti; che a lui
pareva, tale essere l'opportunità e la necessità di questa alleanza,
che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa d'Austria non
poteva recarsi a male che la repubblica cercasse di guarentirsi dai
sinistri effetti delle correnti cose. Insistè finalmente il prussiano
ministro affermando, che doveva il senato con la sapienza e prudenza
sua internar la vista in un avvenire che non si poteva ben prevedere
qual fosse per essere, poichè fatalmente la presente guerra poteva aver
dato motivo a più d'uno di chiamarsi scontento dei Veneziani e di recar
loro col tempo qualche grave molestia.
Questo parlare e questa proferta tanto secondo il bisogno potevano
essere la salvazione di Venezia, ed ogni motivo di Stato concorreva a
far deliberare che si accettasse. Ben si era fino allora consigliato
il senato, seguitando il suo antico costume, di non congiungersi nè
con questa nè con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa
risoluzione quella di non aver voluto accettare la lega tanto
necessaria e tanto opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come
trovasi scritto, questo rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì
piuttosto degl'inquisitori di Stato, checchè a ciò fare li movesse,
e dei savii, che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono,
avendo da loro medesimi deliberato di scrivergli che non entrasse in
questo trattato.
Intanto si laceravano dai belligeranti i sudditi veneziani con ogni
maniera di più immoderata barbarie. Pretendendo parole soavi di
amicizia, rapivano nei miserandi territorii veneti, non solo per
necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con
violenze, non solo con comando ma anche con ischerno, le vite, l'onore
e le sostanze di coloro che amici chiamavano. Quello poi che era
involato per forza era profuso per iscialacquo; il paese desolato,
i soldati sì vincitori che vinti si consumavano per mancamento di
ogni genere necessario; chi per ufficio o per grado aveva debito di
provvedere ai soldati e di ritirarli dalia barbarie, si arricchiva;
il perchè si vedevano capi ricchi, soldati squallidi. Le case
s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte
preziose si sperdevano da questi sfrenati. Pubblicavansi dai generali
ordini e regole per frenare tanta rabbia; ma vano era il proposito,
perchè quando si veniva alla esecuzione, si andava molto rimessamente,
essendo i capi intinti. A questo tempo medesimo gli eserciti di
Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai diversi erano
dal buonapartiano per moderazione e per rispetto ai vinti. In fatti
venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che temperatamente
portandosi, e con maggior disciplina delle altre procedendo, era
cagione che a gara le città italiche in presidio la chiamassero. Per
questo le compagne la chiamavano la schiera aristocratica, e vi furono
delle male parole e dei peggiori fatti in questo proposito. Di tante
enormità si lamentava il veneziano senato con tutti e da per tutto; le
giustissime querele non facevano frutto.
Nè meglio erano rispettate da coloro che accusavano Venezia di
non esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private. Verona
massimamente era segno della repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio
suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le
chiavi della porta di San Giorgio all'ufficiale veneto, portava via
dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva,
prendeva l'armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armeria e nelle
riposte veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna
quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava finalmente
i forti, vi ordinava mutazioni e lavori e vi piantava le insegne
franzesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie veneziane,
tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava
forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio, a grado suo il
fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e
per sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per
quelle valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei
mila soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a
Brescia, a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca
di Milano depositata in casa del marchese Terzi sul territorio
bergamasco; e finalmente levava le lettere dalle poste veneziane,
aprendole per vedere che cosa portassero.
Considerando l'aspro governo fatto degli Stati veneziani, non si sa con
qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di
Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Franzesi.
Trattati a questo modo gli Stati della repubblica di Venezia,
apparivano interamente mutati da quello che erano prima che quella
feroce illuvie li sobbissasse. Intanto gli atroci fatti inasprivano
gli animi e gli riempivano di sdegno parte contro il senato, come se
senza difesa desse in preda i popoli a nemici crudeli, porle contro
i commettitori di tanti scandali. Da tutto questo ne nacque, che le
popolazioni della terra ferma, tocche da quel turbine insopportabile,
domandavano al senato ordini, armi e munizioni per difendersi con la
forza da coloro, presso ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento,
al danneggiare. Il senato piuttosto rispettivo che prudente cercava di
mitigar gli animi, e quanto all'armi, andava temporeggiando, sperava
che qualche caso di fortuna libererebbe i dominii da ospiti tanto
importuni, e perchè temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse
più padrone di regolare e frenare i moti incominciati, con grave
pregiudizio e pericolo della repubblica.
Peraltro non così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte
da Buonaparte il di 31 maggio in Peschiera al provveditor generale
Foscarini, si accorse che non vi era più tempo da perdere per
apprestar le difese, non già per la terra ferma quasi tutta disarmata
ed occupata dai repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della
repubblica, con assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì
terrestri che marittime. Si è narrato, come il generale repubblicano
avesse affermato, con modi peggio che amichevoli, che aveva ordine
dal direttorio di ardere Verona e d'intimare la guerra ai Veneziani.
A tale gravissimo annunzio, pervenuto celerissimamente per messo
apposta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta e
con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano del golfo che
si riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque
di Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia ed in
Albania in quanto maggior numero si potessero le cerne ed ai veneziani
lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che avevano
le stanze in quelle province, senza indugio alla volta di Venezia
s'indrizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte le navi
che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor generale
da mare e con queste anche le due destinate a portare il nuovo bailo
della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono prese il
dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il principale
fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì 2 dello
stesso mese, provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani, dandogli
autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli paresse tutto
l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer, affinchè
avesse cura particolare delle navi sottili allestite per custodia dei
lidi e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni del senato
presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati e presidiati
i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San Pietro
in Volta, San Nicolò di Lido, Malamocco. A Brondolo specialmente,
dove mettono foce i fiumi Adige, Canalbianco e Brenta, furono fatti
stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle
che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei
circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e
della Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi,
piene le isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse
bastare a questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili
di Venezia e del dogado a cui diedero il nome di _casatico_. Per cotal
modo Venezia, spinta dalla vicina guerra, si apprestava a difendere
l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica.
Un famoso storico franzese dei nostri tempi, lasciandosi trasportare ad
una parzialità tanto più degna di riprensione quanto è diretta contro
il misero, si lasciò uscir dalla penna, troppo incomportabilmente
scrivendo, che queste provvisioni del senato veneziano furono fatte
prima delle minaccie dei Franzesi. Al che un altro non men famoso
storico italiano giustamente si oppone in questo modo: «Eppure è
chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrare le date che le
provvisioni medesime furono fatte dopo ed a cagione delle minaccie
intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini: imperciocchè
minacciò Buonaparte il dì 31 maggio, deliberò il senato il dì primo e
secondo di giugno. Il perchè l'allegazione dello storico è contraria
alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli pretendesse che
Venezia, sentite le mortali minaccie di Buonaparte, non doveva armarsi,
staremo a vedere s'ei dirà che la Francia non doveva armarsi sentite
le minaccie di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai sommi geografi
così franzesi come italiani, i quali sostengono l'opinione del citato
storico, saria bene che ci dicessero quale maggiore distanza vi sia,
o qual maggiore difficoltà di strade tra Peschiera e Venezia che tra
Parigi e Roano. Saria anche bene che ci dicessero, caso che nascesse
oggi in Roano un accidente che minacciasse di totale ruina lo Stato
della Francia, se il governo non delibererebbe in proposito il dimane
a Parigi. Veramente quando l'uomo vuol impugnare la verità conosciuta,
diventa ridicolo...........
«Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità de' Veneziani
verso l'Austria, narra come non così tosto dimostrò l'imperatore
desiderio che la repubblica non conducesse a' suoi stipendii il
principe di Nassau, il governo veneziano se ne rimase. Ma la verità è,
che il consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle
lagune Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già
dal senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi
medesimi, molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo
desiderio. Ma volontieri mi sono io indotto a parlare di questo fatto,
perchè quando anche fosse vero, che è falso, non si vede come per una
condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla
distruzione di lei.»
Al tempo stesso in cui il senato ordinava l'apparato militare delle
lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere ch'ei
pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di
assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo
franzese, col quale andava esponendo che mentre la repubblica di
Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità
e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Franzese,
erano gli animi del senato rimasti vivamente trafitti dal colloquio
avuto dal generale Buonaparte col provveditore generale Foscarini, dal
quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio
contro Venezia; che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver
dato occasione a tale alterazione: che era conscio specialmente di non
meritare alcun rimprovero per l'occupazione di Peschiera contro di cui
non era restato alla repubblica disarmata e solo fondantesi sulla buona
fede delle nazioni sue amiche, altro rimedio che la più ampia e solenne
protesta e la più efficace domanda della restituzione, siccome infatti
non aveva omesso nel momento stesso di fare; potere lo stesso generale
Buonaparte rendere testimonio dello aver trovato inermi e tranquille le
città veneziane, e della prontezza con la quale i governatori veneziani
ed i sudditi somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri,
quanto era necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo
il senato, essere suo costante volere il conservare la più sincera
amicizia colla Francia, e pronto a dare quelle spiegazioni ed a fare
quelle dimostrazioni dei sentimenti proprii, che fossero in suo potere
per confermare quella perfetta armonia che felicemente sussisteva fra
le due nazioni.
Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta
a Venezia, domandava al senato perchè ed a qual fine si apprestassero
quelle armi, come s'ei non sapesse che il perchè erano le minacce di
Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in una guerra
che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato dover fare fra pochi giorni a
Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro che simili apprestamenti
guerrieri allora non si fossero fatti quando instavano presenti gli
Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non sapesse,
che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia come la
Francia per mezzo di Buonaparte aveva fatto. Richiedeva finalmente
si cessassero quelle armi dimostratici di una diffidenza ingiuriosa e
contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Franzese; il
che significava che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva
ch'ella si difendesse.
Rispondeva pacificamente il senato, le armi che si apprestavano essere
a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la
terra ferma; pacifica esser Venezia, volere vivere amicizia con tutti;
in mezzo ad opinioni tanto diverse, a discorsi tanto infiammativi,
a moltitudine sì grande di forastieri che abbondavano nella città,
dovere il governo pensare alla quiete ed alla sicurezza del pubblico: a
questo fine essere indrizzati i nuovi presidii ed a fare che, siccome
l'intento suo era di non offendere nissuno, così ancora nissuno il
potesse offendere: sperare che il governo franzese meglio informato
dei veri sensi della repubblica, deporrebbe qualunque pensiero ostile
contro di lei e persevererebbe, ora che la Francia tanto era divenuta
potente, in quella stessa amicizia che il senato le aveva costantemente
ed a malgrado di tutte le suggestioni ed instigazioni contrarie
conservata, quando la Francia medesima era pressata da tutte le potenze
d'Europa; che finalmente pel senato non istarebbe che un sì desiderato
fine si conseguisse: a questo tutti i suoi pensieri, a questo tutti i
suoi consigli, a questo tutte le sue operazioni dirizzare.
Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo
affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire
con esso lui sulle facende comuni, ch'egli era grato al senato per la
gentile e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere
nè più sincera nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita
a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei
pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto
egli aveva sempre rappresentato: insomma egli si chiamava contento
intieramente e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il 10
luglio; eppure questo medesimo giorno egli scriveva al ministro degli
affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far
odiar dal popolo i Franzesi; che il generale Buonaparte, richiesto di
rimborsi, aveva con ragione risposto che i Franzesi erano entrati nei
diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che avevano
per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta
poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad
interessi contrarii, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni
dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo che il governo veneziano
si era mostrato molto avverso alla rivoluzione franzese ed aveva
nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Franzesi;
ma che in quel momento era vero del pari che sincere erano le sue
protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che
le male impressioni lasciavano poi luogo alla considerazione de' suoi
veri interessi; che quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero
essere i motivi, pareva a lui che, tale qual era, non potesse far
diffidare della fede veneziana; che troppo le armi apprestate erano
deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi
proprii vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro
fine che di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto
quell'apparato non aveva in sè cosa che fosse ostile contro la Francia.
Quest'era il testimonio di Lallemand che ocularmente vedeva. Pure
gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra
e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se
armava era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano
perversi che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia;
la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace;
l'estremo fatto già la chiamava.
Tali erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso
la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti
da una nuova calata d'armi imperiali in Italia.
Sempre più si scoprivano i pensieri del vincitore generale della
repubblica indiritti a turbare tutta l'Italia. Si è già descritto, come
per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperadore il direttorio
di Parigi e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa
natura ora all'imperadore medesimo, ora alla repubblica di Venezia,
ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria, inquieta
per le calamità a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena se
non di conchiudere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a
Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke.
Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperadore e dalla forza
della repubblica franzese, che ogni di più pareva insuperabile, si era
piegata, benchè mal volontieri, a voler trattare, ed aveva mandato
a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci
di voler rimuovere tanto incendio dalla Europa afflitta e di aver a
cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le
vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte
di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più
renitenti, e di nuovo convenne venire al cimento delle armi. Solo
la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia che
nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo
il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della
guerra imminente col papa; il quale trattato il direttorio non volle
ratificare.
Adunque il direttorio, trovata tanta fermezza nell'Austria,
nell'Inghilterra e nel papa, che continuamente si preparava alla
guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre,
perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare se il
timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che
il timore dell'armi non aveva potuto.
A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia e le instigazioni di
Trento. Ma, per parlar de' primi, si voleva da Buonaparte che a quello
che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra
succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di costituzione.
Anche sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo
d'independenza talmente que' popoli già di per sè stessi tanto
accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti
di quell'ardore religioso che per difesa propria il pontefice facea
sorgere in Italia contro i conquistatori.
Erasi inditto il congresso de' quattro popoli dell'Emilia, Modenesi,
Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì 27 dicembre, malgrado di
Buonaparte, che avrebbe desiderato che più presto si adunassero per
dar cagione di temere al papa in tempo, in cui bollendo ancora le
pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero
in Reggio i legati dei quattro cispadani popoli, trentasei Bolognesi,
venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano
mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si
appartenesse; l'unione massimamente de' quattro popoli in un solo stato
procurassero. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quegli
spiriti repubblicani. Ordinarono, ad alta voce, non a voti segreti
si squittinassi. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle
quattro provincie, affinchè proponessero i capitoli della unione.
Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la
giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad
affratellarsi; erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da
Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como,
Beccaria da Pavia. Orarono conforme all'occasione; fu fatto risposta da
Facci presidente con gratissime parole.
Aprivansi in questo le porte del consesso; il reggiano popolo, bramoso
di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna
a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione de'
quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita
allegrezza la cispadana confederazione, chiamarono la unità della
repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno
fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta
allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da
Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del
congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo.
Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto
sembianza di energumeni che di uomini gravi chiamati a far leggi.
L'entusiasmo de' Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di
cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il
congresso statuito, che una prima legione italica si formasse; nè
questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri
sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava e faceva reggere da'
suoi ufficiali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione
degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva
della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui,
per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali ed
altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati;
e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero
nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo, si
lamentava che Garreau e Saliceti, commissarii del direttorio, gli
guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste
instigazioni, e chiamando al reggimento dello Stato uomini di poca
entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava
con questi commissarii e gli ammoniva con forti riprensioni, ma essi,
se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni
sorte di persone.
Scriveva il congresso il di 30 dicembre a Buonaparte, essersi
i cispadani popoli costituiti in repubblica, e ne lo invocava
padre, protettore. A queste lettere, ricevute con lieta fronte dal
conquistatore, rispondeva egli, aver udito con molto contento l'unione
delle quattro repubbliche, ma inculcare loro soprattutto d'ordinarsi
alle armi, perchè senza la forza le leggi non valgono. Il congresso
annunziava quindi ai popoli la creazione della repubblica, lodando
Francia, lodando Marmont, lodando Buonaparte vincitore.
L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia;
perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia,
facevano un moto, correndo sulla piazza ed intorno allo albero della
libertà affollandosi, gridavano sovranità e independenza, e volevano
costituirsi in repubblica Traspadana. Ma Baruguay d'Hilliers, generale
che comandava alla piazza di Milano e che conosceva la mente di
Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i
patriotti più ardenti.
Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori
d'Italia, tanta era la voragine, non diremo della guerra, ma dei
depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi
per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti;
scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle
viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme
fonti di denaro.
In fatti i rubatori, gente fraudolenta ed avara, erano una peste
invincibile. Buonaparte che, per la mancanza delle cose necessarie,
vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: li chiamava
ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliare uno, ora cacciare un
altro; ma nulla giovava. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli
amministratori infedeli trionfavano. «Potè, sclamava dispettosamente
Buonaparte, il marasciallo di Berwick far impiccare l'amministratore
supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non
potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei
soldati sono perniciosi e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere,
perchè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro sè
stesso si rodeva; ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava
anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Riempiva Buonaparte
di querele Italia e Francia; intanto andava a ruba l'Italia. Cuocevano
infinitamente a lui gli infiniti e in infinite guise diversificati
ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete
militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come