Annali d'Italia, vol. 8 - 41

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Italiani di ogni provincia, e la legione polacca, in cui si scrissero
molti Polacchi, o disertori o fuorusciti, e parte anche uomini raccolti
in tutta Germania. I Reggiani più infiammati non si contentarono nè
delle parole nè delle mostre. Dato dentro ad una squadra d'Austriaci
usciti per fazione militare da Mantova, e tagliati fuori dai Franzesi,
li facevano prigioni a Montechiarugolo, non senza fatica e sangue da
ambe le parti. Presentarongli in una modenese festa trionfalmente a
Buonaparte, gratissimo dono, perchè ed agguerriva gl'Italiani e li
faceva intingere contro lo imperatore.
Tutte queste cose affliggevano e spaventavano il pontefice, che si
vedeva restar solo esposto alle percosse delle armi repubblicane. Aveva
fatto quanto per lui si era potuto per adempire le condizioni, ancorchè
gravissime fossero, della tregua. La pace che si trattava a Parigi non
veniva a conclusione. Voleva il direttorio che il papa recedesse da
qualunque lega contro Francia; negasse il passo ai nemici, il desse
ai Franzesi; serrasse i porti agl'Inglesi; rinunziasse a Ferrara, a
Bologna, a Castro, a Benevento, a Ronciglione, a Pontecorvo; proibisse
l'evirazione dei fanciulli. Quanto alla religione, il direttorio
richiedeva che il papa rivocasse qualunque scritto od atto emanato
dalla santa Sede rispetto alle faccende ecclesiastiche di Francia
dall'89 in poi. Posto il partito dal pontefice, opinò con consentimento
unanime il collegio dei cardinali, doversi rifiutare tutte le pratiche,
non potersi accettare i patti, alla forza si resistesse colla forza.
Quando così deliberarono, già sapevano essere in ordine una terza mossa
austriaca per l'Italia, e per questa cagione speravano di aver seco
congiunte le armi imperiali.
Sapeva Pio VI a quale pericolo sottoponesse sè medesimo e tutto lo
Stato ecclesiastico col rifiutar la pace. Perciò non ometteva alcuno di
quegli aiuti che pei tempi confermare lo potessero. Scriveva un breve
a tutti i principi cattolici, col quale, gravissimamente favellando,
gli esortava a non abbandonare dei sussidii loro la santa Sede in
così imminente pericolo; corressero, ammoniva, in soccorso di quella
religione che con tanta pietà professavano, e che era cagione che i
sudditi con tanto amore e soggezione a loro obbedissero; dimostrando
quindi di quanto danno fosse minacciata, sorgessero adunque, esortava,
accorressero, pruovassero aver cura di quanto ha posto il cielo quaggiù
di più sociale, di più salutevole, di più sacro; darebbe egli, tanto
vicino al pericolo, l'esempio della costanza, nè potere o il romore di
sì perniziosa guerra o l'età sua oramai cadente, o le instigazioni dei
mali affezionati tanto operare, ch'egli non sorgesse con animo invitto
a difesa di quella religione che, scesa da Cristo Dio pel ministero
dei santi Apostoli sino a questi miseri tempi incorrotta e pura, doveva
parimente ai posteri pura ed incorrotta tramandarsi.
Queste voci mandava ai principi cattolici il pontefice ottuagenario,
primo sostenitore, e con le parole e con l'esempio, dell'autorità e
della dignità dei principi.
Non aveva il re di Napoli intermesso per mezzo del principe di
Belmonte Pignatelli i suoi negoziati a Parigi, ora con più vivezza
procedendo, ora allungando il dichiararsi, secondochè gli accidenti
d'Italia succedevano o più prosperi o più avversi alle armi franzesi.
Lo stimolavano dall'un de' lati l'Austria e l'Inghilterra a mantenersi
in fede; dall'altro il ritraeva il timore dei Franzesi saliti in tanta
potenza. Il direttorio, che si accorse dell'arte, volle stringere;
ma in tal fatto meritossi riprensione dell'aver tacciato, accennando
alle tergiversazioni del principe di Belmonte, d'infame nota la fede
italica, come la chiamò; perchè niun vede come si possa accusare una
nazione dell'infedeltà de' suoi governi, e nemmeno vede come le arti
usate dal principe napolitano, ora di stringere, ora di allargarsi,
possano chiamarsi arti fedifraghe e da chiamarsi con nome odioso;
perciocchè di simili arti usarono tutti i governi in tutti i loro
negoziati politici, e la Francia stessa le usò in ogni tempo, e più
ancora a quei del direttorio. L'udire poi accusarsi la fede italica
come infedele da coloro che a bella posta cercavano lite ai principi
italiani per cavarne denaro e per distruggerli, non si potrà certamente
senza sdegno comportare da chi, libero da ogni anticipata opinione
essendo, è solo amatore del giusto e dell'onesto.
Intanto, tra per la mediazione di Spagna e per le nuove che ogni
dì più si moltiplicavano del venire i Tedeschi verso l'Italia, fu
concluso fra la Francia e Napoli un trattato di pace il dì 10 ottobre,
molto onorevole, secondo i tempi, al re; perchè nè gli si comandava
di serrare del tutto i porti alle potenze nemiche della repubblica,
nè gli s'imponeva l'obbligo di scarcerare i mescolati in congiure. Le
principali condizioni furono: che il re rinunziasse a qualunque lega
coi nemici della Francia; si mantenesse puntualmente in neutralità con
le potenze belligeranti; vietasse l'entrata nelle sue marine alle navi
armate in guerra di esse potenze, così franzesi, come di altre nazioni,
se più di quattro fossero; si restituissero tutti i beni sì mobili che
stabili sequestrati e confiscati, tanto in Francia, quanto nel regno,
a motivo della presente guerra; si stipulasse un trattato di commercio;
avesse luogo nella pace la repubblica batava.
Anche la tregua tra la Francia e Parma si convertiva in accordo, per
verità non troppo superbo pel duca, per la protezione in cui l'aveva
la Spagna, sicchè la pace gli recò minor danno che la tregua: accidente
insolito, perchè le paci del direttorio erano per l'ordinario peggiori
delle tregue.
Udissi a questi giorni la morte (16 ottobre) di Vittorio Amedeo III,
re di Sardegna, principe che avrebbe avuto in sè tutte le parti che
in un reggitore di popoli si possono desiderare, se non fosse stata
quella smania di guerra che notte e dì il tormentava. Quindi consumò
l'erario per mantenere i soldati, ed i soldati consumarono il paese: lo
soggettarono anche alla forza, che sarebbe stata intollerabile, se la
natura buona del principe e le vecchie abitudini di governo regolato
non l'avessero temperata. Restano e sempre resteranno le memorie
delle onorate cose fatte da lui in pace e nel riposo de' suoi popoli;
ma fatalmente Vittorio Amedeo lasciò morendo un regno servo che avea
ricevuto intero, un erario povero che aveva ereditato ricchissimo, un
esercito vinto che gli era stato tramandato vittorioso. Così le sue
virtù, che furono molte e grandi, non partorirono pe' suoi sudditi
tutto quel benefizio che promettevano.
Successe nel regno a Vittorio Amedeo III Carlo Emmanuele IV di questo
nome, principe ammaestrato in molte belle discipline, ornato di tutte
le virtù che in uomo capir possono, e devotissimo alla religione.
Ma con l'animo ottimo aveva il corpo infermo; perciocchè pativa
straordinariamente di nervi, e questo male, al quale non era rimedio,
gli rappresentava spesso di strane fantasie, che il facevano parere
assai diverso da quello ch'egli era veramente. Essendo gli Stati del
re frapposti tra Francia ed Italia, e provveduti tuttavia di buone
armi, sebbene infelicemente usate, molto importava alla prima di averlo
per amico; perciò il direttorio nissuna cosa lasciava intentata per
congiungerselo in amicizia stabile per un trattato di alleanza. Si
aggiungeva la tenerezza di Buonaparte pel re, cui fu sempre primario
intendimento di trasportare il dominio del re dal Piemonte nello
Stato di Milano, e d'incorporare alla Francia il Piemonte e l'isola di
Sardegna. Questo pensiero stesso ei si volgeva in mente, quando più
con le istigazioni tentava di accalorare lo spirito repubblicano in
Milano. Ma non andava a grado del direttorio, o fosse che non avesse
ancor deposto il pensiero di restituire, se bisognasse, il Milanese
allo imperatore, o fosse che per una tal quale ambizione di repubblica
credesse che con tante vittorie potesse alzar l'animo a maggiori
cose, con fondare una nuova repubblica negli Stati dell'imperatore in
Lombardia. Amava meglio di compensare il re a spese di Genova. Ambidue
cercavano con queste speranze di adescar tanto Carlo Emmanuele, ch'ei
venisse a concludere con la repubblica la confederazione. E siccome
queste pratiche non si potevano tenere tanto segrete che le altre
potenze non le subodorassero, confidavano che l'imperatore intimorito
si sarebbe più facilmente inclinato a fare la volontà della repubblica.
Ma il re non volle a questo tempo consentire al trattato, perchè gli
pareva che, se congiunto fosse in lega difensiva ed offensiva con
Francia, sarebbe stato costretto a volgere le sue armi contro il papa,
al quale sapeva che i repubblicani macchinavano allora di far guerra,
nè gli poteva sofferir l'animo di offendere il capo della Chiesa che
non gli aveva fatto alcuna ingiuria.
In questo mentre Carlo Emmanuele aveva chiamato ai consigli dello
Stato, invece del conte d'Hauteville, il cavaliere di San Damiano di
Priocca. Inoltre, avendo il direttorio ripudiato il conte di Revel,
come fuoruscito franzese, dall'ambasciata di Parigi, il re gli aveva
surrogato il conte Balbo, uomo di alto lignaggio, di molte lettere e
di non poca dottrina. Del rimanente, quanto al politico, era il conte
piuttosto amatore di mettere l'Italia in Piemonte, che il Piemonte in
Italia, ed aveva ottimamente conosciuto di che qualità fosse la libertà
di quei tempi. Arrivato come ambasciatore di Sardegna a Parigi, gli
furono date gratissime parole; ed egli, siccome quello che era accorto
e buon conoscitore degli uomini, si mise tosto in sul negoziare, non
disperando di trovar modo di far servigi importanti al re fra quei
repubblicani amatori di denaro e di nomi illustri. Intromesso al
cospetto del direttorio, disse non essere mai stato il re suo signore
nemico a Francia nè al governo di lei; tempi fatali avergli posto
in mano l'armi.... non aver mai cessato di desiderare la pace....
consigliarlo il rispetto dell'interesse suo, che era quello stesso del
suo popolo, che restasse affezionato alla Francia: naturale adunque
essere, soggiungeva, l'amicizia dei due Stati; avere lui carico di
nudrirla; e perchè nissuna cattiva impressione restasse, avere carico
di disdire i fatti accaduti in Piemonte contro l'ultimo ambasciatore
di Francia; presentare le sue credenziali; vedrebbero per loro quanta
fede avesse il re posta in lui; stimerebbe meritarla, se quella del
direttorio meritasse.
Rispose magnificamente il presidente, la moderazione del principe
del Piemonte (quest'era la qualità di Carlo Emmanuele prima della sua
assunzione) avere preparato la strada alla stima del popolo franzese
verso il re; accrescersi la contentezza del direttorio alle nuove
protestazioni; renderebbe il governo di Francia amicizia per amicizia;
desiderare che l'esempio di un re amatore della pace piegasse tutti i
nemici della repubblica ad accettarla; rallegrarsi il popolo franzese
per le vittorie acquistate ad assicurazione della sua libertà, ma
vieppiù essere per rallegrarsi, quando tutte le nazioni vivessero
in amicizia con lui; non conoscere la repubblica l'astuzia politica;
stipulare i trattati con lealtà, osservarli con fede, difenderli con
coraggio; soddisfarsi il direttorio al vedere che il re l'avesse eletto
a nutritore di concordia, sperare si sforzerebbe in adempir bene il
quieto mandato.
Tali furono i vicendevoli parlari tra Francia e Sardegna. Quantunque
il re non potesse amare un governo che l'opprimeva, la sua amicizia
politica verso di lui era nondimeno sincera, perchè credeva che ciò
importasse alla salute ed agl'interessi del suo reame. Dall'altro lato
il direttorio mostrava il viso benigno al re, per aver seco congiunte
le sue armi, sebbene avesse disegni di distruzione del governo regio in
Piemonte.
Ma quel che faceva ricercare il re della sua amicizia in questo momento
cagionava il pericolo della repubblica di Genova. Vennesi pertanto
in sui cavilli e sulle superbe parole. Ricominciaronsi le querele
pel fatto della Modesta già composto tante volte. Esortava Faipoult
Buonaparte a venire armato a Genova per cacciare dai magistrati gli
avversi a Francia, a bandirli, a cambiare le forme delle deliberazioni
del governo.
Mandava la signoria all'alloggiamento di Buonaparte Francesco Cattaneo,
uno dei più gravi e più riputati cittadini della repubblica, affinchè
s'ingegnasse di mitigare quella superbia; ma si tirava più su colle
richieste: serrassero, imponeva, tutti i porti agli Inglesi, sei mila
Franzesi il golfo della Spezia occupassero, apprestasse la repubblica
quanto abbisognasse alla Francia; venti milioni pagasse a compenso dei
danni inferiti dagl'Inglesi e dagli Austriaci sui mari; per impedire
l'entrata agl'Inglesi nel porto di Genova, un presidio franzese la
lanterna munisse, gli abitatori della Polcevera si disarmassero. Il
senato, siccome quello, a cui le condizioni parevano intollerabili,
mandava con autorità d'inviato straordinario a Parigi Vincenzo Spinola
patrizio veduto volontieri dagli agenti franzesi. Si faceva lo Spinola
avanti, parte con le parole, parte con fatti più efficaci delle parole.
Intanto il dì 11 settembre venivano gl'Inglesi ad un fatto che
fece precipitar Genova alla parte franzese. Nelson, viceammiraglio
d'Inghilterra, rapì sulla spiaggia di San Pier d'Arena una nave
franzese: fu il caso tanto improvviso, che nè le artiglierie della
Lanterna furono a tempo di romperne il disegno. Faipoult, usando
l'occasione, ed acceso in gravissima indegnazione, domandava che
Genova, dal cui porto era uscito Nelson per quella prepotente fazione,
intercludesse i porti agl'Inglesi e desse, in compenso della nave
rapita, in mano di Francia tutte le navi loro sorte ne' suoi porti:
quando no, sarebbe tenuta del fatto verso la repubblica.
Le insolenze d'Inghilterra e le minaccie di Francia fecero facilmente
andar innanzi la mutazione nelle deliberazioni di Genova. Per la
qual cosa, tacendo o poco contrastando nelle consulte coloro che
inclinavano alla parte inglese, sorse più potente la parte franzese.
Però fu risoluto nel consiglio grande, ed approvato nel piccolo, che
si chiudessero tutti i porti ai bastimenti inglesi sì da guerra che da
commercio; si ritenessero quelli che nei porti stanziassero.
Il serenissimo governo, datosi tutto alla parte del nome franzese,
pubblicava, per giustificare la sua deliberazione, un manifesto,
in cui, raccontate tutte le ingiurie ricevute, da poi che aveva
incominciato la guerra, dagl'Inglesi, concludeva che poichè la lunga
pazienza ed i frequenti ricorsi erano stati indarno, nè alcuna speranza
si aveva che gl'Inglesi fossero per venirne a termini più temperati,
si era risoluto ad escludere infino a nuova deliberazione dai porti
genovesi le navi britanniche, la presenza delle quali, sotto colore
di non adempita neutralità per gli altrui fatti violenti, aveva dato
occasione a tanti incomodi ed a tanti pericoli.
Intanto si stipulava, il dì 9 ottobre, a Parigi tra il direttorio ed
il plenipotenziario Spinola una convenzione, con la quale si fermarono
le condizioni, a norma delle quali i due Stati dovevano vivere tra di
loro. L'accettarono i Genovesi, sperando che con lei sarebbe confermato
lo Stato. L'accettarono il direttorio e Buonaparte, perchè procurava
loro denaro. Fu convenuto fra i due Stati che il decreto del governo
di Genova, per cui si serravano i porti agl'Inglesi, avesse la sua
esecuzione fino alla pace; proibisse Genova il soccorrere di viveri
e di munizioni gl'Inglesi; presidiasse sufficientemente i porti; se
non potesse, la Francia la servirebbe di presidii; se la Gran Bretagna
intimasse la guerra a Genova, la difenderebbe la Francia; annullasse
Genova i processi fatti ai sudditi per opinioni, discorsi o scritti
politici; i nobili processati nel grande e nel piccolo consiglio
si redintegrassero; la Francia promettesse di conservar intero il
territorio della repubblica, di agevolarle la pace con le potenze
barbaresche, di far libere e franche le terre vincolate per dritti
di feudo all'impero germanico; i Genovesi accettassero la mediazione
della Francia per comporre le loro differenze colla Sardegna; pagassero
alla Francia, per prezzo dell'amicizia e della conservazione dei
territorii, due milioni di franchi, e le facessero un prestito di altri
due milioni. Furono i due milioni di taglia estratti dal banco di San
Giorgio, i due del prestito pagati dai più ricchi.
Genova debole e lacerata da due nemici potenti fu obbligata a comporsi
con uno di loro: il che non fu la sua salute. Venezia anch'essa tra
due nemici potentissimi, ma più forte, più padrona di sè medesima,
più tenace nella neutralità, non volle comporsi, nè ciò fu la sua
salvezza. Bisogna premettere che principal mira del governo di
Francia, alla quale tutte le altre subordinavansi, era sempre la pace
con l'imperatore non solamente per la sua potenza, ma ancora per la
dignità e pel grado. Parevagli che, ove Francesco avesse accettato le
condizioni, la repubblica riconosciuta da un tanto principe sarebbesi
bene radicata e, per così dire, naturata in Europa. Sola l'Inghilterra
sarebbe rimasta nemica; ma non avendo più speranza di muovere l'Europa
contro la Francia, si conghietturava che anch'essa sarebbe sforzata di
venire agli accordi. Chiaro appariva che dalle condizioni dell'Italia,
essendo già i Paesi-Bassi austriaci posti in possessione della Francia,
pendeva principalmente la pace con l'imperatore. A questo principal
fine dirizzando i suoi pensieri il direttorio, aveva mandato in Italia
il generale Clarke, personaggio molto dipendente da Carnot, col mandato
di veder vicino le cose e di fare convenienti proposte all'Austria. Era
Clarke uomo molto atto a questo atto, non solo per la sua destrezza,
ma ancora perchè detestava, e sapevasi, le esagerazioni dei tempi.
Inoltre egli pare che il direttorio, od almeno qualche membro di lui,
avesse concepito sospetto di pensieri ambiziosi in Buonaparte, e però
si era risoluto a mandare in Italia un uomo, quale gli sembrava Clarke,
molto fidato, affinchè investigasse ed accuratamente rapportasse
gli andari del generale italico. Del che o accortosi o sospettando
Buonaparte, quando se lo vide comparire innanzi, siccome quegli che non
amava gl'imperii dimezzati, gli disse a viso scoperto che se veniva ad
accordarsi con lui, il vedrebbe volentieri, e l'accetterebbe; quando
no, se ne poteva tornare. Questa insolenza o non seppe il direttorio,
o saputa, per lo meno male, la passò. Clarke, che uomo accorto era,
avvisò facilmente dov'era e dove aveva a rimanere la potenza; si
piegava perciò facilmente, e da inviato del governo divenne fidato
di Buonaparte. Da quel punto nacque fra ambidue quella benevolenza e
quella intrinsichezza che si mantennero in tanti e sì diversi tempi ed
in tante rivoluzioni d'uomini e di cose.
Ma venendo al mandato politico di Clarke, quantunque ei dovesse
principalmente indrizzarsi all'imperatore, fece opera per viaggio
di racconciar le faccende colla Sardegna. Offeriva, in nome della
repubblica, di dare al re Genova co' suoi territorii con patto ch'egli
cedesse alla Francia l'isola di Sardegna e si unisse in lega con la
repubblica, obbligandosi a congiungere all'esercito italico un numero
determinato di soldati. Disordinò anche questo pensiero il rifiuto di
Carlo Emmanuele del voler entrare in questa lega; perchè, come già
rapportammo, detestava grandemente di voltar le sue armi contro il
papa. Allora fu fatto il trattato con Genova, col quale il direttorio,
non potendo più farla cosa del re, la fece cosa sua.
A questo succedeva ne' consigli dei reggitori della Francia un
altro disegno per opera principalmente di Buonaparte; ma alle loro
proposizioni se ne stava dubbiosa l'Austria, perchè non aveva ancora
perduto la speranza di ricuperare per forza d'armi gli Stati d'Italia;
questi negoziati correndo prima delle ultime rotte di Wurmser.
Però Clarke e Buonaparte, non ostante le vittorie contro Wurmser,
insistevano sempre maggiormente.
Conoscendo il direttorio la renitenza dell'Austria, aveva mosso, per
vincerla, altre pratiche lontane, per le quali sperava di operare che
il timore superasse a Vienna ogni ostacolo. Dipendeva intieramente
la Spagna, pei consigli e per la autorità del principe della Pace,
dalla Francia. Dipendeva anche da lei per la necessità delle cose
la Porta Ottomana. Venne adunque il direttorio in pensiero, condotto
da quel suo fine principalissimo di aver amicizia con l'imperadore,
di far proposizioni di lega difensiva tra la Spagna, la Porta
Ottomana, la Francia e la repubblica di Venezia contro l'Austria:
presumeva il direttorio, oltre il timore da darsi all'imperadore, che
Venezia, stante la costanza del senato a volersene star neutrale,
avrebbe ricusato d'entrar nella lega, e però che se gli sarebbe
porta più colorita cagione di pigliarsi la repubblica. Il Reis
Effendi, favellando a Costantinopoli col dragomanno di Venezia, si
era lasciato intendere che in quel totale sovvertimento d'Europa il
senato veneziano non poteva e non doveva più starsene isolato e da
sè, ma sì consentire a quelle congiunzioni che per la sicurtà dei
suoi Stati fossero necessarie, e che nissuna congiunzione migliore
poteva essere che un'alleanza con la Porta, la Francia e la Spagna.
Poco dopo Verninac, ministro di Francia a Costantinopoli, avuto un
segreto colloquio con Ferigo Foscari, bailo della repubblica, gli
aveva significato le medesime cose, protestando della amicizia della
sua repubblica verso quella di Venezia, e non solamente promettendo
sicurtà per tutto il territorio veneto, ma ancora dando speranza di
considerabile ingrandimento. Infine, in qualità di persona pubblica
procedendo, l'ambasciatore dava al bailo uno scritto, acciocchè lo
tramandasse al senato, in cui veniva ragionando che la repubblica
franzese, oltremodo tenera della quiete generale e della preservazione
degli Stati contro gli altrui disegni ambiziosi, si era risoluta a
non istarsene da sè, in mezzo all'Europa commossa; che a questo fine
desiderava congiungere a quella d'altrui tutta la forza sua; che
confidava che i governi interessati sarebbero disposti a secondarla;
che sperava che specialmente il senato veneto si mostrerebbe pronto
a concorrere a questo fine; che perciò proponeva al senato per mezzo
del bailo e per comandamento espresso del direttorio un'alleanza fra
le due repubbliche. Quindi, più apertamente spiegandosi, dicea sue
ragioni, perchè si avesse ad accettare la lega che il direttorio veniva
proponendo. Non avendo il bailo mandato per trattare una sì importante
materia, rispondeva pe' generali, offrendosi solamente di trasmettere
lo scritto di Verninac al senato.
Le medesime mosse diedero a Madrid il principe della Pace ai nobili
Bartolammeo Gradenigo e Almorò Pisani, a Parigi il ministro degli
affari esteri Lacroix al nobile Alvise Querini, finalmente a Brescia
Buonaparte al provveditor generale Francesco Battaglia. Quest'era
un concerto per maggiormente muovere la repubblica. Ma il senato non
avendo ancora deliberato, perchè i savi non gli avevano participato
affare di tanta importanza, il 27 settembre, quando appunto più
vive bollivano le pratiche di Clarke, si appresentava in Venezia al
serenissimo principe con un memoriale il ministro di Francia Lallemand,
col quale, annunziando che la repubblica franzese, desiderosa di
stringersi vieppiù in amicizia con l'antica sua amica la repubblica
di Venezia, le proponeva di nuovo per mezzo suo quello che già le era
stato proposto e da lui medesimo e da altri ministri di Francia, cioè
un'alleanza a difesa ed assicurazione de' suoi Stati; e caldamente
ragionando in acconcio della proposta, seguitava: offerirle il
direttorio la alleanza del popolo franzese; essere questo popolo,
fatto potentissimo per le sue vittorie in grado di dare al mondo, e
per quiete sua, quell'aspetto che gli piacerebbe, stipulerebbe patti
proficui e nobili per una nazione alleata; obbligherebbe tutte le sue
forze a difenderla, se i suoi vicini si attentassero di molestarla;
le mandasse il senato un negoziatore a Parigi, si concluderebbe un
trattato ad unione de' due popoli fondato sulla sincerità e sulla buona
fede, sole basi della politica franzese; già prepararsi la pace del
continente, già esser vicine a definirsi le sorti d'Italia; ogni cosa
dovere sperar Venezia congiunta in alleanza con Francia.
In tale modo instava con molta pressa Lallemand in cospetto del
serenissimo principe, e per aprir l'adito alle future cose, aggiungeva
altri discorsi ancora ed altri motivi, cui aiutava presso al senato
il provveditore Battaglia, il quale, non si sa bene perchè, si era
discostato, accettando le nuove, dalle antiche consuetudini del governo
veneziano.
Grave al certo deliberazione era questa e che importava alla somma
tutta della repubblica; perchè se da una parte si vedeva, che il
collegarsi con la Francia in mezzo a tanta vertigine di cose avrebbe
necessariamente condotto Venezia per sentieri insoliti, non mai battuti
da lei, e pieni d'un dubbioso avvenire, dall'altra il non collegarsi
poteva portare con sè una immediata pernicie; ed in questo non si era
infinto il ministro di Francia, avendo accennato a quale pericolo si
esporrebbe Venezia se a starsene scollegata e da sè continuasse. Questa
materia fu maturamente esaminata in una consulta di tutti i savi di
collegio, e, sebbene la sentenza in cui entrarono sia stata da molti
biasimata e da alcuni allegata come pretesto valevole di fare a Venezia
quello che le fu fatto; come se uno Stato independente fosse obbligato,
sotto pena di eccidio, di opinare come uno Stato forastiero vorrebbe
che opinasse, non si dubita di affermare che fu giusta, onorevole e
conveniente ai tempi. Concludevano adunque che se la fortuna franzese
preponderante non permetteva che si pendesse di più verso l'Austria,
la maggior fede dell'Austria non permetteva che si pendesse di più
verso la Francia. Pensarono finalmente, che se era destinato da' cieli
che la repubblica perisse, doveva ella perire piuttosto innocente che
rea, piuttosto per violenza altrui che per colpa propria, piuttosto con
compassione che con biasimo del mondo, e senza che ne fosse diminuita
la maestà del suo nome.
Serbando l'antica consuetudine di Venezia, come opinarono i Savi così
fu approvato dal senato, che signora di sè medesima, e da ogni vincolo
libera, si serbasse la repubblica. Rispondeva il senato gravemente a
Lallemand, che grate ed accette gli erano le dimostrazioni amichevoli
fatte dal governo della repubblica franzese, che appunto per queste
stesse disposizioni amichevoli sperava il senato che il direttorio
non avrebbe voluto condurlo a deliberazioni che verrebbero a produrre
effetti contrari all'intento; che per antico instituto la repubblica
di Venezia, lontana dall'ambizione e solita a temperare sè medesima,
aveva riposto il fondamento dell'esser suo politico nella felicità
e nell'affezione de' sudditi e nella sincera amicizia verso tutti
i potentati di Europa; del quale giusto ed immacolato procedere si
erano sempre, malgrado degl'inviti e delle sollecitazioni contrarie
in vari tempi fatte, essi potentati mostrati contenti; che per esso
ancora era stata la quiete conservata ai veneti dominii con utile
costante e contentezza inestimabile dei sudditi; che questa condotta
del senato, confermata dal corso di tanti secoli felici, non poteva
abbandonarsi senza incontrare inevitabilmente il pericolo di guerra;
che erano le guerre calamitose a tutte le nazioni, ma assolutamente
insopportabili al senato pel suo amore paterno verso i sudditi, per
la costituzione fisica e politica de' suoi Stati e per la sicurezza
delle nazionali navigazioni. Alle quali cose s'aggiungeva il pericolo
funesto di sconvolgere le basi del proprio governo, senzachè derivar
ne potesse alcun rilevante appoggio alle grandi nazioni alle quali
egli strettamente si unisse. Terminava il suo grave ragionamento con
dire, sperare che il direttorio, conosciuta la ingenuità e la verità
di queste considerazioni, le avrebbe per accette e non sarebbe per
alienare l'animo, nè in qualunque evento, dalla innocente Venezia, da
Venezia risoluta a conservare con ogni studio l'amicizia con Francia.
Rifiutata dal senato l'alleanza, con la Francia, restava a considerarsi
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