Annali d'Italia, vol. 8 - 40

presti l'avevano sopraggiunto i Franzesi, se non quello di ritirarsi
per far pruova di guadagnare le sicure muraglie di Mantova. Adunque,
velocemente marciando e velocemente ancora seguitato da' repubblicani,
passava l'Adige a Porto Legnago, batteva Massena a Cerea, Buonaparte
a Sanguineto, entrava coi soldati tutti sanguinosi, ma con aver fatto
sanguinosa la vittoria anche al nemico, dentro i ripari della forte
Mantova.
Questo fu il fine dell'impresa di Wurmser in Italia e del poderoso
esercito che vi condusse. Ne fu afflitta la Germania, ne fu lieta
la Francia, e pendè di nuovo incerta l'Italia del destino che la
aspettasse; perchè nè Mantova era piazza che si potesse facilmente
espugnare, nè l'imperador d'Alemagna era tale che non fosse per fare
un nuovo sforzo per riconquistare le rive tanto infelicemente feconde
dell'Adda, del Ticino e del Po.
Siede Mantova, città antica e nobile, in mezzo ad un lago che il fiume
Mincio forma, ed in tre parti si divide, separate una dall'altra da due
ponti. Ma non tutta la città è circondata da acque libere e correnti;
conciossiachè il Mincio, a stanca verso la cittadella precipitandosi,
lascia i terreni a dritta o del tutto scoperti o di poche acque velati,
ma limacciosi tutti ed ingombri di erbe e di canne palustri. Questa è
la palude che si dilata e circuisce in gran parte le mura. Oltre poi
le acque e la palude, le principali difese di Mantova consistono nella
cittadella, nel forte San Giorgio, ne' bastioni di porta Pradella e di
porta Ceresa, ed in altri propugnacoli, che da luogo a luogo sorgono
tutti all'intorno nel recinto delle mura, e finalmente nelle trincee
del Te del Migliaretto.
Tutte queste difese fanno la fortezza di Mantova, ma più ancora l'aria
pestilente, che, massimamente a' tempi caldi, rende quei luoghi infami
per le febbri e per le molte morti, e fa le stanze pericolosissime,
principalmente ai forastieri non assuefatti alla natura di quel cielo.
Non è però che nel complesso delle dette fortificazioni non vi sia una
parte di debolezza, perchè nè la cittadella nè il forte San Giorgio
sono tali che possano resistere lungo tempo ad una valida e regolata
oppugnazione; ed a porta Pradella, non meno che nelle mura a mano manca
di porta Ceresa sono altri tratti difettosi. Sapevanselo i Franzesi
quanto a questo ultimo tratto, che prima dell'arrivo di Wurmser
avevano assaltato questa parte, e già tanto si erano condotti avanti,
che, aperta la breccia, stavano in punto di entrarvi. A tutto questo
pensando Buonaparte, era venuto nell'opinione, che in venti giorni di
trincea aperta si potesse prender Mantova; ed era pur solito a dire,
ed ei se n'intendeva, che con sette mila soldati, stante la difficoltà
delle sortite per la strettezza degli argini, e la facilità di tenerli
dagli assedianti guardati, se ne possono bloccar dentro Mantova venti
mila.
Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova
con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di
Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione
già stanca da molte battaglie e da troppo frequenti vigilie,
induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava
particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano,
rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano
austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime
di cavalleria, sortiva spesso con grosse cavalcate a foraggiare alla
campagna, il che tanto più facilmente poteva fare quanto più, essendo
tuttavia padrone della cittadella e di San Giorgio, avea le uscite
spedite, senza essere obbligato a restringere le genti in lunghe
file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente
nuocevano a Buonaparte, il quale sapendo che l'Austria non avrebbe
omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne
presto alle strette per aver Mantova in mano sua anzichè gli aiuti
arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso
il mese di settembre, comandava a' suoi andassero all'assalto di San
Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla
campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla
Favorita, sito fortificato dagli Austriaci e posto a tramontana tra San
Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace
Wurmser; perchè, cacciatosi di mezzo con la cavalleria, e represso
l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava. Ma l'audace Buonaparte
non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto
di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto
confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi
viemmaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza
nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Eransi gli Austriaci
ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San
Giorgio ed alla Favorita; avevano anzi spinto molto avanti le loro
guardie fuori degli alloggiamenti. Ordinate le cose sue con opportuni
comandamenti ad Augereau, a Sahuguet, a Pigeon, ed a quel pronto e
valoroso Massena, fu l'industria e la virtù del generale di Francia
aiutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di
soverchio allargato nella campagna, come Buonaparte prevedeva, non
fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le
strade fra San Giorgio e la Favorita, ed Augereau arrivava tempestando
a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello
recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando
ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva
padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere colla
tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere
il capo del ponte che dal sobborgo porta alla città. A questo modo
gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero
di circa tre mila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella:
perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter
dei Franzesi i luoghi più opportuni all'ossidione e fiaccando l'ardire
degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in
quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio e tirato
anche dalla necessità, per fuggire la molestia della fame, facesse, per
andar a saccomano, sue sortite, non si affidava però più di correre
così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue
condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente
di vettovaglia. Già sorgevano segni di mala contentezza che obbligavano
Wurmser a star vigilante così dentro come fuori. Munivano i Franzesi
con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano
grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova.
Eransi nell'isola di Corsica maravigliosamente sollevati gli animi a
cagione delle vittorie dei Franzesi in Italia: il quale moto tanto si
mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi
dell'armi si aggiungeva quella che principalissimo operatore fosse quel
Buonaparte, che, quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia,
era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Questi umori erano anche
ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi e dalle taglie che avevano
poste. Queste erano le cagioni, per cui la parte franzese in Corsica
andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la
inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione: già il dominio
d'Inghilterra vi titubava. Queste cose si sapevano da Buonaparte; e
siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva
posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo
porto agl'Inglesi, ma ancora per muovere la Corsica a danno loro.
Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo Stato
a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo di
insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli, Corso, con alcuni altri
soldati del medesimo paese, e, provvedutolo di denari, d'armi e di
munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con
le esortazioni desse speranza di maggiori sussidii. Era il passaggio
di mare assai pericoloso per le navi inglesi che continuamente il
correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate
molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene
commetteva l'impresa. A questi primi principii, crescendo vieppiù le
speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a
salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e
che potevano pel credito e dipendenza loro aiutare l'impresa. Preponeva
ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama e savio per natura e
per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano
a Livorno e si ordinavano in compagnie. Una compagnia di ducento, più
attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei
conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierie di
montagna e cannonieri pratichi per governarli. Erano vicine a mutarsi
in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte.
Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi
preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare.
Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il
perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferraio,
terra forte e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di
questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva
con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di
Porto-Ferraio, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente
agl'Inglesi; ricercandolo altresì mettesse in quel forte un presidio
sufficiente ad assicuravelo; e voleva finalmente che si aggiungessero
ducento soldati franzesi. Soddisfece alla prima domanda il principe,
scambiando il governatore; ma fondandosi sulla neutralità, legge
fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia,
e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì al
rimanente.
Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferraio,
che i Franzesi a Livorno portato avessero. S'appresentavano il dì 9
di luglio in cospetto di Porto-Ferraio, con diciassette bastimenti
che portavano due mila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il
vicerè di Corsica al governatore, volere occupare Porto-Ferraio,
perchè i Franzesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupare
anche Porto-Ferraio; ma non volere, negando con le parole quello che
faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere
la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero
lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza.
Avute il granduca queste moleste novelle, comandava al governatore,
protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse
alla forza. Ma già gl'Inglesi, procedendo dalle minaccie ai fatti,
erano sbarcati sulle spiaggie d'Acquaviva, e, per sentieri montuosi
marciando, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte
di Porto-Ferraio; quivi piantarono una batteria di cannoni e di obici
con le bocche volte verso la città. I soldati scendendo da quei siti
erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla lerce, stavano pronti
ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e
presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica
intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferraio e i forti
per preservarli dai Franzesi; porterebbe rispetto alle proprietà, alle
persone, alla religione; se ne andrebbero, fatta la pace o cessato il
pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero
pacificamente; se negasse, per forza. Adunava il governatore gli
ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa
più principali, acciocchè quello che far si dovesse deliberassero.
Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza,
protestando di alcune condizioni; le quali accettate, entrarono nella
toscana isola gl'inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola
Capraia, di Stato Genovese.
In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica
perturbata da grandissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte.
Bonelli, condottosi nell'isola e spargendo voci di prossimi aiuti
e detestando la superiorità inglese, e spargendo ogni dove faville
d'incendio e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui
monti vicino a Bastia ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente che
apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastia, sendovi ancora
presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, o piuttosto
di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi del nome di
Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono
al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già
avesse Bastia in luogo di città franzese. Vedutosi da Saliceti
e da Gentili che quello era il tempo propizio per restituire la
patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda
di fuorusciti corsi, affinchè, arrivando a Bastia, aiutasse quel
moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno,
non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre
Casalta e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i
partigiani in grosso numero. Occuparono i poggi che dominano Bastia.
Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si
arrendessero; quando no, li fulminerebbe. Sopravvennero intanto le
novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome
britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonare quello
che più non potevano conservare; e precipitando gli indugi dal forte
di Bastia, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi;
ma perdendo, scontratisi con Casalta, cinquecento prigionieri, e i
magazzini; dei cannoni parte trasportarono, altri chiodarono. A tale
fatto i tumulti crescevano, gli alberi della libertà si piantavano.
Intanto guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di
San Germano, per cui si apre la strada da Bastia a San Fiorenzo, ed
arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti
gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare
la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi
repubblicani. Tuttavia l'armata inglese stava sorta sull'ancore poco
distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano
fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima,
non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica,
ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati
sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per
tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore corso che li
cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con sè nuove
armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti
di Corsica. Arrivato a Bastia, dato riposo alla truppa, squadronati
nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo
con animo di cacciar gl'Inglesi da quell'ultimo nido di Mortella.
Urtava l'oste britannica, ne seguitava una mischia mortalissima:
fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e
si ridussero, prestamente camminando e tutti sanguinosi, alle navi.
Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde
speculando vedeva l'armata inglese che continuava a starsene con
l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batteria per
fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai
venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando
tutta l'isola in potestà di coloro che la vollero restituire all'antica
madre di Francia. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè
conquistate isole d'Elba e Capraia brevissimo frutto di violata
neutralità.
Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà
di perdonare. Parlava ai Corsi con benigne e incitate parole,
conchiudendo: «giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni
morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno
alla monarchia.» I quali violenti parlari, che producevano frutti
conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle
esagerazioni che della temperanza.
Fertilissimo di avvenimenti, e tutti di sommissima importanza, è
quest'anno e chi volesse registrarli giorno per giorno come apparvero
sulla scena, produrrebbe una confusione da non potersi così agevolmente
strigare. Miglior consiglio sarà dunque il tendere più fila e venirle
seguendo di mano in mano, ripigliando i tempi secondo l'opportunità,
come si è fatto finora, perchè da ciò la narrazione acquisterà quella
chiarezza e quella connessione che altrimenti le mancherebbero all'in
tutto.
Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime; l'avere
ridotto a condizione servile il re di Sardegna, ad accordi poco
onorevoli quel di Napoli ed il papa, l'avere non solo vinto, ma
anche spento due eserciti nemici, l'essere disarmata la repubblica di
Venezia, l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar
di una bandiera, davano argomento che la potenza franzese metterebbe
radici in Italia e che questa provincia sarebbe per cambiare e di
signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero
ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato contro il vecchio. E,
vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni
molti uomini savii e prudenti, i quali opinavano che, poichè la forza
aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era
oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi
accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria italiana
di mostrarsi e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra
l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti che
scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Si persuadevano che
se era scemato il pericolo delle armi avversarie, era cresciuta la
necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male
accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti che avevano prevenuto
o troppo ardentemente o troppo servilmente secondato i primi moti dei
Franzesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose.
Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni di Italia, in cui
uomini prudenti per la necessità dei tempi vennero partecipando delle
faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti
ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da
quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro.
Tra costoro non tutti pensavano alla stessa maniera; perciocchè alcuni
amavano i governi spezzati, altri desideravano l'unità d'Italia: fra
i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani;
i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente
operavano, i secondi più nascostamente, ed i Franzesi chiamavanli la
lega nera, e di essa i capi dell'esercito avevano più paura che del
nemico.
Quanto al reggimento interno di ciascuna parte o di tutta Italia,
amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la
volevano ridurre al patriziato, instituito con la moderazione della
potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico all'Italia.
A questo consiglio si opponevano le operazioni disordinate dell'armi,
l'assurdo capriccio de' Franzesi di quei tempi di voler applicare il
modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà
di Buonaparte, finalmente gl'Italiani servili imitatori delle cose
d'oltremonti ed incapricciti ancor essi de' governi geometrici. Ma
quegli altri confidavano che la società si sarebbe fermata al governo
patrizio misto di democrazia.
Questi sentimenti principalmente sorgevano nell'Emilia, e più
particolarmente in Bologna, ma non potevano impedire che la fazione
democratica, pazza e servile imitatrice di quanto si era fatto in
Francia, non vi producesse una grande inondazione. Nè essa operava
da sè, quantunque ne avesse voglia, ma suscitata a bella posta dagli
agenti di Buonaparte e dal direttorio. Il duca di Modena solo e
senza amici, e, quel che era peggio, ricco o in voce di essere, si
trovava esposto ai tentativi di questi uomini fanatici e sfrenati; nè
rimaneva, per la forza delle opinioni e degli esempi che correvano,
fedele disposizione ne' popoli. Furono le prime mosse date da Reggio,
città scontenta, per le emulazioni con Modena, del governo del duca.
La notte del 25 agosto vi si levarono improvvisamente a romore i
partigiani della democrazia. Era il presidio debole, i magistrati
timidi, l'infezione grande. Laonde, senza resistenza alcuna crescendo
il tumulto, in poco d'ora fu piena la città di lumi, di canti
repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar continuo
di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le
tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale
governo: i soldati del duca, impotenti al resistere, se ne tornarono
di queto a Modena. Si accostarono ai primi motori uomini riputati per
ricchezze e per dottrina per dar norma a quell'impeto disordinato.
Condotto a fine il moto, crearono un reggimento temporaneo con torma
repubblicana, moderarono l'autorità del senato, instituirono magistrati
popolari, descrissero cittadini per la milizia. Questi erano i disegni
interni. Ma, desiderando di rendere partecipi i vicini di quanto
avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in Lunigiana ed
in Garfagnana, acciocchè, parlando e predicando, muovessero a novità.
Inviarono Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi Milanesi.
L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a
sè stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare
con segrete insinuazioni e con incentivi palesi quella città. Tanto
operarono, che già una banda di novatori, portando con sè non so che
albero, il volevano piantare in piazza; gridavano accorruomo e libertà.
Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare
innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza
qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie a'
Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran
parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze de' comuni.
Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non
voleva che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello
che le reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un
manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca: non avere pagato
ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano
dagli Stati; lasciare interi gli aggravii di guerra ai sudditi, nè
volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della
repubblica; incitare i sudditi con perniciose arti e per mezzo di genti
contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli Austriaci.
Dichiarava pertanto non meritare il duca più alcun favore dalla
Francia; essere annullati i patti della tregua; l'esercito italico
ricoverare sotto l'ombra sua, e ricevere in protezione i popoli di
Modena e di Reggio; chiunque offendesse le proprietà ed i diritti de'
Modenesi e de' Reggiani sarebbe riputato nemico di Francia. Buonaparte
non era uomo da minacciare con le parole prima che eseguisse coi
fatti. E però, non ancora comparso il manifesto, già i suoi soldati
s'impadronivano del ducato. Due mila entravano in Modena, prendevano la
fortezza, sconficcavano le case, cacciavano i soldati, afferravano le
insegne, chiamavano i popoli a libertà. Al medesimo tempo occupavano
Sassuolo, Magnano ed altre terre del dominio ducale, facendo variare
lo Stato e ponendo mano in tutto che al pubblico si appartenesse. Pure
le allegrezze furono molte; piantossi l'albero, cantossi, ballossi;
furonvi conviti, teatri, luminarie. Fatte le allegrezze, si venne alle
riforme: annullaronsi i magistrati vecchi, crearonsi i nuovi, giurossi
alla repubblica di Francia; dello stato politico si aspettavano i
comandamenti di Buonaparte.
Or si torni alle cose di Bologna, che non era vacua nè di sospetti
nè di fatiche. Aveva il senato fatto, per conservarsi lo stato,
quanto pei tempi abbisognava, cattivatosi il generale repubblicano,
fatto restituir Castelbolognese, promesso riforme. Ma l'aristocrazia
era odiosa ai più ardenti instigatori, la democrazia trionfava.
Perlochè voci subdole si spargevano contro gli aristocratici; li
chiamavano tirannelli; il popolo sempre era di mezzo, e lo dicevano
sovrano. Imperversavano gridando che, scacciato quel tiranno del
papa, così lo chiamavano, era mestiero scacciare anche que' tiranni
de' senatori, e tutto dare in balìa del popolo sovrano; il popolo
adombrava, perchè non sapeva che cosa tutto questo si volesse
significare; i capi repubblicani volevano consuonare con Modena e
con Reggio. Vide il senato il tempo tempestoso per le condizioni
tanto perturbate del paese, e volle rimediarvi con dare speranze
di riforme, non accorgendosi che se il resistere alla piena era
impossibile, il secondarla era insufficiente. Pubblicava si creasse
una congregazione d'uomini dotti e probi, affinchè proponessero un
modello di costituzione consentanea ai tempi, ma conforme a quel
modo di reggimento che sussisteva in Bologna prima della signoria
de' pontefici. Non parve compito il disegno, perchè quell'antica
forma non piaceva, ed i nominati della congregazione si tacciavano
d'aristocrazia. La verità era, che niuna forma buona, se non la
democratica, pareva a coloro che menavano più romore. Compariva intanto
il modello della costituzione tutto democratico e, secondo il solito,
levato di peso dalla costituzione franzese, ma contenente altre parti:
si abolisse la tortura, si moderassero le pene, si abbreviassero i
processi.
Adunaronsi i comizii nella chiesa di San Petronio; il fine era di
accettare o rifiutare la costituzione. Per voti concordi nominarono
presidente Aldini avvocato raccolto il partito, trovossi avere
squittinato quattro cento ottantaquattro; quattro cento trentaquattro
pel sì, cinquanta pel no. Bandì il presidente, il popolo bolognese
avere accettata la costituzione. Intuonossi l'ambrosiano canto, al
tempo stesso udissi un suonar di campane, un dar nei tamburi, una
musica guerriera, un cantar repubblicano per tutta Bologna. Godeva il
popolo; la notte fuochi artificiali, luminarie, teatri, e quanto si usa
fare dai popoli nelle grandi allegrezze.
Nè con minore caldezza procedevano le faccende in Ferrara. Vi si
creavano i magistrati popolari; vi si bandiva la repubblica. Mandavano
deputati a Buonaparte per ringraziarlo, ai Milanesi per affratellarsi;
tutta l'Emilia commossa.
In questo mentre arrivava Buonaparte a Modena. Concorrevano in folla
i popoli per vederlo, Ferraresi, Bolognesi, massime Reggiani, che in
questi moti con maggiore ardenza camminavano. La sua presenza in Modena
fruttava altro che parole. Chiamati a sè i primi, fece loro intendere,
con un'arte esortatoria che era in lui molto efficace, si unisse tutta
l'Emilia in una sola repubblica, e si facesse forte sull'armi. Questi
consigli trovavano disposizioni conformi in popoli esaltati. Però si
adunavano, il dì 16 ottobre, in Modena ventiquattro deputati per parte
di Ferrara, venti per Modena, venti per Reggio. Decretava il consesso,
tutta l'Emilia in una sola repubblica sotto protezione della Francia
si unisse; la nobiltà feudataria si abolisse; fossero salve e sicure
a tutti i pacifici uomini le proprietà; un magistrato si creasse
che avesse carico di levare, ordinare, armare quattro mila soldati a
difesa comune; un altro congresso di tutta l'Emilia si tenesse il dì
27 dicembre; questo secondo congresso statuisse la costituzione che
avesse a reggere la nuova repubblica. Questo muoversi dei Cispadani
all'armi molto piaceva a Buonaparte, perchè serviva di esempio ai
Milanesi, che la medesima volontà non dimostravano. In fatti questi
ultimi, per non parer da meno, offerirono dodici mila soldati. Già si
dava opera a Milano ad ordinare la legione lombarda, in cui entrarono