Annali d'Italia, vol. 8 - 38
non solo la ruina del suo Stato temporale, ma ancora novità perniciose
alla religione, specialmente se come nemici allo Stato pontificio si
accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna
a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse
a Milano e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano
terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente
trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che
dal pontefice gli era raccomandato. Furono dal generale umanamente
uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloqui segreti di molti
gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla
superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà
statuita, già com'è noto da ognuno, fin dai tempi della lega lombarda,
e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi
si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai
popoli di quel territorio: Buonaparte, che sel sapeva, promise ogni
cosa e più di quanto i deputati avevano domandato; sì che partironsi
molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto
le sue genti marciarono. Comparivano il 18 giugno in bella mostra
e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di
Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da
Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e, schieratasi avanti
il palazzo pubblico, faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il
cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in
quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo
dei Franzesi e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che
attendesse quietamente ai negozii; comandava che rispettassero i
soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi
con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno
la retroguardia; arrivavano alla notte Saliceti e Buonaparte.
Era Bologna stata spogliata del dominio di Castelbolognese, terra
grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi
desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia; nè alla
ricongiunzione ripugnavano i castellani medesimi. Buonaparte, informato
dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva
il possesso di Castelbolognese, ed aboliva ogni autorità del papa,
reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed
indipendente. Nè ponendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti
legato se ne partisse immantinente da Bologna. Indi, chiamato a sè il
senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che,
essendo informato delle antiche prerogative e privilegii della città
e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come
erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della
sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità
sovrana al senato intiera e piena ritornasse; darebbe poi a Bologna,
dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al
popolo piacesse, e più all'antica si rassomigliasse: prestasse intanto
il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica
di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità
esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo
giuramento in cospetto del senato giurassero.
Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur
un particolare seggio, riceveva Buonaparte il giuramento de' senatori;
quindi si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di
Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici: il che fece in tutta
Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova e con qualche
speranza, grata al senato, perchè da servo si persuadeva d'esser
divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il
papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.
Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro.
Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano
i popoli, pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene
che i soldati vivano del paese che hanno; solo si sdegnavano dello
scialacquo, nè potevano tollerare di dar materia ai depredatori, chè i
soldati e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come
a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto
che si portava alle proprietà. Imperciocchè, poste violentemente
le mani nel monte di pietà, lo espilavano per far provvisione,
come affermavano, allo esercito. Solo restituirono i pegni che non
eccedevano la somma di lire ducento. Ma, temendo gli autori di tanto
scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da
tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si
togliessero l'armi ai cittadini.
I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto
prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni,
il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio,
finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli
ambasciadore di Bologna. Creato dà vincitori a Ferrara un municipio
d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione
di scudi romani in contanti e di trecento mila in generi. Queste
angherie sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara;
ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza
da Imola; perchè, concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro
i conquistatori, si sollevarono gridando guerra contro i Franzesi.
Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e
fecero una massa di popolo molto concitata e risoluta al combattere.
Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa
squadra di cavalli e di fanti. Comandava intanto pubblicamente avessero
i Lughesi a deporre l'armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol
facesse fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti,
ministro di Spagna, interposta sua mediazione; ma fu sdegnosamente
rifiutata da que' popoli più confidenti di quanto fosse il dovere in
armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire per
la ostinazione loro al cimento dell'armi, i Franzesi si avvicinavano
a Lugo partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla
parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che
marciava con troppa sicurezza, diede in un'imboscata, in cui restarono
morti alcuni soldati. Nonostante, volendo il capitano franzese lasciar
l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per
trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narra
anzi Buonaparte che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che
si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione de' messaggi di
pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Franzesi ed i
sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto
valore. Finalmente i Lughesi, rotti e dispersi, furono tagliati a
pezzi, con morte d'un migliaio di loro, avendo anche perduto la vita in
questa fazione ducento Franzesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte
in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a
sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato. Furono terribili le pene date dai
repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che
seguitarono. Comandava Augereau che tutti i comuni si disarmassero e le
armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore
fosse ucciso; ogni città o villaggio dove restasse ucciso un Franzese
fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Franzese fosse
ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso;
chi facesse adunanze di gente armata o disarmata fosse ucciso.
Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto ne' feudi imperiali prossimi
al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Franzesi.
Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il
rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale
Lannes con un buon nerbo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì
Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce e pel
terrore de' supplizii.
Le vittorie de' repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia,
l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo
spavento Roma. Ognuno vedeva che resistere era impossibile, e
l'accordare pareva contrario non solo allo Stato, ma ancora alla
religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si
poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni che
un vincitore acerbo per sè, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe
dal pontefice richiesto.
Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore de' suoi consiglieri e del
popolo serbava tuttavia la solita costanza, avea commesso al cavaliere
Azara ed al marchese Gnudi andassero a rappresentarsi a Buonaparte e
procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo
loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte,
in nome e per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo
ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà perchè non
gli era nascosto che l'imperadore, finchè teneva Mantova, non avrebbe
omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi Stati in
Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo
verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni,
a frenar l'impeto delle sue armi contro lo Stato pontificio. Laonde
concludeva il dì 23 giugno una tregua coi due plenipotenziarii del
papa, in cui fu stipulato che il generalissimo di Francia e i due
commissarii del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio
che il governo franzese aveva verso sua maestà il re di Spagna,
concedevano a sua santità una tregua da durare infino a cinque giorni
dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in
Parigi fra i due Stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un
plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse, a
nome del pontefice, gli oltraggi e i danni fatti a' Franzesi negli
Stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i
debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione
di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i
nemici della repubblica si chiudessero, ai Franzesi si aprissero;
l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di
Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona
con tutte le artiglierie, munizioni e vettovaglie si consegnasse
a' Franzesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il
papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue, ad elezione
de' commissarii che sarebbero mandati a Roma; specialmente i busti
di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre
a questo, cinquecento manoscritti, ad elezione pure de' commissarii
medesimi, cedessero in podestà della repubblica; pagasse il papa ventun
milioni di lire tornesi, de' quali quindici milioni e cinque cento
mila in oro od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinque
cento mila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni
suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre
legazioni; il papa desse il passo ai Franzesi ogni qual volta che ne
fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.
Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra
Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto
gravi, parve nondimeno un gran fatto che si fosse potuto distornar
da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la
conservata città. Intanto non lieve difficoltà si incontrava per mandar
ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già
tanto consumato dalla guerra, sopperire, faceva il papa richiesta degli
ori e degli argenti sì delle chiese come dei particolari, e quanto si
potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo che infino
dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Santangelo,
fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di
Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi Stati, aveva ritirato
sette mila scudi di camera che erano depositati nel tesoro pontificio,
come rapresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica
non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare
al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta di denaro coniato
produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e
dei privati, il quale, fu che le cedole, che già molto scapitavano,
perdettero viemmaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo
romore di guerra e sul bel principio d'una speranza di pace, le cose
pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si provavano gli
estremi d'una guerra lunga e disastrosa.
La presenza dei Franzesi negli Stati pontificii aveva bensì atterrito
i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto
nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa, esortato dal generale
repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava
con pubblico manifesto e comandava ai sudditi, trattassero con tutta
benignità i Franzesi, come richiedevano i precetti della religione, le
leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli e la volontà espressa del
sovrano.
Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello Stato.
Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace
definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di
conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione
di risorgere, si inviava dal pontefice a Parigi l'abate Pieracchi con
mandato di negoziare e di stipulare la pace.
Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie
dei repubblicani sul Po e sull'Adda, ma alla ansietà succedeva il
terrore quando vi si intese la rotta totale dei Tedeschi e la loro
ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave quando i
soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè, nulla più ostando
che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto
all'invasione. Laonde il re, volendo provvedere con estremi sforzi ad
estremi pericoli, perchè, o fosse solo o dovesse secondare le armi
imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che
trenta mila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo Stato
ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tanta gente
con altre squadre d'uomini armati, comandava che si tenessero pronte
a marciare e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si
ordinassero tutte le persone abili alle armi, la qual massa avrebbe
aggiunto quaranta mila combattenti. Perchè poi si usassero coloro che
consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno,
dava loro privilegii e speranza di ricompense onorevoli. Volendo
poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze
temporali, scriveva ai vescovi ed ai potentati del regno lettere
circolari, con cui gli ammoniva e con parole patetiche gli esortava
dicendo, che la guerra, che già da tanto tempo desolava l'Europa, e
nella quale già tanto sangue e tante lagrime si erano sparse, era non
solamente guerra di Stato, ma di religione; che i nemici di Napoli
erano nemici del cristianesimo; e, così proseguendo, esortassero
adunque, conchiudeva, i popoli ad impugnar le armi contro un nemico
a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita
rispettata, niuna religione santa; contro un nemico che, dovunque
arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i tempi,
atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di
più sacro e più reverendo ha ne' suoi dogmi, ne' suoi precetti e ne'
suoi sacramenti divini lasciato alla Chiesa sua Cristo Salvatore.
Così parlava il re ai vescovi ed ai prelati del regno. Rivolgendosi
poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva,
dicendo, sarebbero vincitori di questa guerra se a loro stesse a cuore
difendere sè stessi, il re, i tempi, i ministri del Signore, le mogli,
i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, esclamava, Dio vi proteggerà
contro le armi barbare.
Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore
della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno
prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine
di popolo, alla basilica, dove, toccando gli altari e stando tutti tra
la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, con fervorose
parole orando, depose sulla sacra mensa le reali divise, come in
custodia del sommo Iddio.
Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in quel popolo.
Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare quanto
erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti
notabilissimi a salute di tutta Italia.
Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli
alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora e di
Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati.
Intanto il rumore delle occupate legazioni e le ultime strette in
cui era caduto il pontefice avevano indotto nei consiglieri del re la
credenza che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlocchè
non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè
consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con
lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli,
affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo
poscia a Parigi a concluder la pace col Direttorio. Buonaparte, fatte
sue considerazioni su Mantova che ancor si teneva, e sulla stagione
calda che oggimai si avvicinava, udiva con benigne orecchie le proposte
del principe. Il 5 di giugno si concluse tra il generale e lui un
trattato di tregua, con cui si stipulava che cessassero le ostilità
tra la repubblica ed il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane,
che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero
e gissero alle stanze nei territorii di Brescia, Crema e Bergamo; si
sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più
presto dalle armate inglesi si segregassero; si desse libero passo ai
corrieri respettivi tanto per le terre proprie e conquistate dalla
repubblica quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i
Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa
fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè
aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo,
senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco
innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio.
In questo mezzo tempo si spogliavano dall'accorto vincitore di statue,
di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia
naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna e Roma. A questo fine aveva
mandato il Direttorio in Italia per commissarii Tinette, Barthelemi,
Moitte, così Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla
stima ed allo spoglio; dal quale ufficio, così poco onorevole per
la patria loro, non si sa come, benchè l'abbiano temperato con molta
moderazione, non rifugisse al tutto l'animo loro.
Si avvicinavano intanto i tempi dei rei disegni del Direttorio contro
l'innocente Toscana. Intendevasi, col comparire armati in questa
provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli.
Ma i principali fini loro in ciò consistevano che si cacciassero
gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si
ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro
gl'Inglesi che la possedevano; ingegnandosi poi d'onestare il fatto col
pretesto che gl'Inglesi tanto potessero in Livorno, che il granduca più
non avesse forza bastante per frenargli, e dovere la repubblica con le
sue forze andare a liberarlo da tale tirannide.
Per la qual cosa, come prima ebbe il generalissimo posto piede
in Bologna e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la
risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupare
Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere
maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il granduca,
mandava a Bologna il marchese Manfredini ed il principe Tommaso
Corsini, perchè facessero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno
da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di
Pistoia che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale
repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè
non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il
sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era
arrivato con parte dell'esercito a Pistoia. Dal qual suo alloggiamento
manifestava, il 26 di giugno, le querele della repubblica contro il
granduca e la sua risoluzione di correre contro Livorno.
Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente
offesa alcuna contro la repubblica di Francia o contro i Franzesi:
l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso
dal Direttorio; non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più
vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione; avere
dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni
dell'ingresso.
Marciavano intanto i Franzesi celeremente verso Livorno condotti dal
generale Murat, comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una
banda di cavalli alla Port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso
del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno,
trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel
porto, tutte le proprietà loro: poi, quando i repubblicani arrivavano
sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti
tra piccoli e grossi e sotto scorta di alcune fregate, salpava da
Livorno verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed
aspetto militare i Franzesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo,
contento all'avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati
Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla
Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per
voglia, ma per ordine e per paura.
Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le napolitane
sostanze, si confiscavano le inglesi, le austriache, le russe:
s'investigavano i livornesi conti per iscoprirle: si disarmavano i
popoli, si occupavano le fortezze, e, per far colme le insolenze, si
arrestava Spanocchi, governatore pel granduca. Si scuotevano al tempo
stesso fortemente i negozianti affinchè svelassero le proprietà dei
nemici, ed eglino, per lo men reo partito, offerirono cinque milioni
di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi e
da coloro che stavano sopra alla vendita con grande discapito della
repubblica conquistatrice che vinceva i soldati altrui e non poteva
vincere i ladri propri.
Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano
al granduca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al
Direttorio, di torgli lo Stato, a cagione ch'egli era principe di casa
austriaca; e perchè il tradimento avesse in sè tutte le parti di un
atto vituperoso, mandava pur al Direttorio, che conveniva starsene
quietamente nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa sino
a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Mentre in tal
modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in
Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto ed impedivano
il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo
povero e servo.
Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè, usando l'opportunità,
invasero i ducati di Massa e Carrara ed occuparono tutta la Lunigiana,
chiamando i popoli a libertà e sforzandogli a grosse contribuzioni
di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che
li possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena sposata
all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di
San Romano, quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa
e Carrara; per questo il generale della repubblica li trattò da nemico.
Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma,
parendo a chi le reggeva che ciò non bastasse a perfetto servaggio,
stavano attenti i ministri del Direttorio presso i diversi potentati
italiani nello spiare e nel rapportare il vero ed il falso a
Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola
non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori
indefessi di cose nuove contro i Franzesi; nel che avevano per
aiutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di
nome, offuscati il lume della ragione dalla gloria guerriera del
generalissimo della repubblica.
Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano
corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderii
delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale che se non amava il suo
male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi
spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il granduca di
Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia,
tutti s'intendevano coll'Austria, tutti prezzolavano gli assassini
per uccidere i Franzesi. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi
spaventare da questi rapporti, fatti o per adulazione o per paura,
era uomo da valersene come di pretesto per peggiorar le condizioni
dei principi vinti e per giustificare contro di loro i suoi disegni.
Gl'Italiani intanto, in preda a mali presenti e segno a calunnie
facili, perchè venivano da chi più poteva, non avevano più speranza.
Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la
condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa.
Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche
sue provincie, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi
dominii. Aveva egli adunque applicato l'animo a voler ricuperare il
Milanese; nè indugiandosi punto affinchè l'imperio de' suoi nemici
non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non
cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che
stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente
armigera e devota al nome austriaco, fatta una subita presa d'armi, si
ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla
difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio: conciossiachè
l'imperatore ordinava che trenta mila soldati, gente eletta e veterana
che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il
Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia e le
altre sopraddette; erano circa cinquanta mila. Perchè poi ad un'oste
tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa non mancasse
un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla
il maresciallo Wurmser, guerriero di provato valore nelle guerre
germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che
fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra,
dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto
e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la
costanza tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio franzese
aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo se erano ingrossati
gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili
dall'Alpi.
Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e
tosto dava opera al compire l'impresa alla virtù sua stata commessa,
scendendo in Italia per la strada più agevole che da Bolzano per Trento
e Roveredo porta a Verona; ma il principal suo fine era di liberar
Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso, potesse o starsene
aspettando o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che
i Franzesi erano segregati in diversi corpi, gli uni separati dagli
altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero
alla religione, specialmente se come nemici allo Stato pontificio si
accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna
a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse
a Milano e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano
terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente
trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che
dal pontefice gli era raccomandato. Furono dal generale umanamente
uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloqui segreti di molti
gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla
superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà
statuita, già com'è noto da ognuno, fin dai tempi della lega lombarda,
e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi
si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai
popoli di quel territorio: Buonaparte, che sel sapeva, promise ogni
cosa e più di quanto i deputati avevano domandato; sì che partironsi
molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto
le sue genti marciarono. Comparivano il 18 giugno in bella mostra
e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di
Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da
Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e, schieratasi avanti
il palazzo pubblico, faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il
cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in
quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo
dei Franzesi e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che
attendesse quietamente ai negozii; comandava che rispettassero i
soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi
con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno
la retroguardia; arrivavano alla notte Saliceti e Buonaparte.
Era Bologna stata spogliata del dominio di Castelbolognese, terra
grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi
desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia; nè alla
ricongiunzione ripugnavano i castellani medesimi. Buonaparte, informato
dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva
il possesso di Castelbolognese, ed aboliva ogni autorità del papa,
reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed
indipendente. Nè ponendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti
legato se ne partisse immantinente da Bologna. Indi, chiamato a sè il
senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che,
essendo informato delle antiche prerogative e privilegii della città
e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come
erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della
sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità
sovrana al senato intiera e piena ritornasse; darebbe poi a Bologna,
dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al
popolo piacesse, e più all'antica si rassomigliasse: prestasse intanto
il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica
di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità
esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo
giuramento in cospetto del senato giurassero.
Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur
un particolare seggio, riceveva Buonaparte il giuramento de' senatori;
quindi si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di
Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici: il che fece in tutta
Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova e con qualche
speranza, grata al senato, perchè da servo si persuadeva d'esser
divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il
papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.
Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro.
Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano
i popoli, pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene
che i soldati vivano del paese che hanno; solo si sdegnavano dello
scialacquo, nè potevano tollerare di dar materia ai depredatori, chè i
soldati e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come
a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto
che si portava alle proprietà. Imperciocchè, poste violentemente
le mani nel monte di pietà, lo espilavano per far provvisione,
come affermavano, allo esercito. Solo restituirono i pegni che non
eccedevano la somma di lire ducento. Ma, temendo gli autori di tanto
scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da
tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si
togliessero l'armi ai cittadini.
I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto
prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni,
il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio,
finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli
ambasciadore di Bologna. Creato dà vincitori a Ferrara un municipio
d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione
di scudi romani in contanti e di trecento mila in generi. Queste
angherie sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara;
ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza
da Imola; perchè, concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro
i conquistatori, si sollevarono gridando guerra contro i Franzesi.
Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e
fecero una massa di popolo molto concitata e risoluta al combattere.
Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa
squadra di cavalli e di fanti. Comandava intanto pubblicamente avessero
i Lughesi a deporre l'armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol
facesse fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti,
ministro di Spagna, interposta sua mediazione; ma fu sdegnosamente
rifiutata da que' popoli più confidenti di quanto fosse il dovere in
armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire per
la ostinazione loro al cimento dell'armi, i Franzesi si avvicinavano
a Lugo partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla
parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che
marciava con troppa sicurezza, diede in un'imboscata, in cui restarono
morti alcuni soldati. Nonostante, volendo il capitano franzese lasciar
l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per
trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narra
anzi Buonaparte che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che
si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione de' messaggi di
pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Franzesi ed i
sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto
valore. Finalmente i Lughesi, rotti e dispersi, furono tagliati a
pezzi, con morte d'un migliaio di loro, avendo anche perduto la vita in
questa fazione ducento Franzesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte
in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a
sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato. Furono terribili le pene date dai
repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che
seguitarono. Comandava Augereau che tutti i comuni si disarmassero e le
armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore
fosse ucciso; ogni città o villaggio dove restasse ucciso un Franzese
fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Franzese fosse
ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso;
chi facesse adunanze di gente armata o disarmata fosse ucciso.
Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto ne' feudi imperiali prossimi
al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Franzesi.
Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il
rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale
Lannes con un buon nerbo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì
Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce e pel
terrore de' supplizii.
Le vittorie de' repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia,
l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo
spavento Roma. Ognuno vedeva che resistere era impossibile, e
l'accordare pareva contrario non solo allo Stato, ma ancora alla
religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si
poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni che
un vincitore acerbo per sè, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe
dal pontefice richiesto.
Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore de' suoi consiglieri e del
popolo serbava tuttavia la solita costanza, avea commesso al cavaliere
Azara ed al marchese Gnudi andassero a rappresentarsi a Buonaparte e
procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo
loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte,
in nome e per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo
ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà perchè non
gli era nascosto che l'imperadore, finchè teneva Mantova, non avrebbe
omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi Stati in
Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo
verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni,
a frenar l'impeto delle sue armi contro lo Stato pontificio. Laonde
concludeva il dì 23 giugno una tregua coi due plenipotenziarii del
papa, in cui fu stipulato che il generalissimo di Francia e i due
commissarii del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio
che il governo franzese aveva verso sua maestà il re di Spagna,
concedevano a sua santità una tregua da durare infino a cinque giorni
dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in
Parigi fra i due Stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un
plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse, a
nome del pontefice, gli oltraggi e i danni fatti a' Franzesi negli
Stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i
debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione
di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i
nemici della repubblica si chiudessero, ai Franzesi si aprissero;
l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di
Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona
con tutte le artiglierie, munizioni e vettovaglie si consegnasse
a' Franzesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il
papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue, ad elezione
de' commissarii che sarebbero mandati a Roma; specialmente i busti
di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre
a questo, cinquecento manoscritti, ad elezione pure de' commissarii
medesimi, cedessero in podestà della repubblica; pagasse il papa ventun
milioni di lire tornesi, de' quali quindici milioni e cinque cento
mila in oro od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinque
cento mila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni
suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre
legazioni; il papa desse il passo ai Franzesi ogni qual volta che ne
fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.
Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra
Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto
gravi, parve nondimeno un gran fatto che si fosse potuto distornar
da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la
conservata città. Intanto non lieve difficoltà si incontrava per mandar
ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già
tanto consumato dalla guerra, sopperire, faceva il papa richiesta degli
ori e degli argenti sì delle chiese come dei particolari, e quanto si
potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo che infino
dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Santangelo,
fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di
Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi Stati, aveva ritirato
sette mila scudi di camera che erano depositati nel tesoro pontificio,
come rapresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica
non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare
al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta di denaro coniato
produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e
dei privati, il quale, fu che le cedole, che già molto scapitavano,
perdettero viemmaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo
romore di guerra e sul bel principio d'una speranza di pace, le cose
pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si provavano gli
estremi d'una guerra lunga e disastrosa.
La presenza dei Franzesi negli Stati pontificii aveva bensì atterrito
i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto
nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa, esortato dal generale
repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava
con pubblico manifesto e comandava ai sudditi, trattassero con tutta
benignità i Franzesi, come richiedevano i precetti della religione, le
leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli e la volontà espressa del
sovrano.
Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello Stato.
Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace
definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di
conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione
di risorgere, si inviava dal pontefice a Parigi l'abate Pieracchi con
mandato di negoziare e di stipulare la pace.
Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie
dei repubblicani sul Po e sull'Adda, ma alla ansietà succedeva il
terrore quando vi si intese la rotta totale dei Tedeschi e la loro
ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave quando i
soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè, nulla più ostando
che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto
all'invasione. Laonde il re, volendo provvedere con estremi sforzi ad
estremi pericoli, perchè, o fosse solo o dovesse secondare le armi
imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che
trenta mila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo Stato
ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tanta gente
con altre squadre d'uomini armati, comandava che si tenessero pronte
a marciare e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si
ordinassero tutte le persone abili alle armi, la qual massa avrebbe
aggiunto quaranta mila combattenti. Perchè poi si usassero coloro che
consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno,
dava loro privilegii e speranza di ricompense onorevoli. Volendo
poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze
temporali, scriveva ai vescovi ed ai potentati del regno lettere
circolari, con cui gli ammoniva e con parole patetiche gli esortava
dicendo, che la guerra, che già da tanto tempo desolava l'Europa, e
nella quale già tanto sangue e tante lagrime si erano sparse, era non
solamente guerra di Stato, ma di religione; che i nemici di Napoli
erano nemici del cristianesimo; e, così proseguendo, esortassero
adunque, conchiudeva, i popoli ad impugnar le armi contro un nemico
a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita
rispettata, niuna religione santa; contro un nemico che, dovunque
arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i tempi,
atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di
più sacro e più reverendo ha ne' suoi dogmi, ne' suoi precetti e ne'
suoi sacramenti divini lasciato alla Chiesa sua Cristo Salvatore.
Così parlava il re ai vescovi ed ai prelati del regno. Rivolgendosi
poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva,
dicendo, sarebbero vincitori di questa guerra se a loro stesse a cuore
difendere sè stessi, il re, i tempi, i ministri del Signore, le mogli,
i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, esclamava, Dio vi proteggerà
contro le armi barbare.
Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore
della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno
prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine
di popolo, alla basilica, dove, toccando gli altari e stando tutti tra
la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, con fervorose
parole orando, depose sulla sacra mensa le reali divise, come in
custodia del sommo Iddio.
Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in quel popolo.
Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare quanto
erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti
notabilissimi a salute di tutta Italia.
Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli
alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora e di
Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati.
Intanto il rumore delle occupate legazioni e le ultime strette in
cui era caduto il pontefice avevano indotto nei consiglieri del re la
credenza che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlocchè
non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè
consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con
lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli,
affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo
poscia a Parigi a concluder la pace col Direttorio. Buonaparte, fatte
sue considerazioni su Mantova che ancor si teneva, e sulla stagione
calda che oggimai si avvicinava, udiva con benigne orecchie le proposte
del principe. Il 5 di giugno si concluse tra il generale e lui un
trattato di tregua, con cui si stipulava che cessassero le ostilità
tra la repubblica ed il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane,
che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero
e gissero alle stanze nei territorii di Brescia, Crema e Bergamo; si
sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più
presto dalle armate inglesi si segregassero; si desse libero passo ai
corrieri respettivi tanto per le terre proprie e conquistate dalla
repubblica quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i
Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa
fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè
aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo,
senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco
innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio.
In questo mezzo tempo si spogliavano dall'accorto vincitore di statue,
di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia
naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna e Roma. A questo fine aveva
mandato il Direttorio in Italia per commissarii Tinette, Barthelemi,
Moitte, così Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla
stima ed allo spoglio; dal quale ufficio, così poco onorevole per
la patria loro, non si sa come, benchè l'abbiano temperato con molta
moderazione, non rifugisse al tutto l'animo loro.
Si avvicinavano intanto i tempi dei rei disegni del Direttorio contro
l'innocente Toscana. Intendevasi, col comparire armati in questa
provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli.
Ma i principali fini loro in ciò consistevano che si cacciassero
gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si
ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro
gl'Inglesi che la possedevano; ingegnandosi poi d'onestare il fatto col
pretesto che gl'Inglesi tanto potessero in Livorno, che il granduca più
non avesse forza bastante per frenargli, e dovere la repubblica con le
sue forze andare a liberarlo da tale tirannide.
Per la qual cosa, come prima ebbe il generalissimo posto piede
in Bologna e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la
risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupare
Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere
maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il granduca,
mandava a Bologna il marchese Manfredini ed il principe Tommaso
Corsini, perchè facessero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno
da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di
Pistoia che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale
repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè
non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il
sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era
arrivato con parte dell'esercito a Pistoia. Dal qual suo alloggiamento
manifestava, il 26 di giugno, le querele della repubblica contro il
granduca e la sua risoluzione di correre contro Livorno.
Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente
offesa alcuna contro la repubblica di Francia o contro i Franzesi:
l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso
dal Direttorio; non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più
vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione; avere
dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni
dell'ingresso.
Marciavano intanto i Franzesi celeremente verso Livorno condotti dal
generale Murat, comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una
banda di cavalli alla Port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso
del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno,
trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel
porto, tutte le proprietà loro: poi, quando i repubblicani arrivavano
sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti
tra piccoli e grossi e sotto scorta di alcune fregate, salpava da
Livorno verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed
aspetto militare i Franzesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo,
contento all'avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati
Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla
Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per
voglia, ma per ordine e per paura.
Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le napolitane
sostanze, si confiscavano le inglesi, le austriache, le russe:
s'investigavano i livornesi conti per iscoprirle: si disarmavano i
popoli, si occupavano le fortezze, e, per far colme le insolenze, si
arrestava Spanocchi, governatore pel granduca. Si scuotevano al tempo
stesso fortemente i negozianti affinchè svelassero le proprietà dei
nemici, ed eglino, per lo men reo partito, offerirono cinque milioni
di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi e
da coloro che stavano sopra alla vendita con grande discapito della
repubblica conquistatrice che vinceva i soldati altrui e non poteva
vincere i ladri propri.
Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano
al granduca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al
Direttorio, di torgli lo Stato, a cagione ch'egli era principe di casa
austriaca; e perchè il tradimento avesse in sè tutte le parti di un
atto vituperoso, mandava pur al Direttorio, che conveniva starsene
quietamente nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa sino
a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Mentre in tal
modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in
Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto ed impedivano
il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo
povero e servo.
Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè, usando l'opportunità,
invasero i ducati di Massa e Carrara ed occuparono tutta la Lunigiana,
chiamando i popoli a libertà e sforzandogli a grosse contribuzioni
di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che
li possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena sposata
all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di
San Romano, quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa
e Carrara; per questo il generale della repubblica li trattò da nemico.
Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma,
parendo a chi le reggeva che ciò non bastasse a perfetto servaggio,
stavano attenti i ministri del Direttorio presso i diversi potentati
italiani nello spiare e nel rapportare il vero ed il falso a
Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola
non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori
indefessi di cose nuove contro i Franzesi; nel che avevano per
aiutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di
nome, offuscati il lume della ragione dalla gloria guerriera del
generalissimo della repubblica.
Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano
corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderii
delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale che se non amava il suo
male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi
spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il granduca di
Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia,
tutti s'intendevano coll'Austria, tutti prezzolavano gli assassini
per uccidere i Franzesi. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi
spaventare da questi rapporti, fatti o per adulazione o per paura,
era uomo da valersene come di pretesto per peggiorar le condizioni
dei principi vinti e per giustificare contro di loro i suoi disegni.
Gl'Italiani intanto, in preda a mali presenti e segno a calunnie
facili, perchè venivano da chi più poteva, non avevano più speranza.
Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la
condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa.
Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche
sue provincie, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi
dominii. Aveva egli adunque applicato l'animo a voler ricuperare il
Milanese; nè indugiandosi punto affinchè l'imperio de' suoi nemici
non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non
cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che
stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente
armigera e devota al nome austriaco, fatta una subita presa d'armi, si
ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla
difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio: conciossiachè
l'imperatore ordinava che trenta mila soldati, gente eletta e veterana
che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il
Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia e le
altre sopraddette; erano circa cinquanta mila. Perchè poi ad un'oste
tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa non mancasse
un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla
il maresciallo Wurmser, guerriero di provato valore nelle guerre
germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che
fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra,
dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto
e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la
costanza tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio franzese
aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo se erano ingrossati
gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili
dall'Alpi.
Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e
tosto dava opera al compire l'impresa alla virtù sua stata commessa,
scendendo in Italia per la strada più agevole che da Bolzano per Trento
e Roveredo porta a Verona; ma il principal suo fine era di liberar
Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso, potesse o starsene
aspettando o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che
i Franzesi erano segregati in diversi corpi, gli uni separati dagli
altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero
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