Annali d'Italia, vol. 8 - 37
Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia non già perchè
vi si temessero dai più i Franzesi, avendo la rabbia tolto il lume
dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano che quella furia,
per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio
della misera città. Così passarono le due notti dai 23 ai 25; ma già si
avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la
moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si
credeva sicura della vittoria. Era giunto il 25 maggio, quando udissi
improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da
presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche
gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco.
Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto
a Lodi, con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto
Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco
e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza,
perchè questi incendii più presto si spandono che non si estinguono,
tornossene subitamente indietro, conducendo con sè una squadra eletta
di cavalli ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in
Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato
ostinazione uguale alla rabbia, o forse, volendo risparmiare il
sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo
di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole
procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto,
applicando l'animo a far sicuro colla forza quello che le esortazioni
non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati e li
teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già
incontrati per via i Binaschesi, facilmente li rompevano, facendone
una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da
diverse bande il fuoco, l'arsero tutto.
Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e, fattosi al balcone
del municipale palazzo, orava istantemente alle genti che si erano
affollate per ascoltarlo. Con grande ardore parlava, desiderosissimo
di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce
inganno che le persuasive parole. Gridarono non doversi dar orecchio
all'arcivescovo, esser dedito ai Franzesi, esser giacobino; e così
su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben
prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra;
le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare aiuti
estranei era vano, e che i Franzesi giù stavano loro addosso, chiusero
ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura d'armi
e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte ed
atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime
una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti
disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e
ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i
contadini alla campagna; si nascondevano i cittadini per le case.
Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse; aspettava Pavia
l'ultimo eccidio.
Entrava la cavalleria della repubblica, correva precipitosamente,
trucidava quanti ne incontrava: cento sollevati in questo primo
abbattimento perirono. Entrava per la milanese porta Buonaparte,
e postovisi accanto con le artiglierie volte contro la contrada
principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei
cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestio
dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere
dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo
spaventevole e miserando; ma se periva chi andava per le vie, non era
salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco; dava
Pavia in preda ai soldati.
Non ci fermeremo a narrare il tenore di questa tremenda esecuzione.
Nel giorno 23, nella susseguente notte, nel dì 24, le soldatesche,
avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni, non si
ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora
nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone;
e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed
oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Tal era l'universale dei
soldati; ma non sono da dimenticare i pietosi ufficii fatti da molti
soldati franzesi in mezzo alla confusione sì fiera e sì orribile. Non
pochi furono visti che, abborrendo dalla licenza data da Buonaparte,
serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare, altri, più oltre
procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini ed
alle miserande donne, chiamati a preda od a vituperio dai compagni
loro; sì che sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì
strana contesa, pietosa ad un tempo e scellerata. Quali si affaticavano
per rinsensare le donne svenute, e riconfortarle; quali anche, vinti
dalla compassione, tornavano indietro a far la restituzione delle
rapite suppellettili. Nè si dee passare sotto silenzio che se si
fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano al
sangue. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle
case dell'università, che pur avevano molti capi di pregio anche per
soldati. Questo benigno riguardo si ebbe per comandamento dei capi.
Più mirabile fu ancora la temperanza de' capitani subalterni, ed anche
dei gregarii medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani
e di altri professori di grido, si astennero, o pregati leggiermente
od anche non pregati, dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente
il nome di scienza e di virtù anche negli uomini dati all'armi ed al
sangue.
Finalmente il mezzodì del giorno 26, siccome era stato ordinato da
Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva
fatto, non incrudelì di soverchio contro i presi colle armi in mano
ancora grondanti di sangue franzese: uno solo fu fatto passare per
l'armi in sul primo fervore in Pavia; poi altri tre, che, portati
all'ospedale, già vi stavano, per le ferite avute, col mal di morte.
Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni,
ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro e fuoco
avrebbe.
Buonaparte, passato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi
pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni
sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che, essendo padrone dei
ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso
sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica
veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi
territorii, doveva tra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi
l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni
cosa presagiva aver a riuscir ostinate e micidiali. Vedeva il senato
che la terra ferma, quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe
presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva che i Franzesi si erano
risoluti d'andar ad assalire il loro nemico dovunque il trovassero, e
che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e
l'altra per primo pensiero di procacciarsi i proprii vantaggi anche a
pregiudizio della neutralità veneziana.
Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di
Bergamo d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui
confini, e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave; ma le
instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava ed
i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle
consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando
il senato che in un caso di tanta, anzi di totale importanza le cose
di terraferma fossero rette con unità di consigli, aveva tratto a
provveditor generale in essa Nicolò Foscarini, stato ambasciadore
a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma
di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che
diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già
si mostrava pieno di spaventi e di pensieri sinistri. Diessi, come
moderatore a Foscarini, il conte Rocco Sanfermo, con quale prudenza
non si vede, perchè Sanfermo parteggiava piuttosto pei Franzesi, ed
era in cattivo concetto presso i Tedeschi per essere stata la sua
casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna
e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave
mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in
Verona vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo
di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero
allegrezze, considerando che la sua presenza avesse pure ad operar
qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi; il senato
medesimo non li conosceva; perchè l'operare in tanta sfrenatezza di
principii politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava
tutta la fortuna dello Stato, che si sarebbe portato rispetto al retto
ed all'onesto, e che un magistrato privo d'armi potesse fare alcun
frutto, era fondamento del tutto vano.
Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero,
per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu ch'egli
volesse, correndo per la sponda occidentale del lago di Garda, occupare
Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada che
dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela,
poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le
sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi, procedendo più oltre,
mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo
lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa
credenza che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra
per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di
mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro
e sulla destra le sue genti indietro per guisa che, invece di star
minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia
lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e
Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.
Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte
giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè
gli Austriaci avevano passato pei territorii veneti, ma non occupato
le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia, il dì 29 maggio,
un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in
animo di attenere; tra le altre cose dicendo: passare i Franzesi per
le terre della veneziana repubblica, ma non essere per dimenticare
l'antica amicizia da cui erano le due repubbliche congiunte; non
dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione,
il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto
fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti informassero di questi
suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse
quell'amicizia che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli
nell'onore, fedeli nella vittoria.
Come Beaulieu ebbe avviso avere i repubblicani occupato Brescia,
pose presidio in Peschiera, fortezza veneziana situata all'origine
dell'emissario del lago di Garda; poichè temeva che Buonaparte non
portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima,
se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del Mincio.
Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al
provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati,
armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in
tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura
del difendersi che del non difendersi, aveva trasandato le domande
del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente
rimproverata da Buonaparte, il quale affermava che se il provveditor
generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a
Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata.
Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta
quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono. Intanto
Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico, si apparecchiava a
mettere ad esecuzione il suo disegno, ch'era di sforzare il passo
del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale austriaco senza
sospetto di ciò, quantunque, per le dimostrazioni del suo avversario,
avesse ritirato parte dello sue genti ai luoghi superiori. Però
aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che
quattro mila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca
del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaia di cavalli
stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna ed a calpestare chi
s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto
al ponte per accorrere in aiuto della vanguardia, ove pericolasse.
Muovevansi improvvisamente, la mattina del 29 maggio, i repubblicani da
Castiglione, Capriana, Volta, e s'indirizzavano al ponte di Borghetto.
Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci, già tante volte
vinti, non si erano perduti d'animo, anzi, valorosamente combattendo,
sostenevano l'impeto dei Franzesi. Restavano superiori sulla prima
giunta, perchè, non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia,
la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, cominciava
a crollare e ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi,
massimamente cavalli ed artiglierie, furono gli Austriaci risospinti,
nè, potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente
da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si
ricoveraron sulla sinistra, guastato un arco del ponte, perchè il
nemico non li potesse seguitare. Ma erano le battaglie dei Franzesi
di quei tempi più che d'uomini. Ed ecco veramente che il generale
Gardanne, postosi a guida d'una mano di soldati coraggiosissimi, si
metteva in fiume, non curando nè la profondità di esso, perciocchè
l'acqua gli arrivava infino a mezzo petto, nè la tempesta delle
palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava ed alla
sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia, il timore occupava gli
Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese,
e fu fatto abilità ai repubblicani non solo di passare a guado,
ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria
compiuta ai Franzesi; e, come l'ebbero, così l'usarono; perchè,
avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo
intieramente e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un
presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte,
che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada
al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro
Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della
fortezza, e corresse a Caslelnuovo ed a Verona. Così, impossibilitati
a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali
sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi
corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che,
poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere
speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi
ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè
il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di
dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra,
s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor
fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa e sostenere
una stretta battaglia tra Villeggio e Villafranca, sulla sponda di un
canale largo e profondo che congiunge le acque del Mincio con quelle
del Tartaro. Infatti, mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu
faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e, per tal modo,
raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo
la notte interrotto la battaglia del canale, verso l'Adige: quindi,
passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo.
Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.
Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da
cui si rende manifesto, che se le armi franzesi di tanto riuscirono
superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore ne' soldati
dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare,
per cui il giovine generale di Francia di sì gran lunga superò il
vecchio generale d'Alemagna.
S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno
che il direttorio e Buonaparte nutriano contro la repubblica di
Venezia, meno forse per odio che per utile: il che per altro è più
odioso. Due erano i principali fini a cui si tendeva: il primo che
l'esercito acquistasse per sè tutti i mezzi di perseguitar l'inimico
e d'impedire il suo ritorno; era il secondo di turbare lo stato
quieto della repubblica veneziana, perchè pel presente si aprissero
le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero
pretesti di disporne a lor grado. All'uno e all'altro fine conduceva
acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono
tre ponti, è padrone del passo dell'Adige, ed è, a chi scende dall'Alpi
Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto
di una piazza tanto principale non poteva farsi da' Franzesi senza un
grande sollevamento d'animi in quelle provincie.
Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indrizzò Buonaparte, dopo la
vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, i suoi pensieri; e però
incominciò a levare un rumore grandissimo e ad imperversare, sclamando
che Venezia, per aver dato ricovero nei suoi Stati al conte di Lilla,
si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare
Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo veneziano
verso di loro. E così, tempestando e moltiplicando ognora più nello
sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in
tratto prorompeva anzi con dire che non sapeva quello che il tenesse
che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto
temeraria che si era creduta capitale dell'impero franzese. Nel che
intemperantemente ed assurdamente alludeva al soggiorno fattovi dal già
detto conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia; soggiorno pel
quale soltanto credettero i Veronesi aver fatto opera pia, dando dentro
le loro mura ricovero ad un principe perseguitato ed infelice.
Quanto al fatto di Peschiera, dal già detto intorno al suo stato
non difendevole, si vede se potessero i Veneziani in un caso tanto
improvviso impedire che i Tedeschi vi entrassero. Bene sapeva egli cosa
vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio,
il dì 7 giugno, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i
Veneziani, avendo solamente domandato il passo per cinquanta soldati,
e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma queste
querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a
Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata
da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il
consenso de' Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia,
conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito
di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto
questa rottura, perchè, se volessero cavar cinque a sei milioni da
Venezia, sì il potessero fare.
Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie
del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo
terrore. E però, per dare al generale repubblicano le convenienti
giustificazioni che dalla sua bocca propria e non da quella di altrui
voleva udire, si mise in viaggio col segretario Sanfermo per andarlo
a visitare a Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e
ristrettosi con esso lui e con Berthier, protestava ed asseverava,
avere sempre la repubblica veneta ed in ogni accidente seguitato i
principii della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente
Buonaparte, il quale non voleva esser convinto, ma bensì intimorire,
che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i
fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i
Veneziani lasciato occupar da' Tedeschi Peschiera, il che era stato
cagione che egli avesse perduto mille e cinquecento soldati, il cui
sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse
agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli
accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il
passo pel mare e pei fiumi; che in somma erano i Veneziani amici
stretti degli Austriaci. Quindi, trascorrendo dalle minacce alla
barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato
asilo negli Stati loro ai fuorusciti franzesi ed al conte di Lilla,
nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente
dalla crudeltà alle menzogne, sclamava che prima del suo partire
aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che
l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai
Massena; che già forse le artiglierie di Francia la fulminavano, e che
già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel
ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da
Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera
era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste
cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque,
aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto,
acciocchè il senato ne ragguagliasse.
Spaventato in tal modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un
poco sopra di sè; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse
che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal
direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il
seguente si appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente
vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati,
manterrebbe salva la città ed avrebbero i Veneziani la custodia
delle porte; i magistrati il governo dello Stato; ma che se gli
fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e
distrutta.
Queste arti usava Buonaparte, il dì 31 maggio, per ottenere
pacificamente il possesso di Verona; dal che si vede qual fede prestar
si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì 29 del mese medesimo, e
quale fosse la sincerità delle sue promesse.
Da queste insidie e da queste minacce si rendeva chiaro quali
dovessero essere le deliberazioni del provveditor veneziano; posciachè,
prescindendo anche dagli oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto
una città nobilissima del veneziano territorio, quell'affermare che fra
sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra
a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva
a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma
ancora necessaria una subita presa d'armi dal canto de' Veneziani.
Quello era il momento fatale della veneziana repubblica, quello il
momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto
l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo
perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento,
non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente spente per fondare il
dispotismo di un capitano.
Ma Nicolò Foscarini, invece di gridar campane, come Pietro Capponi,
corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei
quali consisteva la principal difesa, l'abbandonassero, e che così
i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di
Buonaparte.
Come prima si sparse in Verona che i Franzesi vi sarebbero entrati per
alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno
spavento tale che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più
temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani li
perseguitavano. Il popolo, raccolto in gran moltitudine sulle piazze
e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore, accusava la
debolezza di Foscarini e le perdute sorti della repubblica. Lo stare
pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente
prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la
strada da Verona a Venezia impedita da lungo ingombro di carrozze, di
carri e di carrette che le atterrite famiglie trasportavano con quelle
suppellettili che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto
raccorre. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano
i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le
masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarii dei
poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più
bassi, od oltre le acque del mare, terre non ancora percosse dalla
furia della guerra.
Entrarono il dì primo giugno i Franzesi in Verona. Quivi Buonaparte
lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose
piazze, i templi, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto
l'arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano
anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono
i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Nè così soltanto
mancavasi al convenuto; ma contro alle promissioni fatte nel manifesto
di Brescia, di voler pagare in contanti tutto che si richiedesse
in servigio dei soldati, si facevano, nelle campagne testè felici
del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, tolte
incredibili che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano
mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano
od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza
medesima con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè
abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto all'umana
generazione è necessario così grave e così stolto come in questa
terribil guerra si fece. I popoli intanto, vessati in molte forme,
e cadendo da una tanta agiatezza in improvvisa miseria, entravano in
grandissimo sdegno e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor
più gravi.
A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello
di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie
di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì
29 giugno, salve le robe e le persone, eccettuati solo i fuorusciti
franzesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Fu questo
acquisto di grande importanza ai Franzesi, perchè era il castello come
un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle ai repubblicani.
La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia;
perchè, trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto,
e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle
spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro,
chè quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano, oltre a ciò,
a domarsi il papa ed il re di Napoli e ad espilare il porto di Livorno.
Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di
Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città forte più d'ogni
altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che, conoscendo
bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio
forastiero.
Aveva il senato di Bologna anticonosciuto che per la vittoria di
Lodi diveniva il generale franzese signore di tutta la Lombardia.
Però, desiderando di preservare il Bolognese dalle calamità che
accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creata
un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano
i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò, veduto il
generalissimo, il pregassero d'aver per raccomandata la patria loro.
Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle
cose, siccome quegli che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva
vi si temessero dai più i Franzesi, avendo la rabbia tolto il lume
dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano che quella furia,
per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio
della misera città. Così passarono le due notti dai 23 ai 25; ma già si
avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la
moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si
credeva sicura della vittoria. Era giunto il 25 maggio, quando udissi
improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da
presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche
gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco.
Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto
a Lodi, con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto
Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco
e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza,
perchè questi incendii più presto si spandono che non si estinguono,
tornossene subitamente indietro, conducendo con sè una squadra eletta
di cavalli ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in
Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato
ostinazione uguale alla rabbia, o forse, volendo risparmiare il
sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo
di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole
procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto,
applicando l'animo a far sicuro colla forza quello che le esortazioni
non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati e li
teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già
incontrati per via i Binaschesi, facilmente li rompevano, facendone
una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da
diverse bande il fuoco, l'arsero tutto.
Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e, fattosi al balcone
del municipale palazzo, orava istantemente alle genti che si erano
affollate per ascoltarlo. Con grande ardore parlava, desiderosissimo
di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce
inganno che le persuasive parole. Gridarono non doversi dar orecchio
all'arcivescovo, esser dedito ai Franzesi, esser giacobino; e così
su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben
prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra;
le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare aiuti
estranei era vano, e che i Franzesi giù stavano loro addosso, chiusero
ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura d'armi
e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte ed
atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime
una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti
disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e
ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i
contadini alla campagna; si nascondevano i cittadini per le case.
Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse; aspettava Pavia
l'ultimo eccidio.
Entrava la cavalleria della repubblica, correva precipitosamente,
trucidava quanti ne incontrava: cento sollevati in questo primo
abbattimento perirono. Entrava per la milanese porta Buonaparte,
e postovisi accanto con le artiglierie volte contro la contrada
principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei
cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestio
dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere
dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo
spaventevole e miserando; ma se periva chi andava per le vie, non era
salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco; dava
Pavia in preda ai soldati.
Non ci fermeremo a narrare il tenore di questa tremenda esecuzione.
Nel giorno 23, nella susseguente notte, nel dì 24, le soldatesche,
avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni, non si
ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora
nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone;
e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed
oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Tal era l'universale dei
soldati; ma non sono da dimenticare i pietosi ufficii fatti da molti
soldati franzesi in mezzo alla confusione sì fiera e sì orribile. Non
pochi furono visti che, abborrendo dalla licenza data da Buonaparte,
serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare, altri, più oltre
procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini ed
alle miserande donne, chiamati a preda od a vituperio dai compagni
loro; sì che sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì
strana contesa, pietosa ad un tempo e scellerata. Quali si affaticavano
per rinsensare le donne svenute, e riconfortarle; quali anche, vinti
dalla compassione, tornavano indietro a far la restituzione delle
rapite suppellettili. Nè si dee passare sotto silenzio che se si
fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano al
sangue. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle
case dell'università, che pur avevano molti capi di pregio anche per
soldati. Questo benigno riguardo si ebbe per comandamento dei capi.
Più mirabile fu ancora la temperanza de' capitani subalterni, ed anche
dei gregarii medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani
e di altri professori di grido, si astennero, o pregati leggiermente
od anche non pregati, dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente
il nome di scienza e di virtù anche negli uomini dati all'armi ed al
sangue.
Finalmente il mezzodì del giorno 26, siccome era stato ordinato da
Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva
fatto, non incrudelì di soverchio contro i presi colle armi in mano
ancora grondanti di sangue franzese: uno solo fu fatto passare per
l'armi in sul primo fervore in Pavia; poi altri tre, che, portati
all'ospedale, già vi stavano, per le ferite avute, col mal di morte.
Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni,
ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro e fuoco
avrebbe.
Buonaparte, passato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi
pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni
sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che, essendo padrone dei
ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso
sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica
veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi
territorii, doveva tra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi
l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni
cosa presagiva aver a riuscir ostinate e micidiali. Vedeva il senato
che la terra ferma, quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe
presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva che i Franzesi si erano
risoluti d'andar ad assalire il loro nemico dovunque il trovassero, e
che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e
l'altra per primo pensiero di procacciarsi i proprii vantaggi anche a
pregiudizio della neutralità veneziana.
Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di
Bergamo d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui
confini, e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave; ma le
instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava ed
i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle
consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando
il senato che in un caso di tanta, anzi di totale importanza le cose
di terraferma fossero rette con unità di consigli, aveva tratto a
provveditor generale in essa Nicolò Foscarini, stato ambasciadore
a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma
di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che
diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già
si mostrava pieno di spaventi e di pensieri sinistri. Diessi, come
moderatore a Foscarini, il conte Rocco Sanfermo, con quale prudenza
non si vede, perchè Sanfermo parteggiava piuttosto pei Franzesi, ed
era in cattivo concetto presso i Tedeschi per essere stata la sua
casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna
e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave
mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in
Verona vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo
di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero
allegrezze, considerando che la sua presenza avesse pure ad operar
qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi; il senato
medesimo non li conosceva; perchè l'operare in tanta sfrenatezza di
principii politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava
tutta la fortuna dello Stato, che si sarebbe portato rispetto al retto
ed all'onesto, e che un magistrato privo d'armi potesse fare alcun
frutto, era fondamento del tutto vano.
Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero,
per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu ch'egli
volesse, correndo per la sponda occidentale del lago di Garda, occupare
Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada che
dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela,
poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le
sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi, procedendo più oltre,
mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo
lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa
credenza che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra
per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di
mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro
e sulla destra le sue genti indietro per guisa che, invece di star
minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia
lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e
Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.
Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte
giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè
gli Austriaci avevano passato pei territorii veneti, ma non occupato
le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia, il dì 29 maggio,
un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in
animo di attenere; tra le altre cose dicendo: passare i Franzesi per
le terre della veneziana repubblica, ma non essere per dimenticare
l'antica amicizia da cui erano le due repubbliche congiunte; non
dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione,
il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto
fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti informassero di questi
suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse
quell'amicizia che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli
nell'onore, fedeli nella vittoria.
Come Beaulieu ebbe avviso avere i repubblicani occupato Brescia,
pose presidio in Peschiera, fortezza veneziana situata all'origine
dell'emissario del lago di Garda; poichè temeva che Buonaparte non
portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima,
se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del Mincio.
Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al
provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati,
armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in
tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura
del difendersi che del non difendersi, aveva trasandato le domande
del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente
rimproverata da Buonaparte, il quale affermava che se il provveditor
generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a
Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata.
Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta
quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono. Intanto
Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico, si apparecchiava a
mettere ad esecuzione il suo disegno, ch'era di sforzare il passo
del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale austriaco senza
sospetto di ciò, quantunque, per le dimostrazioni del suo avversario,
avesse ritirato parte dello sue genti ai luoghi superiori. Però
aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che
quattro mila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca
del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaia di cavalli
stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna ed a calpestare chi
s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto
al ponte per accorrere in aiuto della vanguardia, ove pericolasse.
Muovevansi improvvisamente, la mattina del 29 maggio, i repubblicani da
Castiglione, Capriana, Volta, e s'indirizzavano al ponte di Borghetto.
Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci, già tante volte
vinti, non si erano perduti d'animo, anzi, valorosamente combattendo,
sostenevano l'impeto dei Franzesi. Restavano superiori sulla prima
giunta, perchè, non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia,
la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, cominciava
a crollare e ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi,
massimamente cavalli ed artiglierie, furono gli Austriaci risospinti,
nè, potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente
da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si
ricoveraron sulla sinistra, guastato un arco del ponte, perchè il
nemico non li potesse seguitare. Ma erano le battaglie dei Franzesi
di quei tempi più che d'uomini. Ed ecco veramente che il generale
Gardanne, postosi a guida d'una mano di soldati coraggiosissimi, si
metteva in fiume, non curando nè la profondità di esso, perciocchè
l'acqua gli arrivava infino a mezzo petto, nè la tempesta delle
palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava ed alla
sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia, il timore occupava gli
Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese,
e fu fatto abilità ai repubblicani non solo di passare a guado,
ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria
compiuta ai Franzesi; e, come l'ebbero, così l'usarono; perchè,
avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo
intieramente e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un
presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte,
che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada
al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro
Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della
fortezza, e corresse a Caslelnuovo ed a Verona. Così, impossibilitati
a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali
sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi
corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che,
poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere
speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi
ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè
il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di
dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra,
s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor
fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa e sostenere
una stretta battaglia tra Villeggio e Villafranca, sulla sponda di un
canale largo e profondo che congiunge le acque del Mincio con quelle
del Tartaro. Infatti, mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu
faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e, per tal modo,
raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo
la notte interrotto la battaglia del canale, verso l'Adige: quindi,
passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo.
Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.
Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da
cui si rende manifesto, che se le armi franzesi di tanto riuscirono
superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore ne' soldati
dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare,
per cui il giovine generale di Francia di sì gran lunga superò il
vecchio generale d'Alemagna.
S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno
che il direttorio e Buonaparte nutriano contro la repubblica di
Venezia, meno forse per odio che per utile: il che per altro è più
odioso. Due erano i principali fini a cui si tendeva: il primo che
l'esercito acquistasse per sè tutti i mezzi di perseguitar l'inimico
e d'impedire il suo ritorno; era il secondo di turbare lo stato
quieto della repubblica veneziana, perchè pel presente si aprissero
le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero
pretesti di disporne a lor grado. All'uno e all'altro fine conduceva
acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono
tre ponti, è padrone del passo dell'Adige, ed è, a chi scende dall'Alpi
Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto
di una piazza tanto principale non poteva farsi da' Franzesi senza un
grande sollevamento d'animi in quelle provincie.
Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indrizzò Buonaparte, dopo la
vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, i suoi pensieri; e però
incominciò a levare un rumore grandissimo e ad imperversare, sclamando
che Venezia, per aver dato ricovero nei suoi Stati al conte di Lilla,
si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare
Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo veneziano
verso di loro. E così, tempestando e moltiplicando ognora più nello
sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in
tratto prorompeva anzi con dire che non sapeva quello che il tenesse
che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto
temeraria che si era creduta capitale dell'impero franzese. Nel che
intemperantemente ed assurdamente alludeva al soggiorno fattovi dal già
detto conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia; soggiorno pel
quale soltanto credettero i Veronesi aver fatto opera pia, dando dentro
le loro mura ricovero ad un principe perseguitato ed infelice.
Quanto al fatto di Peschiera, dal già detto intorno al suo stato
non difendevole, si vede se potessero i Veneziani in un caso tanto
improvviso impedire che i Tedeschi vi entrassero. Bene sapeva egli cosa
vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio,
il dì 7 giugno, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i
Veneziani, avendo solamente domandato il passo per cinquanta soldati,
e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma queste
querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a
Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata
da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il
consenso de' Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia,
conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito
di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto
questa rottura, perchè, se volessero cavar cinque a sei milioni da
Venezia, sì il potessero fare.
Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie
del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo
terrore. E però, per dare al generale repubblicano le convenienti
giustificazioni che dalla sua bocca propria e non da quella di altrui
voleva udire, si mise in viaggio col segretario Sanfermo per andarlo
a visitare a Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e
ristrettosi con esso lui e con Berthier, protestava ed asseverava,
avere sempre la repubblica veneta ed in ogni accidente seguitato i
principii della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente
Buonaparte, il quale non voleva esser convinto, ma bensì intimorire,
che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i
fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i
Veneziani lasciato occupar da' Tedeschi Peschiera, il che era stato
cagione che egli avesse perduto mille e cinquecento soldati, il cui
sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse
agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli
accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il
passo pel mare e pei fiumi; che in somma erano i Veneziani amici
stretti degli Austriaci. Quindi, trascorrendo dalle minacce alla
barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato
asilo negli Stati loro ai fuorusciti franzesi ed al conte di Lilla,
nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente
dalla crudeltà alle menzogne, sclamava che prima del suo partire
aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che
l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai
Massena; che già forse le artiglierie di Francia la fulminavano, e che
già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel
ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da
Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera
era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste
cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque,
aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto,
acciocchè il senato ne ragguagliasse.
Spaventato in tal modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un
poco sopra di sè; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse
che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal
direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il
seguente si appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente
vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati,
manterrebbe salva la città ed avrebbero i Veneziani la custodia
delle porte; i magistrati il governo dello Stato; ma che se gli
fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e
distrutta.
Queste arti usava Buonaparte, il dì 31 maggio, per ottenere
pacificamente il possesso di Verona; dal che si vede qual fede prestar
si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì 29 del mese medesimo, e
quale fosse la sincerità delle sue promesse.
Da queste insidie e da queste minacce si rendeva chiaro quali
dovessero essere le deliberazioni del provveditor veneziano; posciachè,
prescindendo anche dagli oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto
una città nobilissima del veneziano territorio, quell'affermare che fra
sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra
a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva
a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma
ancora necessaria una subita presa d'armi dal canto de' Veneziani.
Quello era il momento fatale della veneziana repubblica, quello il
momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto
l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo
perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento,
non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente spente per fondare il
dispotismo di un capitano.
Ma Nicolò Foscarini, invece di gridar campane, come Pietro Capponi,
corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei
quali consisteva la principal difesa, l'abbandonassero, e che così
i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di
Buonaparte.
Come prima si sparse in Verona che i Franzesi vi sarebbero entrati per
alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno
spavento tale che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più
temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani li
perseguitavano. Il popolo, raccolto in gran moltitudine sulle piazze
e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore, accusava la
debolezza di Foscarini e le perdute sorti della repubblica. Lo stare
pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente
prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la
strada da Verona a Venezia impedita da lungo ingombro di carrozze, di
carri e di carrette che le atterrite famiglie trasportavano con quelle
suppellettili che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto
raccorre. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano
i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le
masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarii dei
poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più
bassi, od oltre le acque del mare, terre non ancora percosse dalla
furia della guerra.
Entrarono il dì primo giugno i Franzesi in Verona. Quivi Buonaparte
lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose
piazze, i templi, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto
l'arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano
anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono
i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Nè così soltanto
mancavasi al convenuto; ma contro alle promissioni fatte nel manifesto
di Brescia, di voler pagare in contanti tutto che si richiedesse
in servigio dei soldati, si facevano, nelle campagne testè felici
del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, tolte
incredibili che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano
mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano
od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza
medesima con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè
abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto all'umana
generazione è necessario così grave e così stolto come in questa
terribil guerra si fece. I popoli intanto, vessati in molte forme,
e cadendo da una tanta agiatezza in improvvisa miseria, entravano in
grandissimo sdegno e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor
più gravi.
A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello
di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie
di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì
29 giugno, salve le robe e le persone, eccettuati solo i fuorusciti
franzesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Fu questo
acquisto di grande importanza ai Franzesi, perchè era il castello come
un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle ai repubblicani.
La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia;
perchè, trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto,
e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle
spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro,
chè quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano, oltre a ciò,
a domarsi il papa ed il re di Napoli e ad espilare il porto di Livorno.
Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di
Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città forte più d'ogni
altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che, conoscendo
bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio
forastiero.
Aveva il senato di Bologna anticonosciuto che per la vittoria di
Lodi diveniva il generale franzese signore di tutta la Lombardia.
Però, desiderando di preservare il Bolognese dalle calamità che
accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creata
un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano
i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò, veduto il
generalissimo, il pregassero d'aver per raccomandata la patria loro.
Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle
cose, siccome quegli che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva
- Parts
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 02
- Annali d'Italia, vol. 8 - 03
- Annali d'Italia, vol. 8 - 04
- Annali d'Italia, vol. 8 - 05
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- Annali d'Italia, vol. 8 - 08
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