Annali d'Italia, vol. 8 - 36

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acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertasi la strada alla
conquista dell'altra, convertiti in sè stesso gli occhi di tutti gli
uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa
maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva
desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori,
mandava fuori, il 20 maggio, un discorso molto infiammativo a' suoi
soldati:
«Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso,
dalle Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro
ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dell'austriaca dipendenza,
spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la
Francia. Vostro è lo Stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le
alte cime della Lombardia le repubblicane insegne: i duchi di Parma e
di Modena alla generosità vostra sono del dominio che ancora lor resta
obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava?
Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino,
nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati
baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessibili degli Apennini. Sentì
la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole che ogni
comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti,
de' fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dell'avervi per
congiunti fortunatissime. Sì per certo, o soldati, assai faceste;
ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei,
diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria?
Accuseranci dell'aver trovato Capua in Lombardia? No, per Dio no,
che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad
un vil riposo, già sento i giorni passati senza gloria esser giorni
perduti per voi. Orsù, partiamne; restanci viaggi frettolosi a fare,
nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie
a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi
uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi
rapì le navi; già suona contro a loro in aria una terribile vendetta.
Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni
amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, degli Scipioni, di
tutti gli uomini grandi che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il
Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanto è
famoso al mondo, destar dal lungo sonno il romano popolo, torlo alla
schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie: acquisteretevi
una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa.
Il popolo franzese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una
pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche
ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura; i concittadini, a
dito mostrandovi, diranno: _Fu soldato costui dell'esercito d'Italia_.»
Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia; ognuno aspettava
accidenti terribili.
Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede
nella città capitale degli Stati austriaci in Italia, si apparecchiava
Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar
il Mincio, e, cacciando le genti tedesche oltre i passi del Tirolo,
vietare all'imperatore che non mandasse nuovi aiuti per ricuperare le
provincie perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperta l'occasione
al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere
verso alle potenze italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e
neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese,
con darlo in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio si
convenisse, o al re di Sardegna o all'imperatore, si taglieggiassero
i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di
altre ricchezze che possibil fosse si ricavasse. Nè in questo mostrava
il direttorio maggior rispetto agli amici che ai nemici. Nella quale
risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta e l'amicizia
finta e la necessità di assicurare l'esercito.
Voleva prima di tutto che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito
alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i
soldati e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare o restituire;
se ne cavasse denaro, e sino i canali e le opere pubbliche fossero un
po' tocche dalla guerra. Poi si corresse contro il granduca di Toscana,
e si occupasse Livorno, confiscandovi le navi e le proprietà inglesi,
napolitane, portoghesi e di altri Stati nemici della repubblica,
sequestrandovi le proprietà dei sudditi loro; e se il granduca si
opponesse, si dicesse perfidia, e sì allora si trattasse la Toscana
come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria.
Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara,
poichè, se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra o d'Inglesi e di
altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di
Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta ed accordata col
granduca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da
quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole
loro la sincerità e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i
potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica e fatta la pace con
lei, e dato lo scambio, per istanza del Direttorio, al suo ministro
conte Cartelli, cui sostituì il principe don Neri Corsini.
Era Genova stata straziata dalle armi franzesi e dalle avversarie, e
poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata
da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali che
dove mancavano le cagioni s'inventavano i pretesti, ed il fine era
non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli
in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da
Genova, si cominciò ad insorgere contro il governo genovese. Scriveva
con una insolenza incredibile Buonaparte al senato, ch'era Genova il
luogo donde partivano gli uomini scellerati, che, datisi alle strade,
intraprendevano i carriaggi ed assassinavano i soldati franzesi; che da
Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi e munizioni
da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini
accoglieva ancor bruttati di sangue franzese; che parte di questi
orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva
che essa col tacere e col tollerare approvasse opere tanto scellerate;
che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti alti
barbari; perciò arderebbe i comuni dove fosse ucciso un Franzese;
voleva che il governatore di Novi si cacciasse, come Girola da
Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero
asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità che egli
osserverebbe bene e puntualmente, ma volere che la repubblica di Genova
non fosse rifugio di gente malandrina; e di egual tuono, e vieppiù
soldatescamente accendendosi, scriveva al governatore di Novi.
Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè
lo attribuire a sè medesimi opere tanto nefande non era nè verità nè
dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato,
era pericolo. Certo è bene che per quelle strade si commisero contro i
Franzesi opere di molta barbarie; ma questi omicidii ed assassinamenti,
di cui con tanta ragione Buonaparte si querelava, non già solamente sul
territorio genovese accadevano, ma ancora, e molto più, sul territorio
piemontese. Eppure non fece il generale di Francia che un leggier
risentimento e nissuna minaccia contro il re di Sardegna, poichè contro
di lui non aveva quel fine che contro Genova aveva.
A queste minaccie soldatesche succedevano le prepotenze parigine.
Comandava il direttorio a Buonaparte s'impadronisse o di queto o
per forza di Gavi, a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di
conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona; col
qual medesimo pensiero già s'era impadronito della fortezza di Vado:
il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare.
Poscia voleva che come prima l'esercito repubblicano occupato avesse il
porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti
appartenessero a potentati nemici alla Francia mettesse in preda.
Nè contento a questo, dimenticando tutto l'accaduto, comandava a
Buonaparte che domandasse nuovamente vendetta e nuovi milioni di
contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro che si erano
mescolati in tale fatto fossero come traditori della patria dannati;
oltre a ciò, voleva e comandava che si confiscassero e si dessero in
mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai
nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che
a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi
territorii tutti i fuorusciti franzesi; fornisse bestie da tiro e da
soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del
ricevuto da scontarsi alla pace generale.
Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano,
repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie
la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire che
volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale,
sotto colore di certi pretesti vecchi che già sussistevano, poichè non
era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando
nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra
questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei
territorii veneziani. Poi, prosperando vieppiù la fortuna dell'armi
repubblicane in Italia, insorse il direttorio, con volere che Verona
desse grossa somma di denaro a prestito, a motivo ch'ella aveva
accolto nelle sue mura Luigi XVIII. Finalmente, cacciato del tutto
Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava che Venezia
prestasse dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questo debito
alla repubblica batava, che era debitrice di questa somma, a norma de'
freschi trattati, alla Francia. Voleva, oltre a ciò, e comandava che
si consegnassero alla repubblica tutti i fondi de' potentati nemici che
fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente
al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi
sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero
nei porti veneziani.
Quanto al papa, se volesse trattar di accordo, si esigesse da lui,
imponeva il direttorio, per primo patto che ordinasse subito preci
pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che
faceva il direttorio gran fondamento, per l'autorità che aveva la Sedia
apostolica sulla opinione dei popoli sì franzesi che italiani. Si venne
quindi in sul toccar il solito tasto del danaro, intimando che desse
venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli,
che se pace volesse, badasse a cacciar dai suoi Stati gl'Inglesi e
gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le
navi loro che nei napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse
d'entrarvi nemmeno con bandiera neutrale. Pei potentati minori,
correndo la fama che avessero ricchezze, voleva il repubblicano governo
che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno
rigidamente del secondo, per rispetto del re di Spagna, col quale era
congiunto di sangue. Lallemand, ministro di Francia a Venezia, esortava
che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il
modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto, ed era avaro;
e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe.
Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva
all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto
la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse
a quelle dolci parole di umanità e di libertà che dai repubblicani
di quei tempi si andavano sino a sazietà spargendo, ordinava il
direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti
d'accordo a principi vinti, dessero in potere dei vincitori, perchè
nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna,
ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti
del mondo, affermando esser venuto il tempo in cui la sede loro doveva
passare da Italia a Francia e servire d'ornamento alla libertà. Brutta
certamente ed odiosa opera fu questa dell'avere spogliato l'Italia di
preziosi ornamenti; ma lo spoglio piaceva ad alcuni per l'amor della
gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli
tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei
tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di
gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente
gli esempi italiani: e con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini,
lusingava la Francia.
In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano
le opere preziose da rapirsi; i più dolci andavansi confortando con
la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne
avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose; i più severi poi,
trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se
ne rallegravano, predicando che la libertà non aveva bisogno di queste
preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano
fosse.
Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buonaparte, che sapeva
quel che si faceva, voleva che se le opere più insigni delle arti
servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri
li lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie,
se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i
più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a
danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente ed imponeva al
suo generale che ricercasse e con ogni modo di migliore dimostrazione
accarezzasse gli scienziati ed i letterati d'Italia; ed il generale
recava ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte
per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni.
Or ecco in qual modo i raccontati comandamenti, che finora erano
solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto.
Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse
una trepidazione nella corte di Parma tanto maggiore quanto il duca
aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in
Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo,
come prima i Franzesi erano comparsi nella pianura del Piemonte.
Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la devozione dei
repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e
solo che il volessero, a venire in poter loro; nè si stava senza timore
che seguisse anche qualche turbazione. In tanta e sì improvvisa ruina
prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare
di assicurar gli Stati con un accordo, che, quantunque grave e duro
dovesse riuscire, sarebbe, ciò nonostante men grave che la perdita di
tutto il dominio. Domandava il vincitore superbamente l'accordo che
ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie e tavole
dipinte di estremo valore.
Adunque in primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del
ministro di Spagna il dì 9 maggio in Piacenza. Non aveva il duca
armi nè fortezze da dare, ma si obbligava di pagare in pochi giorni
sei milioni di lire parmigiane, che sono a un di presso un milione e
mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri
e di vestimenta pei soldati. Si obbligava, oltre a ciò ad allestire
due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei
repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi,
fra i quali il San Girolamo del Correggio.
Mandava pertanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari
ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero
puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità, mandava le ducali
argenterie alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le
sue. Così, usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni
parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i
fuorusciti parmigiani e piacentini, ritiratisi a Milano, laceravano il
duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia.
Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di
Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte dei suoi tesori,
il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come
se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per
servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza che disposto per
la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta
il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace
Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano
le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto
dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse,
oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente
di altri due milioni: di più, fra quarantotto ore rispondessero del
sì o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero
dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da
somministrarsi e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano
quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa
di pagare a contanti quanto abbisognasse loro, passando per gli Stati
del duca.
Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e
donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta
l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e
queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima
che partisse, con surrogar loro magistrati ed uomini o partigiani
o dipendenti da Francia; e di procacciar denaro e fornimenti che
l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual
cosa, in luogo della giunta di Stato, creava la congregazione generale
di Lombardia, ed al consiglio dei decurioni surrogava un magistrato
municipale in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di
grande stato, Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini,
Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato ed a lui si
riferivano gli affari più gelosi e più segreti.
Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte
sulla conquistata Lombardia una gravezza di venti milioni di franchi,
e faceva abilità ai commissarii e capi di soldati di torre per
forza i generi necessarii, con ciò però che dessero polizze del
ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni.
Intenzione sua era che cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati
e sui corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa
dall'intenzione l'esecuzione; ma i ricchi, sì perchè si sentivano
gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con
insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti e licenziavano
i servitori, chè poco bene disposti in sè per natura vecchia, ed
avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo,
massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il
magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente
abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni
dovessero continuar a pagare i salarii ai servitori. Ma fu il rimedio
insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo,
perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate
di generi d'ogni specie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi
ai generali, ai commissarii, ai comandanti, agli uffiziali, talmente
il costringevano, che non era più padrone di sè medesimo, stanziava
un'imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari
quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi milanesi. Non
parlasi dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo
i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse
diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare,
consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè
a grandi e replicate vittorie era congiunta un'opinione politica
ardentissima e molto diversa da quella dei popoli, fra' quali egli
viveva. Il che sia detto generalmente, perchè molti uffiziali, o per
gentile educazione o per bontà di natura, si portavano e dentro e fuori
delle case del popolo conquistato in tale guisa che si conciliavano la
benevolenza d'ognuno. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli
erano le tolte sforzate di generi che per uso dei soldati o proprio
alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villerecci luoghi,
liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva e a chi non aveva,
e così agli amici come ai nemici del nome franzese. Aggiungevansi le
minaccie e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire
l'uomo che i cattivi fatti. Ciò rendeva i Franzesi odiosi, ma più
ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi o per le
opinioni parteggiavano pei Franzesi. Nè il popolo discerneva i buoni
dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che
tutti aiutavano l'impresa di una gente che, venuta per forza nel loro
paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Adunque lo sdegno
era grande; la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi
nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli.
A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca e gli
ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano
nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il
dominio franzese in Italia; che questa terra era pur tomba ai Franzesi,
che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le
loro cacciate o gli eccidii; quindi eccitavano all'armi, quindi dicean
calar dalle tirolesi rupi nuovi eserciti imperiali, quindi spargevano
voler i Franzesi fare per forza una leva di gioventù lombarda per
mandarla, con le genti franzesi incorporandola, alla guerra contro
l'imperatore; e per quanto si sforzassero i magistrati di persuadere ai
popoli il contrario, vieppiù nella concetta opinione si confermavano.
In mezzo a tutti questi mali umori successe a Milano un fatto veramente
enorme che li fece traboccare e crescere in grandissima inondazione.
Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano, o
gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti
e gioie di grandissimo valore. Si aggiungevano, come si usa, capi di
minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano a doti di fanciulle
povere. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà non solo
perchè era segno di fede pubblica, ma ancora perchè le cose depositate
la maggior parte appartenevano a persone o per condizione o per
accidente bisognose. Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede
nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie
di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel
monte e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio che
là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo.
Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire che non si
fosse portato più rispetto alle proprietà de' poveri che a quelle
de' ricchi, il che in parte era anche vero. Le quali cose, giunte
all'insolenza militare, allo strazio che si faceva nelle campagne,
alle improntitudine dei patriotti, partorirono una indegnazione tale
che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro
non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di
far un moto contro i Franzesi. Nè fu la città stessa di Milano esente
da questa turbazione; perciocchè, facendo i repubblicani non so quale
allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a
sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche
fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il
quale, frenato l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio.
Ma le cose non passarono sì di queto ne' contorni di Milano,
massimamente verso la porta Ticinese, perchè viaggiando e Franzesi e
patriotti italiani, o soli o con poca compagnia, per quelle campagne, e
non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservarli, furono
da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano
uccisioni ancor maggiori ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più
grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In
Binasco principalmente l'ardore contro i Franzesi e contro i giacobini,
come li chiamavano, era giunto agli estremi; e credendosi i Binaschesi
ogni più crudele fatto lecito, ammazzavano quanti Franzesi o Italiani
partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso,
molti, anzi una squadra non piccola di Franzesi, furono barbaramente
trucidati da quella gente.
A questo molo di Binasco, terra posta a mezzo cammino fra Milano e
Pavia, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi de' Tedeschi,
che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del
Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia. Chi poi
non accorreva per la speranza de' soccorsi tedeschi, che non pochi
sapevano esser vana, il facevano per la voce che s'era levata fra la
gente tumultuaria che i Franzesi si avvicinassero per mettere a sacco
Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero
della libertà, si erano sollevati la mattina del 23 maggio, e correvano
la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza.
Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le truppe sollevate: suonavano
precipitosamente in Pavia le campane a martello; rispondevano, con
grandissimo terrore di tutti, quelle della campagna. Nascondevansi i
patriotti, perchè il popolo li chiamava a morte: pure, più temperato
in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini
quieti serravano a furia le porte. I soldati di Francia segregati erano
presi; i rimanenti, non più di quattrocento fanti, male in arnese,
la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoverarono
nel castello, dove, per mancanza di vitto, era certamente impossibile
che si potessero difendere lungo tempo. Arrivarono in questo punto i
contadini, e, congiuntisi coi cittadini, aggiungevano furore a furore.
Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per sè o che volessero aiutare
quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri
mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi,
i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di
pesar con giusta lance le cose, non vedendo a comparire da parte alcuna
soccorsi in favore degli avversarii, davansi in preda all'allegrezza,
e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro,
non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardia
e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale
franzese Haquin; nè così tosto ebbe messo il piede dentro le mura, che,
minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune,
dove già era una banda grossa di soldati franzesi, che disarmati ed
incerti della vita e della morte, se ne stavano del tutto in balìa
di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto da' municipali, che
ogni sforzo facevano per sedare quel cieco impeto. Ma finalmente il
popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e, trovato Haquin, lo
volevano ammazzare; i municipali, facendogli scudo de' corpi loro, il
preservavano, benchè ferito di baionetta in mezzo alle spalle. Mentre
alcuni si adoperavano per la salute del generale, altri si ingegnavano
di salvar la vita de' Franzesi; nè riuscì vano il benigno intento
loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine a Buonaparte, che,
ritornata Pavia a sua devozione, gli voleva far ammazzare come autori
della ribellione, raccomandandogli e con istanti parole pregandolo
perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo
concitato che a concitar il quieto.
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