Annali d'Italia, vol. 8 - 35

re, di parole che non voglionsi riportare. La somma fu, che squadernò
in viso all'agente lo spaccio che conteneva le novelle della tregua,
sdegnosamente dicendo che i confederati sapevano ottimamente che la
fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Franzesi penetrassero
in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione
dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe
loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di
soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere
che a un primo impeto ei fosse per mancar d'animo e per posar le
armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla
sicurezza ed agl'interessi degli Stati loro.
Infatti non si vede quale sì inevitabile necessità dovesse condurre
il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudizievole e tanto
inonorata. Di quello poi che fosse a farsi in così grave frangente
testimonio irrefregabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire che
se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici
giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene
là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a sè medesimo,
non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio
Amedeo II, già signori i Franzesi di quasi tutto il Piemonte, e già
oppugnanti con ottanta mila soldati, fornitissimi di cavalleria e
di grosse artiglierie, la capitale del regno, non disperò delle sue
sorti; anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo
Stato; stupiranno i posteri che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo
Stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito al primo
romoreggiare d'un quaranta mila Franzesi, difettosi di artiglierie,
massime grosse, difettosi di cavalleria, senza denaro per pagare, nè
magazzini per pascere i soldati, si sia sbigottito nell'animo e dato
subitamente in preda a coloro che con una pace a lui pregiudizievole
non altro fine avevano se non di costringere l'Austria ad una pace
utile a loro.
Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del
Piemonte e posto in sua balia quel primo Stato d'Italia, il che
gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava
Buonaparte l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non
gli mancasse sotto, mandava fuori un bando che merita di essere
attentamente considerato per rilevar l'indole del nuovo capitano
di Francia: «Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete
vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni,
parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso dieci mila
nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie
senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe,
passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi
repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili
sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità;
vincitori di Tolone, le vittorie del 93 presagiste; vincitori delle
Alpi, più fortunate guerre presagiste; non più fra sterili rupi,
non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far
guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia,
fuggono con terrore al cospetto vostro; ecco trepidar coloro che si
facevano beffe della miseria vostra; ma se avete operato cose grandi,
restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter
vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinii
gli assassini di Basseville; altre battaglie avete a vincere, altre
città ad espugnare, altri fiumi a varcare; forse alcuno di voi si
ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser
quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi?
No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Digo e di Mondovì
bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome franzese; tutti
vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne
mura tornarsene, tutti quivi con militare vanto dire: _Ancor io mi fui
dell'esercito conquistatore d'Italia. _Promettovi, amici, ed a voi per
ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per mia fè,
gli orribili saccheggi, sovvengavi che siete liberatori del popolo,
non flagello; non contaminate con la licenza le vittorie nè il nome
vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie.
Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito
indisciplinato; ogni scellerato soldato, che con gli oltraggi e col
ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza
remissione alcuna, dato a morte.»
Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi,
a Franzesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un
effetto incredibile: coll'immaginare, già facevano loro la Germania
lontana, non che l'Italia vicina. Quel mostrar poi di voler frenare
il sacco, era molto astuto consiglio per dare sicurtà ai popoli,
spaventati da una fama terribile e da fatti più terribili ancora.
Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava lusinghieramente, venire
il franzese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo
franzese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente,
lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà; la religione,
i costumi, fare i Franzesi la guerra da nemici generosi; solo averla
coi re.
Quali sentimenti producessero siffatti incentivi, coloro sel pensino
che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è
da far maraviglia se queste guerre vive dei Franzesi di tanto abbiano
prevalso ad ogni altro genere di guerra.
Possente aiuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle.
Arrivarono le novelle desideratissime essersi conclusa la pace il dì
15 maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali:
cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoia e
della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva e Tortona,
mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la
Brunetta, Castel-Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere
del generale di Francia, Valenza; smantellassersi a spese del re Susa
e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella
frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse
ne' suoi Stati alcun fuoruscito o bandito franzese; restituissersi da
ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi ed in perpetua
dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni
politiche; a libertà si restituissero e dei beni loro posti al fisco
si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere,
o di starsene senza molestia negli Stati regii o di trasferirsi là
dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Franzesi conservasse il
re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari,
ed a fornir viveri e strame allo esercito repubblicano; disdicesse
l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria.
Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito
considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito
austriaco, congiunto coi soldati di Napoli e con qualche parte di
Tedeschi testè arrivata dal Tirolo, si trovava solo esposto a tutto
l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente
fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata
dalla fama di tante vittorie. La mira principale e tutta l'importanza
dell'impresa del generale della repubblica erano d'impadronirsi di
Milano: al qual fine due strade se gli appresentavano, di passare il
Po a Valenza, o di varcarlo sotto la foce del Ticino. Appigliossi al
secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in sè,
dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale, sebbene
subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi
con Francia da Ulloa ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto
consentire.
Adunque, risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le
foci del Ticino e dell'Adda, il che dovea anche dar timore a Beaulieu
di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile,
oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta
a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva
continuamente il governo sardo di barche pel valenziano passo, là
mandando carri, là artiglierie, là soldati, e facendovi intorno
una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una
soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè
vi fu ributtato da' presidii piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva
passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive
si ritrovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito
e proprio e napolitano, stava attento ad osservare quello che fosse
per partorire l'astuzia e l'ardire dell'avversario. Ma, quantunque
sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni
del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto che
veramente questi avesse lo intento di varcare a Valenza. Per la qual
cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per
fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio,
e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la
città di Pavia, posta sul Ticino, vicino al luogo dove si mette nel
Po e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita sulle rive
del fiume di trincee e di artiglierie. Per questi medesimi motivi
aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il
Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto
che Buonaparte, sicuro oggimai di conseguire il fine che si era
proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandando facesse due
alloggiamenti per giorno, verso Castelsangiovanni. Seguitava egli
medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierie
continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive
di Valenza. Il colonnello Andreossi e lo aiutante generale Frontin
spazzavano con cento soldati di cavalleria tutta la riva destra del
Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le
quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali e
medicamenti destinati agl'Imperiali.
Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte
del generale loro, i Franzesi colla vanguardia composta di cinque mila
granatieri e quindici centinaia di cavalli, varcavano felicemente, il
dì 7 maggio, su quelle barche medesime e sopra alcune altre che loro
si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile
afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte,
per tale guisa che il dì 8 quasi tutto l'esercito aveva posto piede
sulle milanesi sponde.
Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i
Franzesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio,
terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per
impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli
intanto ritirava le genti sull'Adda, sì per serbarsi aperte le strade
al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio. Avvisava
ancora che finchè il grosso de' suoi, che, malgrado delle sconfitte,
era tuttavia formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo
fiume, pericolosa impresa sarebbe pei Franzesi il correre a Milano.
Perlochè si avviava colla maggior parte delle genti a Lodi per guardar
il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume.
Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavalleria, a
Casal Pusterlengo, affinchè, passando per Codogno, fosse in grado di
servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla,
ove bisogno ne fosse. Pavia intanto, abbandonata da' suoi difensori,
non si reggeva più che con la guardia urbana. Bene erano considerati
i disegni di Beaulieu, ma la prestezza franzese gli ebbe guasti; i
soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi,
arrivarono non più per contrastare il passo al nemico, ma solo per
combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la
solita sagacità prevedeva che quella testa grossa di Austriaci, se le
desse tempo di essere soccorsa poteva disordinare i suoi pensieri, si
deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la
terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta e munito di venti pezzi
d'artiglieria alcune trincee; i cavalli, la maggior parte napolitani,
che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna.
La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi e
di assaltar da diversa parte la terra, solo mezzo perchè il combattere
fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande; la prima
col generale Dallemagne doveva assaltar Fombio sulla sinistra, la
seconda, condotta dal colonnello Lannes, dar dentro sulla destra, e
finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar
la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu
forte l'incontro, forte ancora la difesa. Gli Austriaci combattevano
valorosamente e per natura propria e per la speranza del soccorso
vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato
fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia de' Franzesi.
Andavano gl'imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio, si ritiravano
a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle
bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri;
e sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria napolitana,
condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran
valore, serrandosi grossa ed intera alla coda, ed urtando di quando in
quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e
fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.
Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano i confederati
ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva
Beaulieu avuto le novelle del passo de' Franzesi e del pericolo de'
suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti
soldati corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno
in soccorso di Fombio, credendo che i suoi tuttavia in quest'ultima
terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che
poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato
secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel buio della
notte sopra i Franzesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie,
seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi, spingendosi oltre,
s'impadronirono di parte della terra. Accorreva al subitaneo rumore
Laharpe, e, postosi a guida d'un reggimento fresco, marciava per
rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel
principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non
fosse stato tolto subitamente di vita. Soldato di compito valore, ma
ancora più di compita virtù, amato da tutti in vita, pianto da tutti in
morte.
L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani,
che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava
frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto
fece che rinfrancò gli spiriti e riordinò le schiere sbigottite
e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi, nell'ardir
loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della
vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già
si erano riavuti i Franzesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del
giorno che i nemici, superiori assai di numero, facevano le viste
di assaltarli, pensarono al ritirarsi: il che fecero, prima in buon
ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente
i Franzesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta
sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la
cavalleria napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Perdettero in
questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierie
lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi.
Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di
Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era
giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per
l'ultima volta, se, obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto
eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse
fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in sè il
favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si
doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della
Lombardia, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti
imperiali.
Aveva ottimamente il capitano austriaco collocato la sua retroguardia,
sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli
che resistesse quanto potesse, ed, in caso di sinistro, si ritirasse
sulla sinistra del fiume. Intanto, per assicurare il passo del
ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la
sinistra sponda, per modo che direttamente l'imboccavano e spazzare
potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel
varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierie
grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro
battendo in crociera, parevano rendere il passo piuttosto impossibile
che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte nè una ritirata di sì
lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati
sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal
passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato.
Ed ecco arrivare Buonaparte impaziente delle guerre tarde, che, veduti
i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto,
si risolveva, correndo il dì 10 di maggio, a far battaglia sul ponte,
quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali
suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di
sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza
dei soldati, le genti menomate dalle battaglie e minorate dalla
lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di
tutti, che voleva quel che voleva, e che era, nonchè liberale, prodigo
del sangue dei soldati purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro,
e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire
a sè un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole,
usa al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbarraglio, diceva loro con
quel suo piglio alla soldatesca: «Vittoria chiamar vittoria; esser
loro quei bravi uomini che già avevano vinto tante battaglie, fugato
tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già
dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu, già tante volte
vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani
di Francia; vana presunzione, vana credenza; aver loro passato il Po,
re dei fiumi, arresterebbeli l'umile Adda? Pensassero essere questo
l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano;
dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati
invitti; guardarli la repubblica grata alle fatiche loro, guardarli
il mondo maravigliato ed atterrito alla fama di tante vittorie: qui
conquistarsi Italia, qui rendersi il nome di Francia immortale.»
Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non
così tosto erano giunti, che li fulminavano un tuonare d'artiglierie
d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo
tempestoso di schegge. A sì terribile urlo, a sì duro rincalzo, alle
ferite, alle morti, esitavano, titubavano, si arrestavano. Se durava un
momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio ed
i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda
volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai
generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era
tempo di starsene dietro le file, correvano, a fronte Berthier il
primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes
e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un
mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierie tedesche avevano
prodotto un gran fumo che avviluppava il ponte; del quale accidente
valendosi i repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando,
riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue, sulla
sinistra sponda. Spingeva oltre Buonaparte subitamente i restanti
battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la
vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano
tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierie,
calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino,
più sanguinosa. Già correvano pericolo i Franzesi di essere rituffati
nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con
sì estremo valore conquistato, quando opportunamente giunse con la sua
eletta squadra Augereau, che, udito l'avviso della battaglia orribile,
a gran passi dal Borghetto in aiuto de' suoi compagni pericolanti
accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del
tutto sormontare la fortuna franzese. Beaulieu, abbandonato il bene
contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a
porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo e per assicurar
Mantova con un grosso presidio.
Di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'Imperiali scemi;
bensì perdettero nel fatto due mila cinquecento soldati tra morti
e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierie. Grave
fu anche la perdita dei Franzesi, i morti, i feriti, i prigionieri
passando i due mila. La ritirata dei confederati assicurò i
repubblicani delle cose di Lombardia, e pose in mano loro Pavia,
Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva ormai di difesa,
tanto solamente indugiava a venir sollo l'imperio repubblicano, quanto
tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi
gloriosi fatti i saccheggi e le devastazioni.
Giunte a Milano le novelle del passo del Po, e dell'abbandonarsi da
Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento,
poichè vi si prevedeva che poca speranza restava di conservare la
città sotto la devozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come
in una popolazione ricca allo approssimarsi di soldatesche nuove non
conosciute, e forse anche troppo conosciute. Mancavano nel Milanese le
cagioni di mala soddisfazione, e quindi nasceva che, sebbene i popoli
siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non
quando lo hanno perduto, non si manifestavano nella felice Lombardia
segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per sè,
per le famiglie, per le sostanze. Sapevano i Milanesi che pochi erano
fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti e rimessi
secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi
avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti
dei governi regii o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi
ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti e forze terribili. Per la
qual cosa vi si viveva in grande spavento.
L'arciduca Ferdinando si risolveva a lasciar quella sede per andarsene
nella sicura Mantova, o, quando i tempi pressassero di vantaggio, nella
lontana Germania. Desiderando però, prima di partire, provvedere alla
quiete dei popoli, ordinava, con editto del 7 maggio, che i cittadini
abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero.
A dì 9, creava una giunta con autorità di fare quanto al governo si
appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello Stato,
voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far
l'ufficio suo continuasse.
Avendo per tal guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva
il medesimo dì 9 di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già
era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome,
fra' quali il principe Albani ed il marchese Litta. Una moltitudine di
persone di ogni grado, di ogni età e di ogni sesso, fuggendo la furia
dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano
a ricoverarsi sulle terre veneziane, destinate ancor esse, e molto
prossimamente, alla medesima ruina. Seguitava in Milano un interregno
di tre giorni.
Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più
pressava nella guerra, e già stimando Milano in sua potestà, mandava
Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati
municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte che si
trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso
un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella
generosità dei Franzesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto
alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno 14 di maggio
entrava Massena con una schiera di dieci mila soldati valorosissimi.
L'incontravano al Dazio di porta Romana i municipali. Disse, per
mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero
salve la religione, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi
corpi di truppa; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera
d'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci.
Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali, o
allettati dalla fama o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno
dei signori loro, correvano, come in sede propria e di salute nella
città conquistata. A costoro si univano i repubblicani milanesi, ed
intendevano a far novità. Fra tutti questi gli utopisti, servi di
un'opinione anticipata e di un dolce delirio andavano sognando una
perpetua felicità. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli
uomini da poco, scemi e, come sarebbe a dire, pazzi. V'erano poi
quei patriotti che amavano lo stato libero per ambizione: di questi
il generalissimo facevane maggiore stima, perchè, come diceva, erano
gente che aveva polso, e, per poco che si stimolassero, avrebbero
servito mirabilmente a' suo disegni. Finalmente quei patriotti, i
quali amavano le novità per le ricchezze, e, sperando di pescar nel
torbido, gridavano ad alte e spesse voci libertà, non frequentavano mai
le stanze di Buonaparte, ma amavano molto aggirarsi fra i commissarii
e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e
mezzani.
Fecero grandi allegrezze tutti questi generi di patriotti, in
sull'entrar dei Franzesi, di luminarie, di balli, di festini; ma per
quella servile imitazione di cui erano invasati verso le cose franzesi,
e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono
altresì alberi di libertà, vi facevano intorno canti, balli, discorsi,
ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento
delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti
allo Stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con
maggior veemenza, più era applaudito.
Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità
repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con
grida smoderate i patriotti e parte del popolo, solito a fare come gli
altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si
lodava Buonaparte che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo
molto schifosa l'adulazione italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava
Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I
buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste
dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico quanto in privato; ma
augurava male degl'Italiani.
Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di
ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un
esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi,
varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso
eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe,