Annali d'Italia, vol. 8 - 34

l'impeto dell'armi loro vittoriose. Qui sorse una battaglia tale che
poche di simil fatta, per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli
assaliti, sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare
gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo
della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo
forte punto il collonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la
trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che
anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio quanto più era grave
il pericolo, animosissimamente rivoltosi a' suoi soldati, fece lor
prestare quel bel giuramento che fia eterno nelle storie, di non cedere
se non morti. Il valor dei Franzesi diventò più che sprezzo di morte, e
con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto
tremendo combatterono, che ributtati, furiosamente da ogni assalto i
Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare
la trincea tanto contrastata e tanto importante. Gli uni e gli altri,
sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che
doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Ma il
generalissimo Buonaparte, nella notte stessa, con pari celerità ed
arte mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale
non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma
diede agio a Rampon di empiere di soldati a destra ed a sinistra le
boscaglie. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta
l'ala diritta, e snodasse minutamente l'ala sinistra dalla mezzana
degli alleati. E per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare
al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con
due forti colonne, sperando di sgiungere la mezzana governata da
Argenteau e da Roccavina dalla destra retta da Colli. Spuntava appena
l'aurora del giorno 11, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare
le boscaglie, iva baldanzoso all'assalto; ma non era ancora il suo
antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi
da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da
un'impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo
s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue
genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia,
andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza, con qualche
rinforzo e dopo respiro, di ricominciar la batteria; ma ecco arrivare
infuriando dall'un canto Buonaparte, dall'altro Laharpe. Fu allora
forza ai confederati di ritirarsi piucchè di passo per non essere posti
negli estremi, ed il forzato loro movimento fece riuscir ad effetto
il pensiero di Buonaparte dell'aver voluto separare i Piemontesi dai
Tedeschi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaia
di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra
feriti e sani vennero come prigionieri in poter del vincitore. Dalla
parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più
di un migliaio incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano
i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai
regii, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva
venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della
sinistra Bormida a Millesimo che nella valle della Bormida destra, dove
stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciarli più sotto
nella prima. Quindi nacque pei Franzesi la necessità di dar l'assalto
al posto di Magliani e d'impadronirsi di Millesimo.
Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva
forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla
guardia della sinistra Bormida il vecchio, ma prode generale Provera
con un corpo franco austriaco e quindici centinaia di granatieri
piemontesi. Posto egli in molto pericolosa condizione, volle con
sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli
venne impedito il viaggio dalla Bormida che, cresciuta per pioggie
abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa
risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio
castello di Cosseria, ed ivi senza artiglierie, senza munizioni, senza
sussidio alcuno di cibo o di acqua attendeva a difendersi. Augereau
che conosceva ottimamente che fin tanto che quel freno del castello di
Cosseria fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co'
suoi verso il centro e la destra, si accinse a fare ogni sforzo per
superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante
furono risospinti con immenso valore dagli assaltati. Pernottarono i
Franzesi a mezzo monte. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione;
chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau.
Arrivava il giorno 14 aprile: la fame e la sete operarono ciò che la
forza non aveva potuto; diessi la piazza ai vincitori. Ai medesimo
tempo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la
vittoria di Cosseria abilitava Augereau a superare Montezemo; il che
diè facoltà ai Franzesi di spiegar la bandiera loro nella valle del
Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e
Mondovì.
Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di
maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo e a destra.
Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a
Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè
nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti a cui potessero
ripararsi: massimamente insino a tanto che la strada del Dego non
era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare un'impressione
d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per
quella strada; dall'altra parte i Franzesi pensavano a sforzarla. Gli
Austriaci in numero di circa quattro mila soldati, ai quali si erano
accostati i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, si
fortificarono a questo fine sui monti di Magliani ed altri, facendovi
un ridotto munito d'artiglieria e grande abbattuta d'alberi. Diedero
loro tempo due giorni i Franzesi a fornire le loro fortificazioni in
quei luoghi eminenti e difficili. La principal difesa degli alleati
consisteva nel ridotto di Maglioni, che stava a ridosso del castello
del medesimo nome.
I repubblicani, per aprir quella strada che i confederati avevano
serrata, comparivano alle due meridiane del dì 13, minacciosi e grossi
di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta
del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in
tre colonne che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma
non furono questi fatti che minaccie, tentativi per iscoprir bene il
sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto
che fu al Colletto, fece trarre d'una forte cannonata, per prender
notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti,
e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano, il che
gli riuscì come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva
succedere nel dì 14, nel quale i repubblicani, risoluti di venire al
cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. Le molte mosse
loro erano con molta maestria di guerra pensate, e furono altresì
con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla
Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte
la mezzana, ma posatamente per aspettare l'effetto dell'assalto dato
sui due fianchi. I Franzesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e
quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria
sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si
fece allora avanti la mezzana ed entrò forzatamente, nel castello di
Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto
morire che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani,
principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una
furia incredibile di palle e di scaglie. Fu quivi assai dura l'impresa
pei repubblicani, perchè i confederati, maravigliosamente inferociti,
traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di
distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e
solamente verso la sera, venne fatto ai Franzesi, che accorrevano
contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte
sito, cacciatine a forza i difensori. Si precipitarono allora gli
alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la
strada per a Pareto; ma i Franzesi li seguitarono a corsa, e quella
colonna che s'era spartita al principio del fatto dalla destra schiera,
che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa siffattamente contro
i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi
sarebbero stati sterminati, se i due reggimenti piemontesi della Marina
e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero
fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia franzese che
gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due
mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più
di duecento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del
castello di Cosseria, perchè stretto già Provera, come abbiam detto,
dalla sete e della fame, perduta la speranza d'ogni aiuto poichè
vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi.
Argenteau, invece di soccorrere i difensori di Magliani coi cinque
o sei mila soldati che avea seco a Pareta, il che avrebbe potuto
facilmente cambiare la fortuna della giornata, li mandò a far massa ad
Acqui.
Questa fu la battaglia che meglio di Magliano, che di Millesimo, si
chiamerebbe, perchè a Magliano concorsero le principali forze delle due
parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. La notte
che seguì il giorno della battaglia, il tempo stato nuvoloso, diventò
piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo e per pensare i
Franzesi a tutt'altro, fuorchè il nemico vinto avesse a prendere così
tosto nuovo rigoglio ad assaltarli, si guardavano negligentemente,
e solo cinque a seicento vegliavano alla difesa delle trincee. Ed
ecco appunto che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich,
accompagnato dal luogotenente Lezzeni, con un corpo di circa cinque
mila soldati compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva
Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich
venisse tosto a raggiugnerlo al Dego ed a Magliani; ma per poca mente,
che anche la sventura gliela faceva girare, gli aveva indicato per la
mossa un giorno più tardi di quello che avesse in animo, dimodochè
il colonnello, invece di arrivare al dì 14, che forse avrebbe vinto
la battaglia, arrivava il 15. Non ostante che con sua gran maraviglia
avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico aveva
occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente, e già
urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente
i Franzesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma
nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiare le artiglierie, e
quel forte sito, che con tanta fatica e sangue avevano conquistato,
ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati, in un con
le artiglierie che munivano i luoghi, e con molta strage dei Franzesi,
che si diedero alla fuga.
Massena, a così fortunoso caso riscossosi e gettatosi al piano, frenava
primieramente l'impeto dei suoi che fuggivano verso il Colletto; poi
ordinatili di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del dì 14,
li conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non
era nemmeno Wukassovich: qui la battaglia divenne orrenda. La sinistra
era alle mani con le guardie avanzate austriache, che si difendevano
con singolare ardimento; la mezzana pativa assai, perchè i Tedeschi
fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi e impauriti si
nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce
rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di
ricuperazione, e postata dietro alla mezzana, impediva che coloro che
davano indietro passassero il Grillero. La colonna di mezzo, da lui
incoraggita e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto;
ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono e rincacciarono
sino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con
grave perdita; la destra non faceva frutto; già il quarto assalto
era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati
Laharpe. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano,
si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la
costanza austriaca. Dopo tanti rincalzi e tante stragi, incominciavano
i Franzesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva
l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosseria,
e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono
acremente la destra e la sinistra sui fianchi; la mezzana, ingrossata
e rinfrescata, assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano
gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle
case; cacciati dalle case, combattevano dalle boscaglie; finalmente
cacciati anche da queste e pressati da ogni banda, minacciosi e
rannodati si ritiravano.
Perdettero gli Austriaci in questa battaglia, tra morti, feriti e
prigionieri, sedici centinaia di buoni soldati con tutte le artiglierie
loro; ma non fu nemmeno senza sangue pei Franzesi la vittoria. Tra
morti feriti e prigionieri, mancarono più di ottocento soldati.
Argenteau errò in molti modi, e nella battaglia di Montenotte e dopo di
lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto
di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte
di quelle del nemico. Sollevossi fra l'austriaca gente un romore ed
uno sdegno grandissimo contro di lui; accusandolo tutti dell'infelice
successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle
quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista
d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a
Vienna, perchè fossevi preso dell'error suo da un consiglio di guerra
debito giudizio. Ma il nome di Wukassovich rimarrà nella memoria dei
posteri a giusto titolo glorioso, come di uno de' migliori guerrieri
de' nostri tempi.
Lo splendore della vittoria franzese fu oscurato dal furore del
sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a
profana, riempivano i paesi di terrori e di fughe. Queste enormità, che
tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali,
abbominavano i soldati buoni; ma quelli non potevano impedirle coi
comandamenti, nè questi con l'esempio. Serrurier, Chambarlac, Maugras,
Laharpe ne mossero gravissime lagnanze, e tanto si concitarono, che,
per non più vedere e dover comportare sì abbominevoli eccessi, chiedean
licenza a Buonaparte generale di potersene ire; soprattutto esclamavano
contro gli scellerati amministratori, che ridotti avevano i soldati
dell'italica oste od a farsi ladri ed assassini od a morir di fame.
Seguitando la narrazione dei fatti, dopo la vittoria di Magliano,
insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto
a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi;
nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto
di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè alcuni semi
di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di lor sorti,
e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i
Piemontesi di non avergli aiutati, i Piemontesi davano il medesimo
carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere
alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa
dissidenza dei capi accortosi Buonaparte, quantunque gli fosse stato
ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si
risolveva serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra
breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi
alle spalle, con maggiore speranza di vittoria alla conquista della
Lombardia. Voltò adunque il capitano di Francia del tutto i pensieri
a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza
dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare; la forza, con
perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle
truppe reali; l'astuzia, col tentar di far muovere i popoli con le
parole di libertà contra l'autorità del re. A questo era disposto per
sè e comandato dal direttorio, che tentasse per ogni mezzo di dare
spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse quanto più si ostinasse il
Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega e nella
guerra. Adunque ordinato ogni cosa, e collocato un grosso corpo nei
contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero
nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già
mandato con molte forze Augereau e Serrurier.
Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Maglioni,
e dopo che pel fatto di Cosseria era stato obbligato di lasciar
al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel
campo trincerato che per difesa della fortezza di Ceva era stato
ordinato alla Pedagiera ed alla Testa-nera, sito che signoreggia la
fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche
virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da
ambe le parti, nè vi fu modo di far piegare i regii che, con valore
difendendosi, respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa
fazione il 16 aprile. Pernottarono repubblicani e regii ai luoghi
loro; ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono
l'assalto più forte di prima, nel quale, sebbene animosamente si
difendessero i regii, temendo Colli di essere spuntato da' lati,
lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti, con
andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia
mette nel Tanaro. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani
subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi
fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono
i repubblicani superiori di numero l'esercito regio ne' campi della
Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto
che vi fece. Al 20 massimamente si combattè con molto sangue: pure
stettero fermi alla pruova i Piemontesi per modo che Serrurier si
ritirava assai malconcio e disordinato. In fine quel valoroso Massena,
il quale, nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la
sua potenza, passato, la notte del 21, il Tanaro a guado presso Ceva,
aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi
fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di
essere circondato da' repubblicani alle spalle: il che avrebbe condotto
quell'esercito, ultima speranza della monarchia piemontese, ad una
estrema rovina. Per lo che, levato il campo occultamente alle due
della notte, e conducendo seco tutte le artiglierie e le bagaglie, si
incamminava frettolosamente, ma ordinatamente, alla volta di Mondovì.
Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico,
dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia che i Franzesi chiamano
di Mondovì. Ma non fu battaglia giusta, che intento di Colli non era di
darla, ma solo di ritardar tanto il perseguitante nemico che potesse
condur in salvo le artiglierie ed il bagaglio, come potè conseguire,
mettendo ne' luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse
e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia in un forte alloggiamento
oltre la Stura, con Cuneo alla destra e Cherasco alla stanca. In tale
modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze,
una forte, l'altra debole, restavano soli impedimenti a' Franzesi,
onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne
repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino.
L'audace Buonaparte, non contento se prima non avesse rotto ogni
resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava
dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro impadronitosi d'Alba
per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la
foce della Stura, era in grado di passare il primo di questi fiumi e
di correre alle spalle de' Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare
a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva
operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori di Alba,
instigati principalmente da Bonafons, fuoruscito piemontese venuto
coi repubblicani, ed a cui erasi accostato un Ranza, uomo dabbene,
nè senza lettere, ma cervello disordinato, facessero un movimento
contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi costituire
in repubblica. Nè contenti a questo Bonafons e Ranza, procedendo
immoderatamente, mandavano altri bandi repubblicani al clero del
Piemonte e della Lombardia, siccome pure ai soldati Napolitani e
Piemontesi. Adunque, e per questi romori, e per esser padrone il nemico
del passo del Tanaro in Alba, e per essere Cherasco in sè stesso poco
difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato
Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di
Carignano.
Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o
far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un
nemico insolente e ad un governo disordinato e del tutto diverso
dal suo. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al
quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri
dello Stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a
Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che
in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consigli da
quei della lega, e desiderando sommamente di interrompere questa
cosa, non avevano mancato all'uffizio loro, con tenerlo continuamente
sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna e stesse in fede,
molte e molte cose rappresentandogli, e conchiudendo, considerasse
bene quanto da lui richiedessero Italia ed Europa, nè consentisse che
in lui più potesse un romor repentino che i veri interessi del suo
reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo costantissimo a voler continuare
nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o andrebbe
ramingo, se così fortuna volesse, non consentirebbe a pace con un
nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe
di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il
regno, non per motivi di Stato soltanto, ma sì ancora di religione,
parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole
aver per amici coloro che stimava eretici e nemici di Dio; temeva
la propagazione de' principii loro anche in Piemonte, ed abborriva
una pace ancor più rea verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa,
arcivescovo di Torino, personaggio, nel quale risplendevano ingegno,
dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato
in contrario, «essere il pericolo della ribellione imminente, la
necessità più forte della fede; il cacciare i Franzesi dal Piemonte
del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo
anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina,
quella lontana; riuscir più facile ai Franzesi l'invadere il Piemonte,
che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana,
perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi;
nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra,
pieno di ruberie, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena
si poteva resistere a' Franzesi, come si sarebbe potuto resistere ai
Franzesi stessi ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno?....
Sperar la guerra tanto felice ch'ella reintegrasse il re delle perdute
Savoia e Nizza per la forza dell'armi, esser piuttosto fola da infermi
che argomento d'uomini ragionevoli; all'incontro potere i Franzesi, dal
canto de' quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere
ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adequati compensi:
sì certamente essere infido quel franzese governo, ma poter tendere
maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie
lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare
degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non
che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione
straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i
sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra;
assai e pur troppo essersi fatto per mantenere la fede promessa;
dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti,
dimostrarlo le desolate campagne assai essersi soddisfatto all'onore,
ora doversi soddisfare all'esistenza.»
A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo
per lume proprio e per un conforto dell'avvocato Prina, Navarese, quel
medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore e
maestro singolare del comandare, piacque poi tanto per infelice suo
destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto
pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse
tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta
quella risoluzione che, sottraendo la monarchia piemontese da una
dipendenza verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia.
Allora veramente, e non più tardi, perì il reame di Sardegna, allora, e
non più tardi, perì la monarchia piemontese.
Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello ed il
cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult,
ministro della repubblica franzese. Al tempo medesimo fu fatto mandato
a Colli di domandare, ed al conte Delatour e marchese della Costa di
accordare una sospensione di offese col generale repubblicano; ma non
avendo Faipoult facoltà di negoziare, i commissarii s'incamminarono
tostamente alla volta di Parigi, affine di stabilire la pace e
l'amicizia con la repubblica. Intanto scrittosi da Colli a Buonaparte
si sospendessero le offese, rispose nè potere nè volere, se prima non
gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, di Alessandria e di
Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per
Ceva, che, oppugnata gagliardamente, con ugual gagliarda si difendeva.
Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima
monarchia de' Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di sè
medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la
tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro,
con questo che i repubblicani occupassero Cuneo il dì 28 aprile,
Tortona non più tardi del 30, la fortezza di Ceva subito dopo gli
accordi; restassero i Franzesi in possesso dei paesi conquistati oltre
la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare
pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati
dell'imperadore che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a
cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi
Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il
passo del Po, così stipulava che l'esercito di Francia potesse passare
il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della
tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi
ancor della pace.
A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligii, si
scoraggiano i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati;
spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa.
Volle anzi in questo la fortuna, solita ad addurre casi strani, che
le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava
le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi
arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava
la sua costanza di voler perseverare nella guerra essere inconcussa;
delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte
Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la
circolare rappresentandogli, la quale leggendo Ostermann, dava segni
di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del