Annali d'Italia, vol. 8 - 33
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che avrebbe dovuto od arrendersi o fuggire alla dirotta. Dovevano
secondare questa fazione a diritta Scherer con un assalto forte contro
Loano; Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo.
Appariva appena il giorno dei 23 novembre che Massena assaliva da due
bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano
a questo accidente impensato gli uffiziali tedeschi ai luoghi loro, e
già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella loro ordinanza.
La qual cosa dimostra l'inconsiderazione d'Argenteau, che, non
avendo presentito, com'era facile, quella tempesta, aveva permesso
che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse
un altro infortunio, e fu che Devins, afflitto da grave malattia, e
reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia,
da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a
Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet,
che davano la batteria, con molto valore insistendo tanto fecero,
che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico che si ritirava,
andando a farsi forte a Bardinetto. Qui nacque un nuovo e terribile
combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore,
vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con
tutte le sue forze Massena, giudicando che dalla prestezza del
combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente, dopo molte
ferite e molte morti da ambe le parti, prevalsero i repubblicani;
entrati forzatamente in Bardinetto, uccisero quanti resistevano,
presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le
artiglierie. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse le reliquie dei
confederati per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra
sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di
Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni s'impadronisse di
Melogno, ed al colonnello Suchet pigliasse Montecalvo, luogo arido e
quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si
era proposto; in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei
confederati, ma fu fatto abilità ai Franzesi di calarsi verso il mare
alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del
tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Ma perchè la sinistra
dei confederati non ricuperasse quello che la mezzana avea perduto,
Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati
avanti Loano ed alla forte terra di Toirano, li superava. Nei quali
fatti, aiutati anche da tiri di alcune navi franzesi che si erano
accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali
Augereau e Victor. Allora, tra per questo e per essersi Suchet,
ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer,
calato correndo alle spalle loro, si ritirarono i confederati verso
Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute
le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più
vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti
siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincierato di Ceva, dove
giungevano altresì lacerati e sbaragliati i residui della squadra
d'Argenteau, generale che fu cagione principale di questa rotta, per
imprevidenza prima del fatto, e per la nissuna avvedutezza nè costanza
nel combattimento. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava
non senza scompiglio, e seguitata dai Franzesi, sul litorale verso
Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più
intera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte e
conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile
misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Franzesi
nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno
seguente, che, condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare
velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel litorale,
e già la giungevano, con far molti prigionieri. Nè qui si contenne
l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla
vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di
essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era
comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle del Finale, e
da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cadente nemico,
dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente
San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta
improvvisa della mezzana, pressata da fronte, sul fianco ed alle
spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei
luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano
molto favore. Chi si potè salvare andò a formar la massa in Acqui, dove
i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnie dissipate;
chi non potè, cadde in balia del vincitore. Tutte le artiglierie,
gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto,
rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare
in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e
minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia.
Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e
perfino i violamenti delle miserande donne commessisi dai repubblicani
sul genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia che
aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore;
pubblicava che farebbe morire chi continuasse; prese anche l'ultimo
supplizio de' più rei; ma non udivano l'impero dei capitani, e nè
le minacce nè i supplizii spegnevano la scellerata rabbia. Non gli
scusava, perciocchè nissuna cosa può scusare sì eccessive enormità,
ch'eran stremi d'ogni vettovaglia e d'ogni fornimento, come l'esser
forniti abbondantemente d'ogni cosa necessaria al vivere di soldato
aggravava la colpa dei loro avversarii, che non si stettero immuni
da sì fatte colpe. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai
nemici, in preda al furore degli uni, in preda al furore degli altri,
«mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza e non
può difendersi con la forza.»
Anno di CRISTO MDCCXCVI. Indiz. XIV.
PIO VI papa 22.
FRANCESCO II imperadore 5.
A questo tempo avendo i collegati provato con molto danno loro qual
dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani
di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla
concordia e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere
più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani
ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il
benefizio del tempo, se accettassero. Per la qual cosa pensarono a
tentare la disposizione del direttorio di Francia, con introdurre
qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due
paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima
di tutta la mole, così da questa ed a nome di tutti procedettero le
proferte. Scriveva il dì 8 marzo del presente anno Wickam, ministro
d'Inghilterra appresso ai cantoni Svizzeri, a Barthelemi, ministro
di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere che la sua
corte desiderava di restare informata se la Francia aveva inclinazione
a negoziare con sua maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad
una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini; se a
ciò si risolvesse la Francia, mandasse ministri ad un congresso in
quel luogo che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti.
Desiderava altresì sapere quali fossero i generali fondamenti della
concordia che piacesse al direttorio di proporre, affinchè si potesse
esaminare se fossero accettabili, finalmente, se i mezzi proposti, non
fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche
modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual era del tutto
conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, nè avea in sè cosa
che potesse offendere l'animo del direttorio, fu molto risentitamente
udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di
quei governi repubblicani ed imperiali di Francia di voler insegnare
in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprii chi li
governa di chi non li governa; ed altresì a quell'uso affatto insolito
e veramente enorme di dar consigli o ad un amico o ad un nemico, e di
convertire in cagion di guerra il rifiuto di seguitarli. Il direttorio
comandava a Barthelemi che rispondesse, desiderare lui la pace, ma
desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volontieri le
proposte, se quel dire di Wickam, di non aver autorità di negoziare,
non desse sospetto intorno alla sincerità inglese. E qui veniano
le parole dottorali all'Inghilterra, dopo cui terminava; convenirsi
alla sincerità del direttorio il palesare apertamente a quali patti
ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la costituzione della
repubblica che niun paese di quelli che erano stati incorporati
al suo territorio da lui si scorporasse; delle altre conquiste si
negozierebbe. Qui parimente ebbe principio quel metodo veramente
incomportabile, usato dai governi che per venti anni l'uno all'altro
succedettero in Francia, di volere che una legge politica interna
diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.
Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter
consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se
non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non
si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace
concette dalle proferte di Basilea.
Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale, già perduto
mezzo lo Stato e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad
essere prima condotto all'ultima rovina che la guerra incominciasse
pure a romoreggiare sui confini de' suoi alleati. Conoscevano questi
la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi,
se le battaglie fossero riuscite infelicemente ed i repubblicani si
facessero strada nel cuor del Piemonte, si sarebbe forse alienato da
loro. Tentarono dunque il re, ammonendolo che si dichiarasse pel caso
d'un sinistro di guerra. Ridotto a queste strette, rispose animosamente
Vittorio che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe
nella fede, che non sarebbe per abbandonar la sua congiunzione; non
dubitassero che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza
dell'animo.
L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in
Italia, mandava a governare le genti, invece del Devins, più prudente
che ardito capitano, il generale Beaulieu, il quale, quantunque già
molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di
stare a fronte di quella furia franzese che meglio si può vincere col
prevenirla che coll'aspettarla. Ma quantunque fossero in Beaulieu
le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la
cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò
con sè tante forze quante sarebbero state necessarie. Oltre a ciò,
sebbene quando fu chiamato generalissimo in Italia, gli fosse stato
promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che, per difetto o d'animo o
di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova,
nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente
all'esercito, ma ancora rettore d'una forte divisione di soldati: il
che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro
presagio. Nè Beaulieu medesimo era tale che potesse convenientemente
governare capitani e genti di diverse lingue e di diverse nazioni,
tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che, più temuto
che amato dai suoi e dai forastieri, era piuttosto obbedito per forza
che per volontà. Nè i nobili piemontesi, che sentivano molto altamente
di loro medesimi, lo avevano a grado. E Colli, che reggeva sovranamente
l'esercito regio ed al quale non mancava nè perizia nè virtù militare,
non vivea concorde col capitano austriaco. Questo fu cagione che,
contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbii
però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava
l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe
richiesto.
Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra,
partendo dalla vicinanza di Serravalle, si distendeva fino alla
destra sponda della Bormida; quivi incominciava il corno sinistro
de' Piemontesi, che si prolungava fino alla Stura, appoggiandosi
coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Ma siccome
quello di cui stavano in maggior gelosia gli Austriaci, erano le
possessioni loro in Lombardia, così si erano molto ingrossati nei
contorni di Alessandria e di Tortona; ed avrebbero desiderato, per
maggior sicurezza delle cose aver in mano la fortezza di Tortona
stessa; e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita
costanza dinegato dal re, il quale, ancorchè posto nell'ultima
necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa
conservarsi. Tal era adunque la condizione de' tempi, che il re di
Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo Stato,
l'imperador di Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del
Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa
per l'autorità della santa Sede e per l'incolumità della religione;
Venezia sperava nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità
coll'Austria e nell'amicizia colla Francia; Parma e Modena, nè in pace
nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti.
Risoluzione principalissima de' reggitori franzesi era di far potente
impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti
i pensieri loro. A questo si muovevano non solo per desiderio di
pascere l'esercito in un paese ricco ed ancora intatto, ma eziandio
per la speranza che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio
che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero
manifestati a favor loro in tutte od in alcune corti d'Europa
cambiamenti di importanza. Più special fine loro in tutto questo era di
costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale, speravano
di trovar in Italia per la forza delle armi compensi ad offerire a
quel principe in iscambio de' Paesi Bassi, che ad ogni modo voleano
conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano che
ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata
alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i
più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. Al qual
primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni
loro: del modo, o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano.
Siccome quando si vuol perdere qualcheduno, ei s'incomincia a
fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto
di ostilità, così i Franzesi uscirono con richiedere Venezia che
scacciasse da' suoi Stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela
del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dello
infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava
al governo repubblicano di Francia che il conte se ne stesse negli
Stati veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che
altrove; perchè, se era pericoloso per quel governo che dimorasse in
paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in
favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto
od all'esercito del principe di Condè o negli Stati delle potenze in
guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di
querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo
la morte di Luigi XVII, avesse assunto la dignità reale, e fosse in
grado di re tenuto da' fuorusciti franzesi, dal ministro di Spagna
Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof e dal ministro d'Inghilterra
Macarteney, che appresso di lui era stato mandato appositamente dal re
Giorgio, il senato veneto non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente
nè trattato da re; che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre
sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti
che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile
condiscendenza, vivendosene assai ritirato in una villa del conte di
Gazola; nel quale contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con
le stampe della veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che
fece, nella sua esaltazione, alla nazione franzese; che se poi nelle
sue azioni segrete ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per
ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si
potesse imputare alla repubblica di Venezia.
Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni,
lo sdegno del direttorio di Francia; perchè, mentre superbamente
comandava al senato veneto che allontanasse da' suoi dominii il
conte di Lilla, sopportava molto pazientemente che l'ambasciador di
Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui,
come col re di Francia, di affari pubblici trattasse: il che era di
ben altra importanza che il dare ricovero ad un principe infelice e
perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia. Scriveva dunque,
il primo marzo del presente anno, in nome e per ordine del direttorio,
il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in
Parigi, che poichè Luigi Stanislo Saverio non aveva dubitato di operare
in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia,
si era reso indegno all'asilo concedutogli dalla umanità del senato:
richiedeva pertanto e domandava fossene privato, e gli si desse bando
da tutti i territorii veneziani.
Posto in senato il partito se dovesse la repubblica adempiere
la richiesta del governo franzese, ancorchè il procurator Pesaro
generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla
repubblica la bruttezza del fatto e l'antica generosità di Venezia,
fu vinto con cento cinquanta sei voti favorevoli e quaranta sette
contrarii. Orarono in questo fatto contro l'opinione del Pesaro i savii
del consiglio Alessandro Marcello, Nicolò Foscarini e Pietro Zeno,
rappresentando che la pietà verso un principe forestiero non doveva più
operare negli animi dei padri che la carità verso la patria. Brutta
certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad
alcun modo scusabile e tanto meno quanto si vedeva chiaramente che il
vituperio non avrebbe bastato a partorir salute.
Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del
partito dal senato preso. Delegossi a far l'ufficio il segretario
Giuseppe Gradenigo ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze
del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal
conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti,
eseguirono quello che dalla signoria era stato loro comandato. A tale
annunzio rispose gravemente: partirebbe, ma per forza; gli si portasse
intanto il libro d'oro, che ne cancellerebbe di sua mano il nome dei
Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico IV, suo glorioso
avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il
dimorar più lungamente in un dominio che per debolezza obbediva ai
comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza
dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito
dei Franzesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che
partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato,
acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'oro il nome dei Borboni,
e l'armatura di Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli
rammentava, che per l'affezione e la fede che aveva posta in lui, gli
affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il
ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine e gli raccomandava
i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte di Entraigues, che nel
dominio dei Veneziani rimanevano.
Intanto per gli uffizii fatti per ordine del senato dai ministri
veneziani presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice
delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del
conte, si acquetò il negozio del libro d'oro e dell'armatura di Enrico.
Oggimai si avvicinano le calamità d'Italia. «La tirannide sotto nome
di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri
ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente
ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà e
disprezzarli, un incitarli contro i re ed un perseguitarli per piacere
ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza, non come mezzo
di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le
più sante cose antiche stuprate per derisione o per ladroneccio, le
più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un
rubar di monti di pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di
ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare
ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la
prepotenza ha di più insolente.... conculcata hanno e desolata in
fondo la miseranda Italia. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il
giardino dell'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle
arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la
fecero segno di rispetto, ma sì di preda e di derisione.»
Era risoluzione irrevocabile del governo franzese in quest'anno di
tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di
correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie
spianate, le armi pronte, gli animi de' soldati accesi, la fame stessa
che li tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in
un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta
mole, poichè, giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi
usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'europea guerra,
mancava un generale capace di mente, invitto d'animo e d'audacia pari
alle difficoltà che si prevedevano. Fecero adunque avviso di mandare
la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di
buon guerriero per le cose fatte a Tolone e nella riviera. Presentendo
egli, per la vastità e la forze dell'animo suo, quello che fosse capace
di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse,
non cessava di sollecitare e d'infestare con tenacissima perseveranza
e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la
condotta dell'italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni
motivi segreti che si spiegheranno in progresso, i quali, se non
sarebbero piaciuti a Carnot ed a Lareveillère Lepeaux, quinqueviri, che
gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto specie
di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo
si aggiunse un matrimonio ch'ei fece grato a Barras, sposandosi con
Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro
Beauharnais.
Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato e di cupidità
ardentissima di dominio fu commessa da chi reggeva la Francia, in
iscambio di Scherer, del cui ingegno frutto era il primo disegno
d'invadere l'Italia, l'opera di conquistare l'Italia. Nè così tosto
ei giunse al governo dell'esercito, che mostrò quanto fosse nato
per comandare; imperciocchè, quantunque più giovine di tutti i suoi
predecessori, si compose in maggior dignità, e, non dimesticandosi con
nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore
fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau
e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque che i nodi
dell'esercito viemmaggiormente si ristrinsero, furono i soldati più
pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto.
Era l'esercito finito di ben cinquanta mila combattenti, poveri sì di
arnesi e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio e forti di
volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori d'Italia
li rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle
speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano
franzese quanto volesse, purchè battesse l'Austriaco, il separasse dal
Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro e la fortezza di Gavi; se
Genova non desse Gavi per amore, lo prendesse per forza; instigasse
i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente o particolarmente
insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza o per arte subdola;
quel che segue per sete di rapina, conciossiacchè mandavagli facesse
una subita correria contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia
atterrita, rapite le ricchezze ed involati i voti appesi da' fedeli
in tanti secoli: tanto era smisurata in quel governo la cupidità del
rapire e del fare di ogni erba fascio.
Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe
con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena ed a
sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte de'
Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore.
Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana
schiera de' confederati, acciocchè, rotta che ella fosse, potesse
entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo
intento, i primi si sarebbero ritirati nell'Oltre-Po, i secondi,
rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva,
facilmente accettato gli accordi, separandosi dalla confederazione
dell'imperadore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosia
avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda
strada della Bocchetta accennava Milano, aveva ordinato a Cervoni
occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo, fece marciare
da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora
dell'Acquasanta, strada che mette direttamente alla Bocchetta; e questa
squadra conduceva con sè molti pezzi di artiglierie sì grosse che
minute.
Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso
ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si
raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni
franzesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in
Sassello una grossa schiera composta di dieci mila Austriaci e quattro
mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel
mezzo della fronte francese, e, dopo di averlo fracassato, riuscire
a Savona, con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e
presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti.
Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di
accostarsi a tempo del conflitto in aiuto della mezzana, si era
risoluto ad assaltar questa terra. Il dì 10 aprile, circa le tre
pomeridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti
e quattro bocche da fuoco. Alcune navi da guerra inglesi secondavano lo
sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Franzesi
rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi
padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato
la battaglia più per tempo, tutta la forza franzese di Voltri sarebbe
stata o morta o presa; ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della
quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio
ed alla Madonna di Savona.
In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada;
anzi, mossisi da Sassello, assaltarono grossi ed impetuosi le trincee
estemporanee fatte dai Franzesi a Montenotte. Difendeva i Franzesi la
fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero; gli uni
e gli altri infiammava un incredibile valore: stava in mezzo, qual
premio al vincitore, l'innocente l'Italia. Si combattè coi cannoni,
coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Franzesi a
sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza.
Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi ad entrare per bella
forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva
a conquistarsi la terza; contro di lei voltarono i Tedeschi tutto
secondare questa fazione a diritta Scherer con un assalto forte contro
Loano; Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo.
Appariva appena il giorno dei 23 novembre che Massena assaliva da due
bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano
a questo accidente impensato gli uffiziali tedeschi ai luoghi loro, e
già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella loro ordinanza.
La qual cosa dimostra l'inconsiderazione d'Argenteau, che, non
avendo presentito, com'era facile, quella tempesta, aveva permesso
che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse
un altro infortunio, e fu che Devins, afflitto da grave malattia, e
reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia,
da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a
Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet,
che davano la batteria, con molto valore insistendo tanto fecero,
che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico che si ritirava,
andando a farsi forte a Bardinetto. Qui nacque un nuovo e terribile
combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore,
vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con
tutte le sue forze Massena, giudicando che dalla prestezza del
combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente, dopo molte
ferite e molte morti da ambe le parti, prevalsero i repubblicani;
entrati forzatamente in Bardinetto, uccisero quanti resistevano,
presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le
artiglierie. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse le reliquie dei
confederati per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra
sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di
Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni s'impadronisse di
Melogno, ed al colonnello Suchet pigliasse Montecalvo, luogo arido e
quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si
era proposto; in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei
confederati, ma fu fatto abilità ai Franzesi di calarsi verso il mare
alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del
tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Ma perchè la sinistra
dei confederati non ricuperasse quello che la mezzana avea perduto,
Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati
avanti Loano ed alla forte terra di Toirano, li superava. Nei quali
fatti, aiutati anche da tiri di alcune navi franzesi che si erano
accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali
Augereau e Victor. Allora, tra per questo e per essersi Suchet,
ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer,
calato correndo alle spalle loro, si ritirarono i confederati verso
Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute
le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più
vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti
siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincierato di Ceva, dove
giungevano altresì lacerati e sbaragliati i residui della squadra
d'Argenteau, generale che fu cagione principale di questa rotta, per
imprevidenza prima del fatto, e per la nissuna avvedutezza nè costanza
nel combattimento. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava
non senza scompiglio, e seguitata dai Franzesi, sul litorale verso
Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più
intera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte e
conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile
misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Franzesi
nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno
seguente, che, condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare
velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel litorale,
e già la giungevano, con far molti prigionieri. Nè qui si contenne
l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla
vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di
essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era
comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle del Finale, e
da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cadente nemico,
dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente
San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta
improvvisa della mezzana, pressata da fronte, sul fianco ed alle
spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei
luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano
molto favore. Chi si potè salvare andò a formar la massa in Acqui, dove
i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnie dissipate;
chi non potè, cadde in balia del vincitore. Tutte le artiglierie,
gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto,
rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare
in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e
minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia.
Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e
perfino i violamenti delle miserande donne commessisi dai repubblicani
sul genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia che
aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore;
pubblicava che farebbe morire chi continuasse; prese anche l'ultimo
supplizio de' più rei; ma non udivano l'impero dei capitani, e nè
le minacce nè i supplizii spegnevano la scellerata rabbia. Non gli
scusava, perciocchè nissuna cosa può scusare sì eccessive enormità,
ch'eran stremi d'ogni vettovaglia e d'ogni fornimento, come l'esser
forniti abbondantemente d'ogni cosa necessaria al vivere di soldato
aggravava la colpa dei loro avversarii, che non si stettero immuni
da sì fatte colpe. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai
nemici, in preda al furore degli uni, in preda al furore degli altri,
«mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza e non
può difendersi con la forza.»
Anno di CRISTO MDCCXCVI. Indiz. XIV.
PIO VI papa 22.
FRANCESCO II imperadore 5.
A questo tempo avendo i collegati provato con molto danno loro qual
dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani
di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla
concordia e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere
più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani
ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il
benefizio del tempo, se accettassero. Per la qual cosa pensarono a
tentare la disposizione del direttorio di Francia, con introdurre
qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due
paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima
di tutta la mole, così da questa ed a nome di tutti procedettero le
proferte. Scriveva il dì 8 marzo del presente anno Wickam, ministro
d'Inghilterra appresso ai cantoni Svizzeri, a Barthelemi, ministro
di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere che la sua
corte desiderava di restare informata se la Francia aveva inclinazione
a negoziare con sua maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad
una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini; se a
ciò si risolvesse la Francia, mandasse ministri ad un congresso in
quel luogo che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti.
Desiderava altresì sapere quali fossero i generali fondamenti della
concordia che piacesse al direttorio di proporre, affinchè si potesse
esaminare se fossero accettabili, finalmente, se i mezzi proposti, non
fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche
modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual era del tutto
conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, nè avea in sè cosa
che potesse offendere l'animo del direttorio, fu molto risentitamente
udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di
quei governi repubblicani ed imperiali di Francia di voler insegnare
in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprii chi li
governa di chi non li governa; ed altresì a quell'uso affatto insolito
e veramente enorme di dar consigli o ad un amico o ad un nemico, e di
convertire in cagion di guerra il rifiuto di seguitarli. Il direttorio
comandava a Barthelemi che rispondesse, desiderare lui la pace, ma
desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volontieri le
proposte, se quel dire di Wickam, di non aver autorità di negoziare,
non desse sospetto intorno alla sincerità inglese. E qui veniano
le parole dottorali all'Inghilterra, dopo cui terminava; convenirsi
alla sincerità del direttorio il palesare apertamente a quali patti
ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la costituzione della
repubblica che niun paese di quelli che erano stati incorporati
al suo territorio da lui si scorporasse; delle altre conquiste si
negozierebbe. Qui parimente ebbe principio quel metodo veramente
incomportabile, usato dai governi che per venti anni l'uno all'altro
succedettero in Francia, di volere che una legge politica interna
diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.
Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter
consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se
non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non
si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace
concette dalle proferte di Basilea.
Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale, già perduto
mezzo lo Stato e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad
essere prima condotto all'ultima rovina che la guerra incominciasse
pure a romoreggiare sui confini de' suoi alleati. Conoscevano questi
la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi,
se le battaglie fossero riuscite infelicemente ed i repubblicani si
facessero strada nel cuor del Piemonte, si sarebbe forse alienato da
loro. Tentarono dunque il re, ammonendolo che si dichiarasse pel caso
d'un sinistro di guerra. Ridotto a queste strette, rispose animosamente
Vittorio che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe
nella fede, che non sarebbe per abbandonar la sua congiunzione; non
dubitassero che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza
dell'animo.
L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in
Italia, mandava a governare le genti, invece del Devins, più prudente
che ardito capitano, il generale Beaulieu, il quale, quantunque già
molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di
stare a fronte di quella furia franzese che meglio si può vincere col
prevenirla che coll'aspettarla. Ma quantunque fossero in Beaulieu
le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la
cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò
con sè tante forze quante sarebbero state necessarie. Oltre a ciò,
sebbene quando fu chiamato generalissimo in Italia, gli fosse stato
promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che, per difetto o d'animo o
di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova,
nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente
all'esercito, ma ancora rettore d'una forte divisione di soldati: il
che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro
presagio. Nè Beaulieu medesimo era tale che potesse convenientemente
governare capitani e genti di diverse lingue e di diverse nazioni,
tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che, più temuto
che amato dai suoi e dai forastieri, era piuttosto obbedito per forza
che per volontà. Nè i nobili piemontesi, che sentivano molto altamente
di loro medesimi, lo avevano a grado. E Colli, che reggeva sovranamente
l'esercito regio ed al quale non mancava nè perizia nè virtù militare,
non vivea concorde col capitano austriaco. Questo fu cagione che,
contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbii
però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava
l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe
richiesto.
Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra,
partendo dalla vicinanza di Serravalle, si distendeva fino alla
destra sponda della Bormida; quivi incominciava il corno sinistro
de' Piemontesi, che si prolungava fino alla Stura, appoggiandosi
coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Ma siccome
quello di cui stavano in maggior gelosia gli Austriaci, erano le
possessioni loro in Lombardia, così si erano molto ingrossati nei
contorni di Alessandria e di Tortona; ed avrebbero desiderato, per
maggior sicurezza delle cose aver in mano la fortezza di Tortona
stessa; e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita
costanza dinegato dal re, il quale, ancorchè posto nell'ultima
necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa
conservarsi. Tal era adunque la condizione de' tempi, che il re di
Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo Stato,
l'imperador di Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del
Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa
per l'autorità della santa Sede e per l'incolumità della religione;
Venezia sperava nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità
coll'Austria e nell'amicizia colla Francia; Parma e Modena, nè in pace
nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti.
Risoluzione principalissima de' reggitori franzesi era di far potente
impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti
i pensieri loro. A questo si muovevano non solo per desiderio di
pascere l'esercito in un paese ricco ed ancora intatto, ma eziandio
per la speranza che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio
che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero
manifestati a favor loro in tutte od in alcune corti d'Europa
cambiamenti di importanza. Più special fine loro in tutto questo era di
costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale, speravano
di trovar in Italia per la forza delle armi compensi ad offerire a
quel principe in iscambio de' Paesi Bassi, che ad ogni modo voleano
conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano che
ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata
alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i
più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. Al qual
primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni
loro: del modo, o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano.
Siccome quando si vuol perdere qualcheduno, ei s'incomincia a
fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto
di ostilità, così i Franzesi uscirono con richiedere Venezia che
scacciasse da' suoi Stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela
del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dello
infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava
al governo repubblicano di Francia che il conte se ne stesse negli
Stati veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che
altrove; perchè, se era pericoloso per quel governo che dimorasse in
paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in
favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto
od all'esercito del principe di Condè o negli Stati delle potenze in
guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di
querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo
la morte di Luigi XVII, avesse assunto la dignità reale, e fosse in
grado di re tenuto da' fuorusciti franzesi, dal ministro di Spagna
Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof e dal ministro d'Inghilterra
Macarteney, che appresso di lui era stato mandato appositamente dal re
Giorgio, il senato veneto non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente
nè trattato da re; che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre
sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti
che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile
condiscendenza, vivendosene assai ritirato in una villa del conte di
Gazola; nel quale contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con
le stampe della veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che
fece, nella sua esaltazione, alla nazione franzese; che se poi nelle
sue azioni segrete ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per
ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si
potesse imputare alla repubblica di Venezia.
Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni,
lo sdegno del direttorio di Francia; perchè, mentre superbamente
comandava al senato veneto che allontanasse da' suoi dominii il
conte di Lilla, sopportava molto pazientemente che l'ambasciador di
Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui,
come col re di Francia, di affari pubblici trattasse: il che era di
ben altra importanza che il dare ricovero ad un principe infelice e
perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia. Scriveva dunque,
il primo marzo del presente anno, in nome e per ordine del direttorio,
il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in
Parigi, che poichè Luigi Stanislo Saverio non aveva dubitato di operare
in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia,
si era reso indegno all'asilo concedutogli dalla umanità del senato:
richiedeva pertanto e domandava fossene privato, e gli si desse bando
da tutti i territorii veneziani.
Posto in senato il partito se dovesse la repubblica adempiere
la richiesta del governo franzese, ancorchè il procurator Pesaro
generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla
repubblica la bruttezza del fatto e l'antica generosità di Venezia,
fu vinto con cento cinquanta sei voti favorevoli e quaranta sette
contrarii. Orarono in questo fatto contro l'opinione del Pesaro i savii
del consiglio Alessandro Marcello, Nicolò Foscarini e Pietro Zeno,
rappresentando che la pietà verso un principe forestiero non doveva più
operare negli animi dei padri che la carità verso la patria. Brutta
certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad
alcun modo scusabile e tanto meno quanto si vedeva chiaramente che il
vituperio non avrebbe bastato a partorir salute.
Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del
partito dal senato preso. Delegossi a far l'ufficio il segretario
Giuseppe Gradenigo ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze
del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal
conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti,
eseguirono quello che dalla signoria era stato loro comandato. A tale
annunzio rispose gravemente: partirebbe, ma per forza; gli si portasse
intanto il libro d'oro, che ne cancellerebbe di sua mano il nome dei
Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico IV, suo glorioso
avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il
dimorar più lungamente in un dominio che per debolezza obbediva ai
comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza
dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito
dei Franzesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che
partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato,
acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'oro il nome dei Borboni,
e l'armatura di Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli
rammentava, che per l'affezione e la fede che aveva posta in lui, gli
affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il
ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine e gli raccomandava
i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte di Entraigues, che nel
dominio dei Veneziani rimanevano.
Intanto per gli uffizii fatti per ordine del senato dai ministri
veneziani presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice
delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del
conte, si acquetò il negozio del libro d'oro e dell'armatura di Enrico.
Oggimai si avvicinano le calamità d'Italia. «La tirannide sotto nome
di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri
ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente
ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà e
disprezzarli, un incitarli contro i re ed un perseguitarli per piacere
ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza, non come mezzo
di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le
più sante cose antiche stuprate per derisione o per ladroneccio, le
più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un
rubar di monti di pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di
ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare
ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la
prepotenza ha di più insolente.... conculcata hanno e desolata in
fondo la miseranda Italia. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il
giardino dell'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle
arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la
fecero segno di rispetto, ma sì di preda e di derisione.»
Era risoluzione irrevocabile del governo franzese in quest'anno di
tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di
correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie
spianate, le armi pronte, gli animi de' soldati accesi, la fame stessa
che li tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in
un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta
mole, poichè, giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi
usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'europea guerra,
mancava un generale capace di mente, invitto d'animo e d'audacia pari
alle difficoltà che si prevedevano. Fecero adunque avviso di mandare
la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di
buon guerriero per le cose fatte a Tolone e nella riviera. Presentendo
egli, per la vastità e la forze dell'animo suo, quello che fosse capace
di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse,
non cessava di sollecitare e d'infestare con tenacissima perseveranza
e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la
condotta dell'italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni
motivi segreti che si spiegheranno in progresso, i quali, se non
sarebbero piaciuti a Carnot ed a Lareveillère Lepeaux, quinqueviri, che
gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto specie
di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo
si aggiunse un matrimonio ch'ei fece grato a Barras, sposandosi con
Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro
Beauharnais.
Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato e di cupidità
ardentissima di dominio fu commessa da chi reggeva la Francia, in
iscambio di Scherer, del cui ingegno frutto era il primo disegno
d'invadere l'Italia, l'opera di conquistare l'Italia. Nè così tosto
ei giunse al governo dell'esercito, che mostrò quanto fosse nato
per comandare; imperciocchè, quantunque più giovine di tutti i suoi
predecessori, si compose in maggior dignità, e, non dimesticandosi con
nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore
fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau
e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque che i nodi
dell'esercito viemmaggiormente si ristrinsero, furono i soldati più
pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto.
Era l'esercito finito di ben cinquanta mila combattenti, poveri sì di
arnesi e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio e forti di
volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori d'Italia
li rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle
speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano
franzese quanto volesse, purchè battesse l'Austriaco, il separasse dal
Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro e la fortezza di Gavi; se
Genova non desse Gavi per amore, lo prendesse per forza; instigasse
i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente o particolarmente
insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza o per arte subdola;
quel che segue per sete di rapina, conciossiacchè mandavagli facesse
una subita correria contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia
atterrita, rapite le ricchezze ed involati i voti appesi da' fedeli
in tanti secoli: tanto era smisurata in quel governo la cupidità del
rapire e del fare di ogni erba fascio.
Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe
con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena ed a
sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte de'
Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore.
Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana
schiera de' confederati, acciocchè, rotta che ella fosse, potesse
entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo
intento, i primi si sarebbero ritirati nell'Oltre-Po, i secondi,
rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva,
facilmente accettato gli accordi, separandosi dalla confederazione
dell'imperadore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosia
avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda
strada della Bocchetta accennava Milano, aveva ordinato a Cervoni
occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo, fece marciare
da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora
dell'Acquasanta, strada che mette direttamente alla Bocchetta; e questa
squadra conduceva con sè molti pezzi di artiglierie sì grosse che
minute.
Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso
ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si
raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni
franzesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in
Sassello una grossa schiera composta di dieci mila Austriaci e quattro
mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel
mezzo della fronte francese, e, dopo di averlo fracassato, riuscire
a Savona, con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e
presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti.
Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di
accostarsi a tempo del conflitto in aiuto della mezzana, si era
risoluto ad assaltar questa terra. Il dì 10 aprile, circa le tre
pomeridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti
e quattro bocche da fuoco. Alcune navi da guerra inglesi secondavano lo
sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Franzesi
rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi
padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato
la battaglia più per tempo, tutta la forza franzese di Voltri sarebbe
stata o morta o presa; ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della
quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio
ed alla Madonna di Savona.
In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada;
anzi, mossisi da Sassello, assaltarono grossi ed impetuosi le trincee
estemporanee fatte dai Franzesi a Montenotte. Difendeva i Franzesi la
fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero; gli uni
e gli altri infiammava un incredibile valore: stava in mezzo, qual
premio al vincitore, l'innocente l'Italia. Si combattè coi cannoni,
coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Franzesi a
sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza.
Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi ad entrare per bella
forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva
a conquistarsi la terza; contro di lei voltarono i Tedeschi tutto
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