Annali d'Italia, vol. 8 - 32

fregata l'Incostante e dal vascello l'Agamennone, si difese bensì
gagliardamente, soccorso da' suoi sino a notte, ma per la difficoltà
del muoversi continuando tuttavia a rimanere troppo più vicino agli
Inglesi che la salute sua non richiedesse, come anche la nave il
Censore che l'aveva aiutato. Questi accidenti, parte inevitabili, parte
fortuiti, furono cagione che la mattina del 14 fossero queste due
navi nuovamente assaltate. Contrastarono esse con tanto valore, che
gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro di
rapirle. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso, ma furono
anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane,
che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò
per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Ma finalmente le due navi
della repubblica, non potendo pel silenzio dei venti essere aiutate
dal grosso dell'armata, calata la tenda, si arrenderono. Continuava
agl'Inglesi il benefizio del vento; alla fine, essendosi messa una
brezza leggiera anche pei Franzesi, se ne prevalsero, solo per altro
per ritirarsi con minor danno che possibil fosse da quel campo di
battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì
poco ordinata nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; ma un cattivo
consiglio fu compensato da un valore inestimabile, sì che gl'Inglesi
medesimi ne restarono maravigliati. Assicurò per allora questa vittoria
le cose di Corsica a favor degl'Inglesi.
Questa fu la battaglia del capo di Noli, nella quale fu pari da
ambe le parti il valore, ma maggiore dalla parte degli Inglesi la
perizia e l'ubbidienza dei capitani minori. Così fu sturbata ai
Franzesi l'impresa di Corsica, diventarono i nemici loro padroni del
Mediterraneo, le provincie meridionali di Francia penuriarono vieppiù
di vettovaglie, i repubblicani sulla riviera di Ponente furono a tali
strette ridotti, che se si mostrarono mirabili nel vincere i pericoli
della guerra, più ancora diedero maraviglia nel superare gli stimoli
della fame.
In questo mentre si ebbero le novelle della pace conclusa tra la
repubblica franzese e il re di Prussia, accidente gravissimo e che
diede molta alterazione agli alleati, sì per l'opinione come per
la diminuzione di forze che a loro ne veniva. Non potè però fare
che l'imperator d'Alemagna ed il re di Sardegna non rimanessero in
costanza; anzi cominciando a manifestarsi in Piemonte gli effetti del
trattato di Valenciennes, pel grosso numero di Tedeschi che vi erano
arrivati, malgrado l'alienazione della Prussia, alzarono la mente a più
importanti pensieri, colla speranza di cacciar del tutto i repubblicani
dalla riviera di Genova. Per la qual cosa avviate le genti loro verso
il Cairo, dal quale i Franzesi si erano ritirati, ed occupata la
sommità dei monti, già inclinavano a qualche fatto memorabile.
Erano in tal modo ordinati i confederati, che l'ala loro sinistra
guidata dal generale Wallis faceva sembiante di volersi impadronire di
Savona, e di assaltare i Franzesi che si erano fortificati al ponte
di Vado: il mezzo, dov'era presente il generalissimo Devins, e che
era il nervo principale, minacciava di voltarsi al cammino dei siti
molto importanti di San Giacomo e di Melogno; la destra, che obbediva
al generale Argenteau, dava a dubitare che, con impeto improvviso
avanzandosi, andasse a riuscire a Finale. Una grossa squadra di
cavalleria piemontese stanziava presso a Cuneo, pronta a passar le Alpi
o gli Apennini ove la fortuna aprisse qualche adito alla vittoria.
Corpi sufficienti di truppe, massime piemontesi, munivano le valli
di Stura, di Susa e d'Aosta sotto la condotta dei duchi d'Aosta e di
Monferrato. Davano gran forza a tutte queste genti i Barbetti, come
li chiamavano, i quali, gente piuttosto da strada che da milizia,
nascondendosi spediti e leggieri nei luoghi più ermi e precipitosi
delle nizzarde montagne, erano assai pronti a spiare le mosse
dell'inimico, a sorprendere le vettovaglie, e ad uccidere, spesso anche
crudelmente, gli spicciolati. Usavano somma barbarie nel difendere la
regia causa; nè i comandamenti del re, che desiderava di metter ordine
e moderazione fra di loro, bastavano per frenar appetiti così smoderati
e disumani.
Dall'altra parte i Franzesi governati dal Kellerman erano molto intenti
alle provvisioni per resistere ai confederati, quantunque l'esercito
loro non pareggiasse di numero quel della lega. La loro ala dritta,
sotto l'imperio di Massena, stanziava colla estremità sua a Vado,
e distendendosi pei monti arrivava insino alla valle del Tanaro.
Quivi incominciava la parte mezzana, che pel colle di Tenda andava a
congiungersi sul Gabbione con la sinistra che muniva i colli di Raus e
delle Finestre, e le valli della Vesubia e della Tinea.
Era Savona sito di molta importanza sì per l'opportunità del porto,
sì pel suo castello munitissimo. L'una parte e l'altra, non portando
rispetto alla neutralità di Genova, desideravano d'impadronirsene
o per insidia o per una battaglia di mano. Fuvvi sotto le sue
mura un'abbaruffata fra i repubblicani, che vi erano venuti, e i
confederati, che li volevano pigliare: rifulse in questo fatto la
virtù del governatore Spinola, che serbò la neutralità e la piazza,
costringendo le due parti a levarsene.
A questa incomposta avvisaglia successero assai tosto battaglie
grossissime. Vedevano i confederati essere loro di somma importanza
lo scacciare i repubblicani dalla riviera di Genova, perchè, se a
ciò non riuscissero, la Lombardia austriaca sarebbe sempre stata in
grave pericolo, e la difesa del re di Sardegna, non che difficile,
quasi impossibile. Assai lunga era la fronte dell'esercito franzese:
il romperlo in mezzo era un vincerla tutta. Si risolvettero adunque a
fare impeto principalmente contro i monti di San Giacomo e di Melogno,
onde riuscisse loro di tagliar fuori l'ala dritta dei Franzesi dalle
due altre parti. Pensarono altresì ad assaltare fortemente il luogo
di Vado, dove i repubblicani s'erano molto fortificati, perchè, se la
fortuna fosse stata per loro anche qui propizia, si sarebbe allargato
subitamente lo spazio dove gl'Inglesi potevano approdare. Pertanto
gli Austriaci assalirono con grandissimo valore il posto di Vado,
già inclinando verso il suo fine il mese di giugno; risposero con
eguale virtù i Franzesi guidati da Laharpe, e tanto fecero che non si
piegarono punto, anzi ributtarono valorosamente il nemico, più valoroso
ed impetuosissimo. Questo fu uno dei fatti della presente guerra per
cui si devono accrescere le laudi dei Franzesi pel valor dimostrato e
per la perizia del saper prendere i luoghi e dell'usar le occasioni;
ma non con pari fortuna combatterono sui monti di San Giacomo e di
Melogno; perchè una grossa schiera di Austriaci condotti da Devins
assaltava impetuosissimamente tutti i posti che munivano le alture
del primo: varii furono gli assalti, varie le difese, molti i morti,
molti i feriti da ambe le parti; durò ben sette ore la battaglia,
nè ben si poteva prevedere quale avesse a prevalere, o la costanza
austriaca o la vivacità franzese, avvegnachè quegli alpestri gioghi
già fossero contaminati di cadaveri e di sangue. Finalmente declinò
la fortuna dei Franzesi; gli Austriaci, che prevedevano che da quella
fazione dipendeva tutto l'evento della ligustica guerra, fatto un
estremo sforzo, riuscirono, cacciatone di viva forza gli avversati,
sulla sommità del monte. Con pari disavvantaggio procedevano le cose
dei Franzesi a Melogno, custodito solamente da due battaglioni. Lo
attaccava Argenteau con cinque mila soldati fioritissimi, e dopo breve
contrasto facilmente se lo recava in mano. Come prima ebbe Kellerman
avviso della perdita di Melogno, mandava Massena con un grosso di
quattro battaglioni valentissimi a far opera di ricuperarlo; il che era
non di somma, ma di estrema importanza. Usarono i soldati di Massena
molto opportunamente d'una nebbia assai folta; ma furono rigettati con
le artiglierie e con le baionette, non senza aver perduto buon numero
di valenti soldati. Questo rincalzo non tolse loro tanto di speranza,
che non tentassero un secondo assalto: Massena medesimo, al solito
rischievole guidatore di qualunque più difficile impresa, reggeva
i passi loro, ed avendoli divisi in tre colonne, comandava alle due
estreme ferissero l'inimico sui due fianchi; alla mezzana percuotesse
di fronte l'altura pericolosa. Marciavano molto confidenti della
vittoria; ma la nebbia fece sì che le colonne laterali si accozzassero
alla mezzana per modo che in vece di tre assalti si ridussero a
darne un solo sulla fronte. Questo cangiò del tutto la condizione
della battaglia, perchè gl'imperiali, combattendo per diritto da quei
ripari sicuri con tutte le artiglierie loro, obbligarono prestamente
i repubblicani a ritirarsi, non senza strage, ai luoghi d'ond'erano
venuti. S'aggiunse a questo che gli Austriaci s'impadronirono del passo
dello Spinardo, altro sito importante che dava loro maggior facoltà di
rompere e spartire in due l'esercito di Francia. Occupato San Giacomo
e Melogno, salirono gl'imperiali facilmente sui monti che stanno
imminenti a Vado, donde poterono bersagliare i Franzesi, che tuttavia
vi avevano le stanze. Perlochè questi, disperati pei sinistri occorsi
di poter conservare questo luogo, chiodati ventidue cannoni e due obici
che non potevano trasportare, si ritirarono. Entrarono tosto in Vado
gli Austriaci, e poservi di presidio il reggimento Alvinzi.
Mentre tutte queste cose si facevano sulla riviera di Genova,
succedevano parecchie battaglie su tutte le creste degli Apennini e
dell'Alpi con vario evento; volendo e Franzesi e Piemontesi aiutare con
questi assalti lontani le maggiori battaglie del Genovesato.
Kellerman, vedendo che per l'occupazione fatta dagli alleati de' siti
più importanti verso Savona, le sue stanze in que' luoghi non erano
più sicure, e che la sua ala dritta correva pericolo d'essere tagliata
fuori dalle altre, tirò con molta prudenza e singolare arte indietro la
troppo lunga fronte de' suoi. Per tal modo Finale e Loano, abbandonati
dai repubblicani, vennero in potere degl'imperiali.
La ritirata de' Franzesi da Vado era necessaria per la salute loro,
ma fu loro da un altro canto di grandissimo incomodo a cagione della
mancanza delle vettovaglie, perchè i corsari vadesi e savonesi con
bandiera austriaca correvano continuamente il mare, tanto che a
mala pena alcune navi più sottili d'Idriotti, sguizzando la notte
o pel favor di venti prosperi, riuscivano ad approdare, sussidio
insufficiente a sollevare tanta carestia. Per privare viemmaggiormente
le navi neutre della comodità di farsi strada ai lidi di Francia ed
alla parte della riviera occupata dai Franzesi, aveva il generale
austriaco armato nel porto di Savona certe grosse fuste che portavano
venti cannoni; e v'erano giunte due mezze galere e quattro fuste
napolitane, ed a tutti questi legni minori faceano ala le fregate
inglesi. Per tutto questo nacque una penuria incredibile nel campo
franzese, e già si ripromettevano i confederati che i repubblicani,
indeboliti dalla fame, pensassero oramai a ritirarsi da tutta la
riviera. Ma i Franzesi, non mostrandosi meno costanti nel sopportare
l'estremità del vivere, di quanto fossero stati valorosi ne' fatti
d'arme, continuavano ad insistere dal Borghetto e dal Ceriale, in atto
minaccioso e fiero. Il che vedutosi da' capi della lega, estimando
che, ove la fame non bastava, bisognava usar la forza, assalirono con
numero e con valore le posizioni nuove alle quali i repubblicani si
erano riparati. Sanguinose battaglie ne seguitavano, in cui ora gli
uni ed ora gli altri restavano superiori: la somma fu, che, non essendo
venuto fatto agli alleati di sloggiar i Franzesi, perdettero il frutto
di tutta l'opera, perchè il non superare que' luoghi era un perdere
tutto il frutto del trattato di Valenciennes. Così le sorti d'Italia si
arrestarono ed ebbero il tracollo sul piccolo ed ignobile scoglio del
Borghetto.
Intanto le cose vieppiù s'allontanavano dalla temperanza in Napoli.
Eranvi nate sì pel famoso grido della rivoluzione di Francia, sì per le
istigazioni segrete di alcuni agenti di quel paese, sì per l'esempio e
le esortazioni degli uomini venuti sull'armata dell'ammiraglio Truguet,
che aveva visitato il porto di Napoli nel 1793, e sì finalmente per le
inclinazioni de' tempi, opinioni favorevoli alla repubblica. Alcuni
giovani con molta imprudenza la professavano; altri meno imprudenti,
ma più inescusabili, si adunavano e facevano congreghe segrete a
rovina del governo. Notarono i discorsi, seppersi le trame: il governo
insorgeva a freno de' novatori. Il ministro Acton, conosciuti gli
umori, si studiava, come i favoriti fanno, di andare a seconda, con
rappresentare continuamente all'animo della regina, già tanto alterato,
congiure e tentativi di ribellioni pericolose. Creossi una giunta sopra
le congiure. Furonvi eletti il principe Castelcicala, il marchese Vanni
ed un Guidobaldi, antico procurator di Teramo, uomini disposti, non
solo a far giustizia, ma ancora ad usar rigore. Emmanuele de Deo ed
alcuni altri rei furono puniti coll'ultimo supplizio; alcuni carcerati,
alcuni confinati. Ciò era non solo diritto, ma ancora debito dello
Stato; ma si crearono gli uomini sospetti, parte per indizii più o
meno fondati, parte anche senza indizii, mescolandosi le emulazioni
e gli odii particolari là dove non era nè reità nè indizio di reità.
Le carceri si empierono. Era un terrore universale; il familiare
consorzio era contaminato dalla paura de' delatori. Diceva Vanni,
già confinata in carcere una gran moltitudine, pullulare tuttavia
nel regno i giacobini; abbisognare arrestarsene ancora venti mila; nè
si ristava: i carcerati si moltiplicavano. Fu imprigionato Medici, e
se nol salvava l'integrità del giudice Chinigò, sarebbe caduto sotto
la macchina orditagli da Acton per gelosia, e privato il regno di un
uomo di non ordinaria perizia negli affari di Stato. Duravano già da
molto tempo le pene insolite, nè rimetteva il rigore. I popoli prima
si spaventavano, poi s'impietosivano, finalmente si sdegnavano, e ne
facevano anche qualche dimostrazione. Pensossi al rimedio. Siccome
Vanni principalmente era venuto in odio all'universale, così fu
dimesso ed esiliato da Napoli; gratitudine degna del benefizio. Ciò non
ostante, la asprezza non cessò del tutto, se non quando Napoli venne a
patti con Francia.
Frattanto non si confermava l'imperio inglese in Corsica, parte per
l'inquietudine naturale di quella nazione, parte perchè i partigiani
franzesi vi erano numerosi, parte finalmente perchè i popoli, scaduti
dalle speranze, si erano sdegnati, e gridavano aver solo cambiato
padrone, non peso. Oltre a ciò, grande era tuttavia il nome di Paoli
in Corsica, e coloro che più amavano l'indipendenza che l'unione con
gl'Inglesi, voltavano volentieri gli animi a lui, come a quello che
avendo contrastato l'acquisto della Corsica ai Franzesi, poteva anche
turbarlo agl'Inglesi. Erano pertanto sorti parecchi rumori in alcune
pievi di qua da' monti, massimamente ne' contorni d'Aiaccio; ed il
male già grave in sè induceva ogni giorno maggior timore; alcuni già
gridavano apertamente il nome di Francia: si temeva una turbazione
universale, se prontamente non vi si provvedesse. Per la qual cosa
il vicerè Elliot, avvisato prima diligentemente in Inghilterra quanto
occorreva, mandò fuori un bando esortatorio.
Nè le sue esortazioni restarono senza effetto, non già sulle
popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti,
e non con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano
volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate
alcune squadre, furono mandate ad aiutare nelle pievi licenziose
le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo, Paoli, o cagione o
pretesto che fosse di questi rumori, fu chiamato in Inghilterra dal re,
il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli aveva scritto, la
presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo animosi; se ne venisse
pertanto a respirare aere più tranquillo in Londra; rimunererebbe la
fede sua, metterebbelo a parte della propria famiglia. Paoli, obbedendo
all'invitazione, se ne giva a Londra, trattenutovi con due mila lire di
sterlini all'anno. Visse fino all'ultimo più accarezzato che onorato.
Così finì Pasquale Paoli, nome riverito nella storia, e che sarebbe
molto più, se non fosse nata la rivoluzione franzese.
Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati corsi ai soldi
d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti
da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, deposte le
armi, tornarono all'ubbidienza. Così fu ristorata, se non la concordia,
almeno la pace in Corsica, non sì però che, per l'infezione delle
parti, non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra
breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola.
Qualche moto anche accadde in questi tempi in Sardegna, principalmente
in Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava
gli stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna;
domandava i privilegii conceduti dai re d'Aragona; domandava i patti
giurati nel 1720. Sassari mandò i suoi deputati a Torino, perchè,
moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderii dei Sardi al re
rappresentassero.
Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche cosa più che
buone parole. La missione loro non partorì frutto e se ne partirono
disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati, componendosi
di nuovo il vivere nella solita quiete, con grande contentezza del
re, che molto mal volontieri aveva veduto contaminarsi la difesa di
Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula ed Angioi, capi
e guidatori di quei moli, si posero con la fuga in salvo.
In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea,
essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condiscesa, il dì
22 luglio, alla pace con la repubblica franzese; il quale accidente
tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli Stati
del re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e
principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia
e la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente
voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze franzesi.
Mossi poi anche i parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito
d'invadere l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace,
del Milanese per la guerra, erano stati operatori che s'inserisse
nel trattato con la Spagna il capitolo, che la repubblica franzese,
in segno di amicizia verso il re Cattolico, accetterebbe la sua
mediazione a favore del regno di Portogallo, del re di Napoli, del re
di Sardegna, dell'infante duca di Parma e degli altri Stati d'Italia,
a fine di concordia tra la repubblica e questi principi. Ulloa,
ministro di Spagna a Torino, fece l'ufficio, proferendosi a mediatore
tra la repubblica ed il re Vittorio. Offeriva la conservazione e la
guarentigia dei proprii Stati, se consentisse a starsene neutrale e a
dar il passo ai Franzesi verso l'Italia. Offeriva la possessione del
Milanese, se si risolvesse a collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi
al solito speranze di acquisti di territorii più contigui, se cedesse
l'isola di Sardegna alla Francia.
Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della Spagna,
e sulle prime dichiarò di voler continuare nell'alleanza con l'Austria.
Ma perchè fu più pacatamente considerata la cosa, o che s'inclinasse
ai patti o che solo si volesse aver sembianze d'inclinarvi, si convocò
il consiglio, al quale furono chiamati molti uomini prudenti ed altri
assai pratici delle militari faccende. Erano per deliberare intorno ad
un soggetto gravissimo e da cui dipendeva questo punto: se il Piemonte
avesse a conservare la signoria di sè medesimo o da cadere in servitù
dei forestieri. Era presente a questo consiglio il marchese Silva,
figlio d'uno Spagnuolo, console di Spagna a Livorno. Pratico delle cose
del mondo per molti viaggi in Europa, massimamente in Russia, dov'era
stato veduto amorevolmente dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle
cose militari per lungo studio ed esperienza, avendo anche scritto
trattatti sull'arte della guerra, condottosi finalmente agli stipendii
della Sardegna, era il marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto
del suo parere in sì pericoloso caso, parlò con singolare franchezza,
e, discorse tutte le presenti sorti delle cose, conchiuse.... «Io
porto opinione che la pace sia assai più sicura della guerra, ed alla
pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo, ora che le forze che ancor
vi restano ve la possono dare onorevole e sicura; che se aspettate
l'ultima necessità, fia la pace infame, fia distruttiva, fia congiunta
con servitù intiera ed insopportabile. Se altro partito miglior di
questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma qualunque ei sia, non istate
più indugiando, che il tempo pressa, l'occasione fugge, e il pericolo
sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e vi faccia deliberar sanamente
a salvazione del generoso Piemonte ed a preservazione della nobile
Italia.»
Questo discorso, porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto
veridica, congiunto di amicizia col generale austriaco Strasoldo, fece
non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte
inclinava agli accordi, quantunque tutti avessero la volontà aliena
dai Franzesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione il marchese
d'Albarey, il quale, sebbene fosse di indole pacifica e d'animo
temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenciennes,
e fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava doversi nella
guerra e nella fede data all'Austria perseverare. E le parole sue,
che furono gravi ed abbondanti, vere in sè stesse, non restarono senza
effetto, meno perchè vere erano che perchè gli animi non avevano per
una anticipata risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per
la qual cosa, posta in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata
ogni pratica, deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia,
e non si partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito
era pieno di molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle
suggestioni che nelle armi repubblicane, e si temevano con molta
ragione gli effetti che avesse a portar con sè la presenza de' Franzesi
in Piemonte. Laonde la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non
perchè più sicura fosse, ma perchè, in pari pericolo da ambe le parti,
ella era più onorevole.
Giungeva intanto il tempo che doveva mostrare se quell'armi che non
senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Franzesi
divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito,
ed indirizzato a voler fare la conquista delle italiane contrade.
Già fin dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli
di Francia di voler passare con l'armi in Italia. Uno dei principali
confortatori a quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali
di Francia per le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre
di Germania e di Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri
dopo la pace di Spagna, e parendo che quegli che ne aveva fatto il
disegno più accomodato capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu
egli preposto all'esercito d'Italia, restando Kellerman a governare
solamente le genti alloggiate nelle Alpi superiori. Concorrevano
intanto i soldati repubblicani dai Pirenei agli Apennini, e con loro
parecchi guerrieri di nome. Inchinava omai la stagione all'inverno, e
trovandosi gli alleati riparati a luoghi forti per natura e per arte,
a tutt'altro pensavano fuori che a questo, che i repubblicani, massime
privi, com'erano di cavallerie, con poche e piccole artiglierie, e
ridotti in una insopportabile stretta di vettovaglie, avessero animo di
assaltarli. Ma i soldati della repubblica, usi a vincere le difficoltà
che più insuperabili si riputavano, ed astretti anche dall'ultimo
bisogno ad aprirsi la via per mare e per terra verso Genova, dalla qual
sola potevano sperare di trarre di che pascersi, non si ristettero, ed
opponendo un coraggio indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza
dell'armi, alla carestia del vivere, ad un nemico più numeroso di loro,
abbondante d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per sè
stessi malagevoli, si deliberarono di voler pruovare se veramente il
valore vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si
preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai
soldati repubblicani e per la perizia dei generali loro, specialmente
di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto.
Era la fronte dei Franzesi in tal modo ordinata, che, posando con
l'ala dritta sulla rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando
per Zuccarello e per Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la
sinistra a terminarsi sui monti che sono in prospetto di quelli della
Pianeta e del San Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la
destra Scherer ed Augereau, la mezza Massena, la sinistra Serrurier.
I confederati stavano schierati di modo che l'ala loro da mano
manca, governata, da Wallis, occupava Loano, la battaglia, condotta
da Argenteau, Roccabarbena, e la destra, composta in gran parte di
Piemontesi e retta da Colli, si stendeva sui monti della Pianeta e
del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti questi siti forti non
bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie avanzate, fatto tre
campi forti, due innanzi Loano, un terzo, per sicurezza della mezzana,
più in su, a Campo di Pietra. Ma come prudente capitano, prevedendo
gli accidenti sinistri, aveva munito di gente e d'artiglierie, non
solamente Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo
presidio e schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per
tal modo si vede che Devins aveva ottimamente preveduto donde doveva
venire il pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente. Separava i due
eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna il piccolo fiumicello
che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno 17 novembre, per riconoscere
i luoghi e per assaggiar l'inimico, Massena commise al generale Charlet
che assaltasse il posto di Campo di Pietra, il quale, sostenuto
un furioso urto, si arrese. Questa fazione, terribile presagio di
battaglie più gravi, ed indizio probabile di quanto i Franzesi avevano
in animo di fare, non tenne tanto avvertito Arganteau, che pensasse a
starsene avvisatamente. Era la notte del 22 novembre quando Massena,
raunati i suoi, così lor disse: «Soldati, il ricordare valore a voi,
fora piuttosto ingiusta diffidenza che giusto incoraggiamento; bastò
sempre per animarvi a vincere il mostrarvi dove fosse il nemico. Ora,
quantunque più numeroso di voi, si è riparato alle rupi, confessando
in tal modo coi fatti più che con le parole, che ei non può stare
a petto vostro. Ma che rupi o quali precipizii possono trattenere i
soldati della repubblica? Voi vinceste le Alpi, voi gli Apennini già
più volte, e costoro, nuovi compagni vostri, vinsero i Pirenei: vinsero
essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei di Sardegna e dell'Imperio;
ma Sardegna ed Imperio continuavano ad affrontarvi; però voi un'altra
volta vinceteli, voi fugateli, voi dissipateli, e fia la vittoria
vostra pace con l'Italia, come fu la vittoria loro pace con la Spagna.
Questi ultimi re, non ancora fatti accorti dalle sconfitte, osano, con
l'armi impugnate, stare a fronte della repubblica; ma voi pruovate loro
con le opere, che nissun re può stare armato contro di noi; e poichè
aspettano lo estremo cimento, fate che esso sia l'estremo per loro.»
Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e
perciò abile ad inspirar impeto nel soldato franzese, già per sè stesso
tanto impetuoso. Perciò, alle sue parole maravigliosamente incitati,
givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte
oscurissima e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento
di Massena, così accordatosi con Scherer, di urtare nel mezzo dei
confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi,
di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala sinistra,