Annali d'Italia, vol. 8 - 31

cinquecento soldati a cavallo, e passando per la strada alla Rocchetta
del Cairo, andava ad assaltare gli Austriaci posti al Colletto. La
seconda, passando pel convento di San Francesco del Cairo, assaltava
i cacciatori che difendevano il monte Vailaro; poi, fatto un branco
di sè, composto di valentissimi soldati, lo mandava contro il colle
di Vignarolo, il quale superato, diveniva la strada più facile per
superare anche quello del monte Vallaro. Era l'intento della terza,
radendo i poggi che dominano la strada del Cairo e della Rocchetta,
riuscire alla cresta sinistra del Colletto. Già la prima schiera,
che era quella di mezzo, venuta per la Rocchetta, aveva costretto
la guardia avanzata a cedere il passo, e bersagliava di fronte con
grandissimo furore il posto del Colletto. A tanto assalto ad ora ad
ora gli ordini degl'imperiali si rompevano, ma pel valore loro tosto
si rannodavano: i due cannoni facevano grande strazio dei Franzesi.
La seconda colonna, sforzato, non senza una valida resistenza degli
Austriaci accorsi in aiuto del Pinale, il passo del Vignarolo, gli
assaltava al monte Vallaro e sulle alture della Bormida, ed al primo
tratto li disordinava; ma essendo venute in soccorso loro altre
due squadre mandate dal Wallis, gli Austriaci, con nuova vigoria
combattendo, fin oltre Vignarolo la ributtavano. La terza schiera,
che costeggiava a sinistra i monti, trovato un corpo d'Austriaci che
s'era posto in agguato nel castello rovinato della Rocchetta, e che
ricevette in quel punto un rinforzo di genti fresche, fu anch'essa
costretta a dare indietro. Così la vittoria sulle due ali inclinava a
favor degl'imperiali; ma l'importanza del fatto consisteva nel posto
del Colletto assaltato e difeso con mirabile costanza. Le fanterie
dei Franzesi non avendo potuto sforzare questo passo, la cavalleria
si fece avanti e diè per modo la carica alla cavalleria austriaca,
ch'essa, non fatta lunga resistenza, si ritirava ordinatamente di là
del Colletto, proteggendo anche la ritirata dei fanti, e conducendo
seco i due cannoni; e ciò forse per allettare tanto la cavalleria
dei repubblicani, che, condottasi nella valle di Pollovero, potesse
essere bersagliata, con evidente vantaggio, di fianco e di fronte
dalle batterie di Santa Lucia e del Pinale. Ma i Franzesi accortisi
dell'insidia, non si avventurarono. Intanto gli Austriaci, o perduto
per forza o abbandonato per arte il sito del Colletto, si ritirarono
grossi e minacciosi ai loro sicuri ripari del monte di Santa Lucia e
dell'argine del Mulino. Scesero i Franzesi dal Colletto nella pianura,
e già si erano inoltrati, accostandosi il sole al suo tramontare, sin
presso ai Zingani, sopra la foce del Pollovero, quando le batterie
di Santa Lucia e del Pinale cominciarono a fulminarli con orribile
fracasso. Dalla parte loro, anch'essi facevano ogni sforzo per superar
quei passi: nel tempo medesimo si combatteva sulle due ali estreme
dell'uno e dell'altro esercito. Nè fu fatto fine a tanta battaglia e
strage se non quando, sopraggiunta la notte, i Franzesi furono forzati
a ritornarsene oltre il Colletto, dond'erano venuti, per iscostarsi
dall'impeto delle artiglierie d'Austria, che non cessavano di trarre.
Perdettero in questo fatto i Franzesi meglio di seicento buoni soldati,
gli Austriaci meglio di settecento, fra i quali alcuni uffiziali di
nome.
Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sè la fama della vittoria
e dell'onore di questo giorno difficile ed importante; non ostante
gli Austriaci, o che temessero che per le piene autunnali la Bormida
interrompesse loro le strade a poter comunicare con Acqui, dov'erano
le riposte dell'esercito, ovvero che avessero avuto avviso, come fu
scritto, che un corpo franzese partito di Savona fosse per riuscir loro
alle spalle, e per tal guisa mozzar loro la strada, la notte del 22,
abbandonate lor forti posizioni, si ritirarono con tutte le bagaglie
e con tutte le artiglierie in Acqui. Nel che si dee notare la falsità
degli avvisi che ricevevano gli Austriaci; perchè e nissun corpo
franzese era a quei giorni in Savona, e tutti i Franzesi eransi adunati
per fare un grosso sforzo a Dego, e nissuna altra schiera notabile di
loro si trovava da Nizza sino a Savona. Questa falsità di avvisi, quale
ne fosse la cagione, operò molto efficacemente in tutti i fatti della
presente guerra, e fece rovinare molte imprese dell'armi imperiali.
Frattanto i Franzesi, temendo di qualche insidia, nè potendo recarsi
a credere che gli avversarii si fossero ritirati, dubitando anzi di
essere assaliti in sul far del giorno, molto posatamente e con ogni
cautela entrarono nel Dego. Ma quando si accorsero che quello che
non potevano sospettare era vero, vi si confermarono, e diedero mano
a vuotare e trasportare ai luoghi sicuri della Liguria i magazzini
dell'esercito tedesco, pieni di farine, avena, pane e strame. Nè
contenti i repubblicani all'aver fatte proprie le sostanze del
pubblico, diversamente da quello che in Oneglia avevano operato,
infestarono quelle dei privati, saccheggiando le case di coloro che per
timore le avevano abbandonate, consumando o disperdendo i vini ed ogni
altra grascia o vettovaglia, ardendo la casa del feudatario, guastando
le vigne portanti uve delicatissime, distruggendo una quantità di
bestiame sì grosso che minuto, dimostrando in somma con ogni proceder
loro quanto fossero dissomiglianti i fatti dalle parole, tristo
presagio dei mali ancor più gravi che si preparavano all'infelice
Italia.
L'esercito di Francia, dimoratosi tre giorni sul territorio del
Dego, si ritrasse poscia pel sospetto che gli davano le genti accorse
dal campo di Morozzo, e pei tempi sinistri, nel Genovesato, dove si
fortificava, principalmente a Vado, aspettando che la stagione nuova
gli facesse facoltà di tentare fazioni di maggior momento.
In mezzo a queste battaglie degli uomini, non vuolsi lasciare di far
menzione della trentesima eruzione del Vesuvio, accaduta la sera del 15
giugno, violentissima e spaventosa, che colla lava rovinò quasi tutta
la torre del Greco, e non poco danno recò a Resina, in tutto il paese
sollevandosi all'altezza di venti in trenta piedi. Poche case rimasero
intatte, e molte persone perirono.


Anno di CRISTO MDCCXCV. Indiz. XIII.
PIO VI papa 21.
FRANCESCO II imperadore 4.

Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole
alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia,
ma eziandio, e molto più, verso la Spagna, i Paesi Bassi e quella
parte della Germania che si distende sulla riva sinistra del Reno:
che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro,
che, cacciati al tutto gli eserciti inglesi, olandesi, prussiani
ed austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda e di
tutta la Germania di là dal Reno, sì fattamente che, minacciando di
varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla destra sponda.
Tante e così subite vittorie davano timore che la confederazione si
potesse scompigliare, e che alcuno degli alleati pensasse ad inclinar
l'animo ai Franzesi, anteponendo una pace qualunque ad una contesa
molto incerta nell'esito. A questo si aggiungeva che il reggimento
introdottosi in Francia dopo la morte di Robespierre mostrava e più
moderazione verso i cittadini e maggior temperanza verso i forastieri;
dannando le immanità dei governo precedente; protestando di non
consentire a turbar la pace altrui se non quando altri turbasse la
sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo
dava fastidio quel nome di repubblica, che potea, col linguaggio
che tenevano i Franzesi negli scritti e nelle parole, partorir col
tempo variazioni d'importanza. Non ostante, essendosi le cose ridotte
in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti
turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati
il terrore dell'armi franzesi, diminuito dall'altro il pericolo delle
forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la
volontà di procurar i proprii vantaggi con danno di tutti o di alcuno
dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che
la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, e già se ne aveano
alcuni segni, e quanto peso un tal caso fosse per arrecare nelle cose
d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza e la sede
de' suoi reami. Si temeva pertanto che l'inverno, il quale, acquetando
l'operare, risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato
col fine di porre discordia nella lega, e che, ove la stagione propizia
al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Franzesi avessero a fare
qualche grande impeto, con insinuarsi nelle viscere di uno o di più dei
rimanenti alleati. Ma già aveano i Franzesi verso Germania acquistato
quanto desideravano; perchè signori dell'Olanda, signori delle
provincie germaniche poste di là dal Reno, a loro non rimaneva altra
cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se
non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a
conoscere la repubblica loro ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe
stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria era sempre
formidabile, massime se si venissero a toccare gli Stati ereditarii.
Perlochè avvisavano potersi assaltare con minor pericolo e col medesimo
frutto da un'altra parte.
Quanto alla Spagna, i Franzesi non ponevano l'animo a volervi fare
un'invasione d'importanza, sebbene se ne fossero aperta la strada; ed
anzi credevano che, per costringerla alla pace, un romoreggiare sui
confini bastasse. Inoltre, salito pel favor della regina ad immoderata
potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Franzesi, accortissimi nel
pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse
piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando, con un accordo, un
pericolo gravissimo, che a mantenere la integrità della fama del nome
spagnuolo e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi
la dignità della corona di Spagna.
Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe, piuttosto
che in altro luogo, voltato il corso delle armi franzesi: per questo
avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi
e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di
Tolone; per questo allettato con promesse e lusinghe il re di Sardegna;
per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana
e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di
Tolone, con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque
del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli
loro, come, quando, per quale via e con quali mezzi dovessero assaltar
l'Italia. Era la penisola in quest'anno la principal mira dei disegni
loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi,
poterla correre a posta loro, perchè, malgrado delle funeste pruove
fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito
principalissimo dei Franzesi. Conculcate poi l'armi austriache in lei,
precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano
che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi.
Sì fatti disegni, non solamente non celati, ma ancora manifestati
espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in
differenti guise nella mente de' principi italiani. Il re di Sardegna,
ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi;
e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva
grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra,
se però non è più vero il dire che altro scampo più non avesse che
aperto gli fosse, se non di pruovare se forse l'armi, che sempre
sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno
accidenti per lui più favorevoli. Per la qual cosa deliberassi di non
separare i suoi consigli da quelli de' confederati, e di continuare
piuttosto nella amicizia austriaca già pruovata e consenziente alla
natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non
pruovata e contraria ai principii della monarchia. Gli pareva anche
odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenciennes
così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non
valessero alla salute del regno. Per verità, l'Austria, commossa dal
pericolo imminente che i Franzesi, superate le Alpi ed annientata la
potenza sarda, inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni
per procurar l'esecuzione de' patti di Valenciennes; perchè oramai
non si trattava soltanto della salute d'un alleato, ma bensì della
propria; laonde si dimostravano dalla parte della Germania ogni di
più efficaci movimenti, le genti tedesche ingrossavano in Piemonte,
e già componevano un esercito giusto e capace di tentare, unito al
piemontese, fazioni di importanza. Adunque il re, posto dall'un de'
lati ogni pensiero d'accordo con un nemico che più odiava ancora che
temesse, allestiva con ogni diligenza l'armi, i soldati e le munizioni.
Nè potendo lo Stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra,
sopperire al dispendio straordinario co' mezzi ordinarii, e trovandosi
oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere, in
virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della Chiesa;
venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monte;
ponessi con accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le
gabelle del sale, del tabacco e della polvere da schioppo, ed ordinossi
un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità
del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però, gettando somme
considerabili, aiutavano l'erario a pagar soldati, esploratori e
il resto. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le
leve sforzate e il romore delle armi sì patrie che straniere, sospesi
i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima
ansietà i casi avvenire.
Le vittorie de' repubblicani sui monti, che davano probabilità
ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il
consiglio de' savii in Venezia nella risoluzione presa di mantenere la
repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo
il granduca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo
con la repubblica franzese, e con tornarsene a quella condizione di
neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato
il ministro di Francia, s'era allontanato. Aveva sempre il granduca,
in mezzo a tutti que' bollori, conservato l'animo pacato e lontano da
quegli sdegni che oscuravano le menti rispetto alle cose di Francia;
non già che egli approvasse le esorbitanze commesse in quel paese, che
anzi le abborriva, ma avvisava che infino a tanto che i repubblicani si
lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato
quietare altrui, e che il combatterli sarebbe stato cagione che si
riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro
che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua, e pei cattivi consigli
d'altri, i Franzesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui per
modo che oramai questa sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazii
di guerra era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole
che il granduca s'accostasse a quelle deliberazioni che i tempi
richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce,
e si agl'interessi della Toscana. Oltre a ciò, il porto di Livorno era
divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova
e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo.
Quivi gl'Inglesi concorrevano col loro numeroso navilio sì da guerra
che da traffico; quivi i Franzesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o
sotto nome di neutri, a fare i traffici loro, massimamente di frumenti,
che trasportavano nelle provincie meridionali della Francia. Levavano
gl'Inglesi grandissimi rumori per cagione di questi aiuti procurati
dalla neutralità di Livorno; ma il granduca, preferendo gli interessi
proprii a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si
dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani.
Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che
fossero aperti i tribunali a' Franzesi, e venisse fatta loro buona
e sincera giustizia, secondo il diritto e l'onesto. Avendo poi anche
udito che alcuni falsavano la carta monetata di Francia, diede ordine
acciò sì infame fraude cessasse, e ne fossero castigati gli autori;
cosa tanto più laudabile che appunto nel medesimo tempo uomini perversi
in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e
forse per una sete ancor peggiore, compivano opera sì vituperosa, non
nascostamente, ma apertamente. Così le mannaie uccidevano gli uomini a
folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo Stato
incrudeliva in Napoli, così i falsari contaminavano la Inghilterra,
mentre l'innocente Toscana ministrava giustizia a tutti, nè si piegava
più da una parte che dall'altra.
Ma, divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il
granduca che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente
quello che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio
stabilire in tal modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la
qual cosa deliberossi al mandare un uomo apposta a Parigi, affinchè
fra i due Stati si rinnovasse quella pace che più per forza che per
deliberazione volontaria era stata interrotta. Molte furono le querele
che si fecero in que' tempi di questa risoluzione, e della scelta del
conte Carletti ad eseguirla destinato; ma il tempo non tardò a scoprire
che quello che il granduca ebbe fatto per solo amore de' sudditi,
il fecero altri principi assai più potenti di lui. Ma era fatale che
in quella volubilità di governi franzesi quest'atto del granduca non
preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero i tempi in
cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne
allettamento non scudo.
Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per
acquistar miglior fama e sì per allettar altri principi a negoziare
con quel governo insolito e terribile. Debole era il granduca a
comparazione di Francia; ma era pei Franzesi di non poco momento
che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento,
e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima
ripugnanza, si doveva credere che altre potenze, seguitando l'esempio
di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor
esse. Perlochè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed
appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì 9 febbraio,
tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il
granduca rivocava ogni atto di adesione, consenso od accessione che
avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica franzese,
e la neutralità della Toscana fu restituita a quelle condizioni in cui
era il dì 8 ottobre del 1793.
Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato,
si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi, per
l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza
del granduca Ferdinando. Bandissi la pace con le solite forme, ma a
suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata inglese, che quivi
aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando un suo manifesto, conchiudendo
volere ed ordinare che il trattato con Francia si eseguisse, e l'editto
di neutralità, pubblicato nel 1778 dalla sapienza di Leopoldo, si
osservasse. Perchè poi quello che la sapienza aveva accordato i buoni
ufficii conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro
plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso
nazionale, acconciamente orava; rispondeva il presidente con magnifico
discorso; infine, perchè non mancasse alle lusinghevoli parole quel
condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi
romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i
circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così
verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioie
corte e vane, dolori lunghi e veri.
E poichè si hanno a raccontare dolci parole e tristi fatti, non è da
passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili con le quali si
procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica veneziana
ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro
che nei consigli di Venezia prevalevano sperato di solidar veppiù lo
stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza,
acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse esser vera
e sincera la determinazione del senato di volersene star neutrale.
Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato
straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non sapresti se
stato sia maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o
l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui
grandissime.
Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al
consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con
bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica dai tempi
antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari e pel
desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine
verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una
repubblica che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue
vittorie. Qual cosa, in fatti, poter essere a lui più lusinghiera,
quale più gioconda, di quella di comparire in cospetto del nazionale
consesso di Francia a fine di confermar la amicizia che il senato e la
repubblica di Venezia alla repubblica franzese portavano? Sperare la
conservazione di questa antica amicizia: sperarla, desiderarla, volerla
con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene
fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se, al mandato della sua
cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede,
e se conceduto gli fosse di vedere che il consesso medesimo, fatto
maggiore di sè, e benignamente agli strazii dell'umanità risguardando,
con generoso consiglio dimostrasse aver più cura della pace che della
guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di
tutti.
Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla
repubblica franzese quel giorno in cui compariva avanti a sè l'inviato
della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini
in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere
l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima
sotto la tirannide dei re, ora dover l'accordo esser più dolce, perchè
libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche:
sorta la veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei
barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al
mondo per la sua sapienza e pei suoi illustri fatti; avere spesso le
querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai Barbari preservato:
similmente sorta la Franzese fra le tempeste del mondo in soqquadro;
gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori
le armi, dentro le insidie, chiamato in aiuto la civile discordia,
ma tutto stato essere indarno: la libertà avere vinto: non dubitasse
pertanto Venezia, che siccome pari era il principio e pari l'effetto,
così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando
ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della franzese
repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con
procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata
non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così
godrebbe sicuramente i frutti d'una fortuna certa: avere potuto la
Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata
essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana
riconoscente essere e leale, e con tanto miglior animo riconoscere
l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur
sicura Venezia e si confortasse che la nazione franzese nel numero de'
suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui,
nobile Querini, se ne gisse pur contento che la franzese repubblica
contentissima si reputava di averlo per ministro di una repubblica
amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella che
già si era in Venezia acquistata; i desiderii di pace essere alle
due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete
universale d'Europa adempiti.
Per tal modo si vede che per testimonio del presidente
Lareveillere-Lepaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di
Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo ed un
soldato la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida.
Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al
Querini, si rallegrarono vieppiù coloro che avevano voluto fondar lo
Stato piuttosto sulla fede di Francia che sull'armi domestiche, e si
credettero di aver in tutto confermato lo impero della loro antica
patria.
Dalla parte d'Italia, dov'era accesa la guerra, incominciavano a
manifestarsi i disegni dei Franzesi. Doleva loro l'acquisto fatto
della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano racquistarla. Oltre a ciò le
genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per una estrema
carestia di vettovaglia; importava finalmente che il nome e la bandiera
di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con
incredibile celerità a Tolone una armata di quindici grosse navi di
fila con la solita accompagnatura delle fregate e di altri legni più
sottili. Genti da sbarco e viveri in copia vi si ammassarono; usciva
nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque delle isole Iere,
aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi
pensieri.
Il vice-ammiraglio inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con
una armata in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte
inglesi, ed una napolitana, con tre fregate inglesi e due napolitane,
avuto subitamente avviso dell'uscita dei Franzesi, pose tosto in alto
per andar ad incontrare il nemico, e combatterlo ovunque il trovasse.
Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio franzese Martin, al quale
obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere
con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente
le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle
battaglie l'imperio del Mediterraneo. Incominciò a dimostrarsegli con
lieto augurio la benignità della fortuna, perchè avendo l'Hotham, tosto
che ebbe le novelle del salpar dei Franzesi, spedito ordine alla nave
il Berwick, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta
celerità venisse a congiugnersi con lui verso il capo Corso, essa,
abbattutasi per viaggio nell'armata franzese, fu fatta seguitare dal
vascello ammiraglio il Sanculotto (con questi pazzi nomi chiamavano
i Franzesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che,
combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di
tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare
i suoi che già combattevano; sì mal concio però uscendo dal feroce
contrasto il Sanculotto che ritirossi per forza nel porto di Genova
e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivarono le due armate
l'una al cospetto dell'altra nel giorno 13 marzo. Quivi incominciò
la fortuna a voltarsi contro i Franzesi, perchè separata da una forte
buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, per questi
accidenti si trovarono i Franzesi al maggior bisogno loro con due
navi di manco, delle quali il Sanculotto, essendo a tre palchi, era la
principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio
del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di
Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo,
tra pel mareggiare, ch'era forte a cagione del vento assai fresco, e
per la forza dell'artiglierie inglesi che già si erano approssimate,
perdè il vascello il Caira gli alberi di gabbia, e perseguitato dalla