Annali d'Italia, vol. 8 - 30
strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto medesimo, e diè con
questa ardentissima mossa principio alla vittoria de' suoi. Superato
il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i
Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta da'
difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già,
prima della rotta de' regii a stanca, erano in procinto di entrare,
superato ogni ostacolo, in que' forti. In cotal modo le difese rizzate
sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Franzesi, non senza
però che il valore italiano avesse fatto di sè fierissima mostra.
Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa quanto
era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regii,
acquistarono i Franzesi tutte le artiglierie dei ridotti che erano
fioritissime, con alcune altre che vicine stanziavano per gli scambii,
molta moschetteria, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità
considerabile. Morirono pochi, rispetto alle gravità del fatto,
dall'una parte e dall'altra; circa otto cento prigionieri ornarono la
vittoria dei repubblicani. Non fecero i Franzesi fine al perseguitare
se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e
la Novalesa vennero a divozione dei repubblicani. Perduto il Cenisio,
tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte
della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi
e di munizioni, era impossibile ad essere superato. Nè i Franzesi
si attentarono di combatterlo; poichè, contenti all'essere divenuti
signori del passo alpestre del Cenisio ed all'aver messo spavento
coll'armi loro sulle rive della Dora riparia, nè essendo in numero
sufficiente a poter tentare cosa di importanza più oltre la Novalesa,
se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti
nelle altre parti dove ardeva la guerra.
Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Franzesi,
nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto
l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito
di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata,
che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione.
Voltarono dunque il pensiero ad insignorirsene per assedio: al che
per togliere ogni facilità, i capitani del re, e fra i primi Colli,
avevano diligentemente fortificato le cime dei monti che dividono il
Genovesato dalla valle della Roia, massime il passo principale di colle
Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Franzesi,
dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro,
si appresentarono alla batteria il dì 27 aprile, ed incominciarono un
furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente
i Franzesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di
Felta, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei
passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in
potestà loro. Morirono in questo fatto parecchi soldati di nome e di
valore d'ambe le parte, e fra essi il capitano Maulandi, italiano,
nel quale non saprebbe dirsi se fosse maggiore il valor militare, o la
modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura.
La vittoria del colle Ardente diè campo ai Franzesi di calarsi per la
via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta
al colle di Tenda. Certamente essendo quel forte munitissimo, avrebbe
potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il
presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva
Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di
Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza,
resistesse più lungamente che potesse, e non cedesse la piazza se non
quando se ne avesse avuto il comandamento da lui; perchè l'intento
suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il
cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per lo effetto
dell'essere i Franzesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed
il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o
per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le
sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con
tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con
Mesmer comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte
da un consiglio militare, e passati per l'armi sulla spianata della
cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso,
volle il governo dar terrore ai novatori e credenza ai popoli, che il
tradimento avea procurato la vittoria al nemico.
Rimaneva ai Franzesi per compir l'opera che si impadronissero del colle
di Tenda, sommo apice delle Alpi marittime; nè s'indugiarono a questa
impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regii e del favor
della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono
i Piemontesi che facevano le viste di voler difendere il colle; e con
molta audacia e perizia occupando i Franzesi l'uno dopo l'altro i posti
eminenti sulla faccia del monte, i Piemontesi, abbandonata dopo debole
difesa la cresta in balia del nemico, si ritirarono a Limone, terra
posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte.
Tutte queste fazioni, molto perniziose allo Stato del re, tanto maggior
terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte
le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo Stato
da uomini condotti da illusioni funeste, ma che niun mezzo avevano di
arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri
si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in
mezzo a tanti sdegni ed a tanti terrori.
Vittorio, perduta la metà degli Stati e le principali difese
dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema
rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque
grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a
procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni
quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana
a martello; fossero retti e divisi in isquadroni da ufficiali
di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni
durasse, somministrassersi munizioni dalle armerie, e viveri dai
magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne
mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne
abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa
arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro che meglio
avessero combattuto pel re e per la patria.
Questo stormo non poteva esser di molto momento alla vittoria; che
anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse
stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre
ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i
reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedii non bastando
alla salute del regno, instantemente si ricercarono i generali
austriaci che, fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro,
prontamente verso il Piemonte che pericolava gl'indirizzassero. Il
conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore
a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano,
conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente
nell'aprile tutte quelle che avea disponibili, e che unite componevano
un esercito di venti mila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con
queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino
a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in
Piemonte, a norma del trattato di Valenciennes. Inoltre muniva il re di
genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva,
Cuneo ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno
non mancassero l'armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarii
supplire, ordinava che si raccogliesse il salnitro in tutte le case
di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non
necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i
nobili, non quelli che militando seguivano le insegne reali, ma gli
oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso
consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con
sè le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle
ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge che sotto pena di
confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì che i beni
confiscati si incorporassero alla corona.
Fu anche giudicato che, per prevenir le congiure, fosse necessario
di soffocarne i semi e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava che
fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed
anche i casini. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi,
si spartivano i cittadini perchè non congiurassero, si univano perchè
combattessero.
Le fazioni tanto favorevoli ai Franzesi diedero molto a pensare ai
governi italiani. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori
sforzi in favore dei confederati: indirizzava alla volta della
Lombardia, parte per terra, parte per mare, dieciotto mila soldati
tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega.
Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti
richiedevano, aveva comandato pagassero i baroni, i nobili ed i ricchi
cento venti mila ducati il mese; il restante, per non aggravare i
popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario; pagassero i beni
ecclesiastici una tassa del sette per centinaio; portassersi alla
zecca gli ori e gli argenti delle chiese che non fossero necessarii
al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo
per centinaio del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero, e il
patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili.
Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si
scoperse la congiura di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama,
a cambiare il governo regio ed a fare una rivoluzione nel regno.
Questo fatto grave in sè stesso, e reso ancor più grave dalle menti
accendibili e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe,
proponendo il governo la salute propria a quella altrui. Si aggiunse
che i corsari sì franzesi che algerini infestavano i litorali del
regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta
a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per
far peggio eziandio che rubare.
Anche il pontefice che fra tutti i principi era forse quello che
procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò
con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose
su' luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò
magazzini, ospedali e nuove regole per la milizia. In questi suoi
pensieri dell'armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più
sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per quel
fatto enorme di Basseville, accaduto in Roma sull'entrare dell'anno
precedente, e che abbiamo a suo luogo raccontato.
Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie
dei repubblicani sulle Alpi, e del loro ingresso nel territorio
genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero
fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi
in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra
di loro le due parti contrarie, e quella, sostenuta dal procurator
Pesaro, al quale si aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli
di molta autorità, che insisteva perchè la repubblica si armasse, e
quella che credeva più pericoloso l'armarsi che il fidarsi. Sorse
in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla
volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior
ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccaria
Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando
tutti che l'armarsi non era possibile, non a tempo, inutile. Dopo
molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiciannove
voti favorevoli e sessantasette contrarii. Decretossi, chiamassersi le
truppe, sì a piedi che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad
assicurare la terra ferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero,
le cerne in Istria si levassero, le leve in terra ferma per riempiere i
reggimenti italiani si facessero, le compagnie dalle quarantotto alle
cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero;
finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato
che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni
sul golfo infestato da corsari africani e franzesi. A questo modo
aveva il senato prudentemente e fortemente deliberato. Ma i savii del
consiglio, ai quali apparteneva l'esecuzione del partito vinto dal
Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero,
scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di
sette mila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato,
sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente
accusando in pubblico come in privato l'improvvidenza degli uomini ed
il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la
sua diletta ed infelice patria.
Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica
mandato a Basilea il conte Rocco Sanfermo, acciò spiasse e mandasse
quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finitima di
Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e
nemici di ogni sorta. Sanfermo, o che fosse spaventato egli, o che
volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia:
d'un Gorani destinato dal governo di Francia ad essere stromento a
far rivoluzione in Italia; poi certe ciance d'un Bacher, segretario
della legazione franzese in Basilea; poi d'un Guistendoerffer, che da
Parigi gli riferiva che la Francia faceva grandissimi disegni sulla
Italia, che già vi aveva per oro intelligenze da per tutto, anche a
Venezia, per modo che già erano a quei della salute pubblica obbligati
personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni de' destinati
dal governo a sopravvedere ed a scoprire le trame di Francia; che
Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica
per queste e per queste altre ragioni. Le quali novelle, che avrebbero
incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono
i molti, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in que'
tempi difficili sentissero meglio di debolezza che di prudenza.
Accrebbe le difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza,
fratello di Luigi XVI re di Francia, fuggendo il furore de' nemici
della sua casa, riparato in Torino. Ma essendo i repubblicani, tanto
avidi del suo sangue, comparsi prima sulle cime delle Alpi, poscia
sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte
in atto minaccievole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta,
e di andarsene, fidandosi nella integrità del senato, a cercar asilo
sulle terre della repubblica veneta. Seguitavano il principe, che sotto
nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di
Francia, tra' quali principalmente si notavano il duca d'Avaray ed il
conte d'Entraigues. Il senato veneto, pietosamente risguardando ad un
tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che glie ne sarebbero
venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente
ne' suoi Stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse
privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con
pratiche ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma
non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderii
del senato veneto si conformarono le intenzioni del conte di Provenza,
il quale, in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza
di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, da'
quali potessero seguir danno o pericolo agl'interessi altrui. Volle
egli far la sua dimora in Verona; del quale desiderio essendo stato
fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse
il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù e la sventura da
cui era combattuto: riconoscesse anche in lui ne' colloqui privati la
altezza del grado; ma pubblicamente si astenesse dall'usare verso di
lui di quegli atti, co' quali si sogliono riconoscere i principi. Nella
quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che
ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo
di Francia di querelarsi: il che però, siccome suole avvenire che i
forti usano la vessazione come i deboli il sospetto, non impedì punto
le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del
robespierrano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero
bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo,
e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. In
somma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode
debbonsi riconoscere i popoli, quanto esso era anche pericoloso. Qual
frutto ne abbiano conseguito, vedremo a suo tempo.
La veneta repubblica non era ancora giunta agli affanni estremi. Era
stato destinato dalla congregrazione della salute pubblica, con titolo
d'inviato a Venezia, Lallemand, per lo innanzi console di Francia a
Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e
molto dissimile da' tempi, al serenissimo principe il dì 13 novembre,
manifestava che, per l'elezione del Lallemand, cessava il suo mandato.
Furono in questo proposito molti e varii i dispareri nelle consulte
venete, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo
altri la contraria sentenza. Instavano i ministri delle potenze estere
acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco
tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione
favorevole all'accettazione.
Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il piemontese, riceveva
maggiori molestie del genovese, e nissuno ancora in mezzo a così
estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità o costanza. Già abbiamo
narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi
risentimenti al governo inglese: fu risposto per i generali. Intanto
ne successe un altro, che offese anche più direttamente la dignità e
l'independenza dello Stato. Appresentavansi in cospetto della signoria
Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno,
almirante del re Cattolico, che con parte della sua flotta stanziava
nel porlo di Genova, e con parole superbe e in termini eccessivi
dettavano alla repubblica leggi contro la Francia, intimando in fine
che, se non consentisse, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni
suo commercio con Francia e co' paesi da Francia occupati.
Questa prepotenza inglese, dicesi inglese, perchè lo Spagnuolo, udite
le rimostranze de' Genovesi, se n'era ritirato, tanto era più odiosa
quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un
furioso talento che ai comandamenti del suo governo. La signoria di
Genova, serbata la dignità e non omesse le rimostranze, fece opera di
mostrare al ministro del re Giorgio quanto lontane dal diritto fossero
le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto
traffico e dell'indipendenza della nazione richiedendolo. Ma Drake,
che meglio mirava all'utile o allo sdegno, che al giusto o alla
temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed,
abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato,
essere i porti genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per
entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero,
sarebbero predate dagl'Inglesi e poste al fisco.
Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare
le navi genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle
artiglierie del molo avevano concitato a gravissimo sdegno quel
popolo vivace ed animoso per modo che il nome inglese vi era divenuto
odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova
per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole e
minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di
quei tempi di portare sui cappelli la nappa nera, che è pure l'insegna
degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente
a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di
furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario
lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'esempio comune,
stracciavano le nappe e le schernivano con ogni strazio.
Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Franzesi, passati i
confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica,
crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia,
vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I
consigli pensarono a' rimedii. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa,
essere seguita l'invasione non solo senza alcuna partecipazione
loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto
in dubitazione, stessero pur confidenti che la repubblica, sempre
consentanea a sè medesima ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai
per dipartirsi da quanto la sincera neutralità e l'animo non inclinato
nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la
sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano
più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale;
munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega
di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e
più arditi.
Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori.
Era, siccome si è narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi.
Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli
generale di Corsica vollero temperare il dominio forastiero con qualche
moderazione di leggi; modellarono una costituzione; mancava il consenso
dei popoli; adunossi una dieta o congresso generale nella città di
Corte; approvò la costituzione.
L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood
e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli
mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della
nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate
prima le ingiurie fatte ai Corsi dai Genovesi, che la Corsica intimava
la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra,
corressero contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà
di appropriarsi non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente
enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti
neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi,
e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento
scudi di premio per ogni capo di tali schiavi che fosse condotto a
Bastia. Non è certo da maravigliare che Paoli, nemicissimo per natura
ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi
eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in
Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili
ed umani uomini, gli abbiano tollerati, e forse instillati, con lasciar
anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e
di schiavitù, niuno sarà che non condanni. Intanto arditissimi corsari
corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi
quarti d'Inghilterra e con patenti spedite da Elliot, facevano danni
incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non
portava.
Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica; ma
insidiosa e non piena fu la riparazione. Ordinava che l'assedio di
Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari corsi
avessero facoltà di predare i bastimenti genovesi, o di qualunque
nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci
loro ponessero al fisco, e gli uomini non più come schiavi, ma come
prigionieri di guerra si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni
civili.
Pareva che la condizione di Genova con la Gran Bretagna fosse divenuta
più tollerabile; al tempo stesso i termini in cui viveva colla Francia
si miglioravano; perchè, morto Robespierre, era stato richiamato Tilly,
mandandosi in iscambio un Villard, che più moderatamente procedeva.
Ma la guerra non lasciava quietare la malarrivata Genova. L'accidente
seguito della occupazione d'una parte della riviera di Ponente ed i
progressi dei Franzesi insino a Finale, davano timore che potessero,
per la via del Dego e del Cairo, sboccare in Piemonte. Per preservare
questa provincia finchè giungessero le genti tedesche stipulate nel
trattato di Valenciennes, tutte le truppe austriache, già chiamate, si
adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i
Franzesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino.
Sommavano a dodici mila combattenti tra fanti e cavalli: queste erano
le squadre della vanguardia e del grosso dell'esercito; il retroguardo
stanziava al Dego. Ivi avevano le artiglierie grosse, i magazzini ed
i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti
attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al
monte di Santa Lucia ed a levante di Vermezzano sopra la strada del
Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra
la pescaia del Mulino. Oltre di ciò, alcuni reggimenti piemontesi che
alloggiavano in un campo a Morozzo marciavano verso Millesimo col fine
di congiungersi cogli Austriaci che difendevano il paese del Cairo.
Dall'altra parte i Franzesi, udito di questo moto, ed avendo
anche presentito che l'esercito imperiale si volesse impadronire
improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro
con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlochè l'esercito
loro grosso di quindici mila combattenti, fatto uno sforzo, avea
sloggiato la vanguardia austriaca da varii posti, seguitandola sino
sulle alture che stanno a sopraccapo del Cairo, le quali occuparono,
la notte del 20 settembre, principalmente quelle che signoreggiavano
il castello. La quale cosa vedutasi dai generali austriaci Turcheim e
Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti
loro verso il campo di Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno
l'artiglieria grossa, serbando con loro la leggiera ch'era fiorita e
numerosa.
Era il dì 21 settembre imminente una battaglia. La mattina molto per
tempo avevano i generali austriaci ordinato le genti loro, partendole
in due parti, delle quali una, ch'era l'antiguardo, occupava le
alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a
Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo di Colletto, per
cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una
quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco
governate dai volontari. Al piano e verso il mezzo dell'antiguardo,
trentasei pezzi di artiglieria guardavano il passo, sei sul monte
Lucia, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della
battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture
di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava
sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro
alla destra.
Wallis, supremo generale austriaco, arrivato al campo poco innanzi
che incominciasse la battaglia, operò che alcuni battaglioni
dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il
quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria.
Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano
i Franzesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai
generali Massena e Laharpe, e dal generale di artiglieria Buonaparte.
Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima, seguitata da
questa ardentissima mossa principio alla vittoria de' suoi. Superato
il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i
Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta da'
difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già,
prima della rotta de' regii a stanca, erano in procinto di entrare,
superato ogni ostacolo, in que' forti. In cotal modo le difese rizzate
sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Franzesi, non senza
però che il valore italiano avesse fatto di sè fierissima mostra.
Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa quanto
era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regii,
acquistarono i Franzesi tutte le artiglierie dei ridotti che erano
fioritissime, con alcune altre che vicine stanziavano per gli scambii,
molta moschetteria, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità
considerabile. Morirono pochi, rispetto alle gravità del fatto,
dall'una parte e dall'altra; circa otto cento prigionieri ornarono la
vittoria dei repubblicani. Non fecero i Franzesi fine al perseguitare
se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e
la Novalesa vennero a divozione dei repubblicani. Perduto il Cenisio,
tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte
della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi
e di munizioni, era impossibile ad essere superato. Nè i Franzesi
si attentarono di combatterlo; poichè, contenti all'essere divenuti
signori del passo alpestre del Cenisio ed all'aver messo spavento
coll'armi loro sulle rive della Dora riparia, nè essendo in numero
sufficiente a poter tentare cosa di importanza più oltre la Novalesa,
se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti
nelle altre parti dove ardeva la guerra.
Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Franzesi,
nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto
l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito
di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata,
che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione.
Voltarono dunque il pensiero ad insignorirsene per assedio: al che
per togliere ogni facilità, i capitani del re, e fra i primi Colli,
avevano diligentemente fortificato le cime dei monti che dividono il
Genovesato dalla valle della Roia, massime il passo principale di colle
Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Franzesi,
dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro,
si appresentarono alla batteria il dì 27 aprile, ed incominciarono un
furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente
i Franzesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di
Felta, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei
passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in
potestà loro. Morirono in questo fatto parecchi soldati di nome e di
valore d'ambe le parte, e fra essi il capitano Maulandi, italiano,
nel quale non saprebbe dirsi se fosse maggiore il valor militare, o la
modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura.
La vittoria del colle Ardente diè campo ai Franzesi di calarsi per la
via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta
al colle di Tenda. Certamente essendo quel forte munitissimo, avrebbe
potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il
presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva
Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di
Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza,
resistesse più lungamente che potesse, e non cedesse la piazza se non
quando se ne avesse avuto il comandamento da lui; perchè l'intento
suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il
cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per lo effetto
dell'essere i Franzesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed
il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o
per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le
sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con
tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con
Mesmer comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte
da un consiglio militare, e passati per l'armi sulla spianata della
cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso,
volle il governo dar terrore ai novatori e credenza ai popoli, che il
tradimento avea procurato la vittoria al nemico.
Rimaneva ai Franzesi per compir l'opera che si impadronissero del colle
di Tenda, sommo apice delle Alpi marittime; nè s'indugiarono a questa
impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regii e del favor
della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono
i Piemontesi che facevano le viste di voler difendere il colle; e con
molta audacia e perizia occupando i Franzesi l'uno dopo l'altro i posti
eminenti sulla faccia del monte, i Piemontesi, abbandonata dopo debole
difesa la cresta in balia del nemico, si ritirarono a Limone, terra
posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte.
Tutte queste fazioni, molto perniziose allo Stato del re, tanto maggior
terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte
le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo Stato
da uomini condotti da illusioni funeste, ma che niun mezzo avevano di
arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri
si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in
mezzo a tanti sdegni ed a tanti terrori.
Vittorio, perduta la metà degli Stati e le principali difese
dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema
rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque
grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a
procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni
quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana
a martello; fossero retti e divisi in isquadroni da ufficiali
di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni
durasse, somministrassersi munizioni dalle armerie, e viveri dai
magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne
mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne
abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa
arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro che meglio
avessero combattuto pel re e per la patria.
Questo stormo non poteva esser di molto momento alla vittoria; che
anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse
stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre
ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i
reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedii non bastando
alla salute del regno, instantemente si ricercarono i generali
austriaci che, fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro,
prontamente verso il Piemonte che pericolava gl'indirizzassero. Il
conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore
a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano,
conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente
nell'aprile tutte quelle che avea disponibili, e che unite componevano
un esercito di venti mila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con
queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino
a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in
Piemonte, a norma del trattato di Valenciennes. Inoltre muniva il re di
genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva,
Cuneo ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno
non mancassero l'armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarii
supplire, ordinava che si raccogliesse il salnitro in tutte le case
di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non
necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i
nobili, non quelli che militando seguivano le insegne reali, ma gli
oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso
consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con
sè le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle
ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge che sotto pena di
confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì che i beni
confiscati si incorporassero alla corona.
Fu anche giudicato che, per prevenir le congiure, fosse necessario
di soffocarne i semi e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava che
fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed
anche i casini. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi,
si spartivano i cittadini perchè non congiurassero, si univano perchè
combattessero.
Le fazioni tanto favorevoli ai Franzesi diedero molto a pensare ai
governi italiani. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori
sforzi in favore dei confederati: indirizzava alla volta della
Lombardia, parte per terra, parte per mare, dieciotto mila soldati
tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega.
Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti
richiedevano, aveva comandato pagassero i baroni, i nobili ed i ricchi
cento venti mila ducati il mese; il restante, per non aggravare i
popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario; pagassero i beni
ecclesiastici una tassa del sette per centinaio; portassersi alla
zecca gli ori e gli argenti delle chiese che non fossero necessarii
al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo
per centinaio del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero, e il
patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili.
Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si
scoperse la congiura di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama,
a cambiare il governo regio ed a fare una rivoluzione nel regno.
Questo fatto grave in sè stesso, e reso ancor più grave dalle menti
accendibili e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe,
proponendo il governo la salute propria a quella altrui. Si aggiunse
che i corsari sì franzesi che algerini infestavano i litorali del
regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta
a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per
far peggio eziandio che rubare.
Anche il pontefice che fra tutti i principi era forse quello che
procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò
con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose
su' luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò
magazzini, ospedali e nuove regole per la milizia. In questi suoi
pensieri dell'armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più
sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per quel
fatto enorme di Basseville, accaduto in Roma sull'entrare dell'anno
precedente, e che abbiamo a suo luogo raccontato.
Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie
dei repubblicani sulle Alpi, e del loro ingresso nel territorio
genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero
fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi
in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra
di loro le due parti contrarie, e quella, sostenuta dal procurator
Pesaro, al quale si aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli
di molta autorità, che insisteva perchè la repubblica si armasse, e
quella che credeva più pericoloso l'armarsi che il fidarsi. Sorse
in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla
volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior
ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccaria
Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando
tutti che l'armarsi non era possibile, non a tempo, inutile. Dopo
molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiciannove
voti favorevoli e sessantasette contrarii. Decretossi, chiamassersi le
truppe, sì a piedi che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad
assicurare la terra ferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero,
le cerne in Istria si levassero, le leve in terra ferma per riempiere i
reggimenti italiani si facessero, le compagnie dalle quarantotto alle
cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero;
finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato
che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni
sul golfo infestato da corsari africani e franzesi. A questo modo
aveva il senato prudentemente e fortemente deliberato. Ma i savii del
consiglio, ai quali apparteneva l'esecuzione del partito vinto dal
Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero,
scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di
sette mila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato,
sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente
accusando in pubblico come in privato l'improvvidenza degli uomini ed
il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la
sua diletta ed infelice patria.
Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica
mandato a Basilea il conte Rocco Sanfermo, acciò spiasse e mandasse
quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finitima di
Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e
nemici di ogni sorta. Sanfermo, o che fosse spaventato egli, o che
volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia:
d'un Gorani destinato dal governo di Francia ad essere stromento a
far rivoluzione in Italia; poi certe ciance d'un Bacher, segretario
della legazione franzese in Basilea; poi d'un Guistendoerffer, che da
Parigi gli riferiva che la Francia faceva grandissimi disegni sulla
Italia, che già vi aveva per oro intelligenze da per tutto, anche a
Venezia, per modo che già erano a quei della salute pubblica obbligati
personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni de' destinati
dal governo a sopravvedere ed a scoprire le trame di Francia; che
Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica
per queste e per queste altre ragioni. Le quali novelle, che avrebbero
incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono
i molti, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in que'
tempi difficili sentissero meglio di debolezza che di prudenza.
Accrebbe le difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza,
fratello di Luigi XVI re di Francia, fuggendo il furore de' nemici
della sua casa, riparato in Torino. Ma essendo i repubblicani, tanto
avidi del suo sangue, comparsi prima sulle cime delle Alpi, poscia
sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte
in atto minaccievole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta,
e di andarsene, fidandosi nella integrità del senato, a cercar asilo
sulle terre della repubblica veneta. Seguitavano il principe, che sotto
nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di
Francia, tra' quali principalmente si notavano il duca d'Avaray ed il
conte d'Entraigues. Il senato veneto, pietosamente risguardando ad un
tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che glie ne sarebbero
venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente
ne' suoi Stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse
privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con
pratiche ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma
non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderii
del senato veneto si conformarono le intenzioni del conte di Provenza,
il quale, in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza
di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, da'
quali potessero seguir danno o pericolo agl'interessi altrui. Volle
egli far la sua dimora in Verona; del quale desiderio essendo stato
fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse
il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù e la sventura da
cui era combattuto: riconoscesse anche in lui ne' colloqui privati la
altezza del grado; ma pubblicamente si astenesse dall'usare verso di
lui di quegli atti, co' quali si sogliono riconoscere i principi. Nella
quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che
ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo
di Francia di querelarsi: il che però, siccome suole avvenire che i
forti usano la vessazione come i deboli il sospetto, non impedì punto
le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del
robespierrano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero
bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo,
e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. In
somma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode
debbonsi riconoscere i popoli, quanto esso era anche pericoloso. Qual
frutto ne abbiano conseguito, vedremo a suo tempo.
La veneta repubblica non era ancora giunta agli affanni estremi. Era
stato destinato dalla congregrazione della salute pubblica, con titolo
d'inviato a Venezia, Lallemand, per lo innanzi console di Francia a
Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e
molto dissimile da' tempi, al serenissimo principe il dì 13 novembre,
manifestava che, per l'elezione del Lallemand, cessava il suo mandato.
Furono in questo proposito molti e varii i dispareri nelle consulte
venete, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo
altri la contraria sentenza. Instavano i ministri delle potenze estere
acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco
tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione
favorevole all'accettazione.
Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il piemontese, riceveva
maggiori molestie del genovese, e nissuno ancora in mezzo a così
estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità o costanza. Già abbiamo
narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi
risentimenti al governo inglese: fu risposto per i generali. Intanto
ne successe un altro, che offese anche più direttamente la dignità e
l'independenza dello Stato. Appresentavansi in cospetto della signoria
Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno,
almirante del re Cattolico, che con parte della sua flotta stanziava
nel porlo di Genova, e con parole superbe e in termini eccessivi
dettavano alla repubblica leggi contro la Francia, intimando in fine
che, se non consentisse, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni
suo commercio con Francia e co' paesi da Francia occupati.
Questa prepotenza inglese, dicesi inglese, perchè lo Spagnuolo, udite
le rimostranze de' Genovesi, se n'era ritirato, tanto era più odiosa
quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un
furioso talento che ai comandamenti del suo governo. La signoria di
Genova, serbata la dignità e non omesse le rimostranze, fece opera di
mostrare al ministro del re Giorgio quanto lontane dal diritto fossero
le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto
traffico e dell'indipendenza della nazione richiedendolo. Ma Drake,
che meglio mirava all'utile o allo sdegno, che al giusto o alla
temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed,
abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato,
essere i porti genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per
entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero,
sarebbero predate dagl'Inglesi e poste al fisco.
Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare
le navi genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle
artiglierie del molo avevano concitato a gravissimo sdegno quel
popolo vivace ed animoso per modo che il nome inglese vi era divenuto
odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova
per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole e
minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di
quei tempi di portare sui cappelli la nappa nera, che è pure l'insegna
degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente
a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di
furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario
lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'esempio comune,
stracciavano le nappe e le schernivano con ogni strazio.
Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Franzesi, passati i
confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica,
crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia,
vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I
consigli pensarono a' rimedii. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa,
essere seguita l'invasione non solo senza alcuna partecipazione
loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto
in dubitazione, stessero pur confidenti che la repubblica, sempre
consentanea a sè medesima ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai
per dipartirsi da quanto la sincera neutralità e l'animo non inclinato
nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la
sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano
più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale;
munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega
di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e
più arditi.
Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori.
Era, siccome si è narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi.
Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli
generale di Corsica vollero temperare il dominio forastiero con qualche
moderazione di leggi; modellarono una costituzione; mancava il consenso
dei popoli; adunossi una dieta o congresso generale nella città di
Corte; approvò la costituzione.
L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood
e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli
mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della
nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate
prima le ingiurie fatte ai Corsi dai Genovesi, che la Corsica intimava
la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra,
corressero contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà
di appropriarsi non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente
enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti
neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi,
e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento
scudi di premio per ogni capo di tali schiavi che fosse condotto a
Bastia. Non è certo da maravigliare che Paoli, nemicissimo per natura
ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi
eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in
Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili
ed umani uomini, gli abbiano tollerati, e forse instillati, con lasciar
anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e
di schiavitù, niuno sarà che non condanni. Intanto arditissimi corsari
corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi
quarti d'Inghilterra e con patenti spedite da Elliot, facevano danni
incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non
portava.
Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica; ma
insidiosa e non piena fu la riparazione. Ordinava che l'assedio di
Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari corsi
avessero facoltà di predare i bastimenti genovesi, o di qualunque
nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci
loro ponessero al fisco, e gli uomini non più come schiavi, ma come
prigionieri di guerra si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni
civili.
Pareva che la condizione di Genova con la Gran Bretagna fosse divenuta
più tollerabile; al tempo stesso i termini in cui viveva colla Francia
si miglioravano; perchè, morto Robespierre, era stato richiamato Tilly,
mandandosi in iscambio un Villard, che più moderatamente procedeva.
Ma la guerra non lasciava quietare la malarrivata Genova. L'accidente
seguito della occupazione d'una parte della riviera di Ponente ed i
progressi dei Franzesi insino a Finale, davano timore che potessero,
per la via del Dego e del Cairo, sboccare in Piemonte. Per preservare
questa provincia finchè giungessero le genti tedesche stipulate nel
trattato di Valenciennes, tutte le truppe austriache, già chiamate, si
adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i
Franzesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino.
Sommavano a dodici mila combattenti tra fanti e cavalli: queste erano
le squadre della vanguardia e del grosso dell'esercito; il retroguardo
stanziava al Dego. Ivi avevano le artiglierie grosse, i magazzini ed
i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti
attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al
monte di Santa Lucia ed a levante di Vermezzano sopra la strada del
Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra
la pescaia del Mulino. Oltre di ciò, alcuni reggimenti piemontesi che
alloggiavano in un campo a Morozzo marciavano verso Millesimo col fine
di congiungersi cogli Austriaci che difendevano il paese del Cairo.
Dall'altra parte i Franzesi, udito di questo moto, ed avendo
anche presentito che l'esercito imperiale si volesse impadronire
improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro
con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlochè l'esercito
loro grosso di quindici mila combattenti, fatto uno sforzo, avea
sloggiato la vanguardia austriaca da varii posti, seguitandola sino
sulle alture che stanno a sopraccapo del Cairo, le quali occuparono,
la notte del 20 settembre, principalmente quelle che signoreggiavano
il castello. La quale cosa vedutasi dai generali austriaci Turcheim e
Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti
loro verso il campo di Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno
l'artiglieria grossa, serbando con loro la leggiera ch'era fiorita e
numerosa.
Era il dì 21 settembre imminente una battaglia. La mattina molto per
tempo avevano i generali austriaci ordinato le genti loro, partendole
in due parti, delle quali una, ch'era l'antiguardo, occupava le
alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a
Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo di Colletto, per
cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una
quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco
governate dai volontari. Al piano e verso il mezzo dell'antiguardo,
trentasei pezzi di artiglieria guardavano il passo, sei sul monte
Lucia, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della
battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture
di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava
sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro
alla destra.
Wallis, supremo generale austriaco, arrivato al campo poco innanzi
che incominciasse la battaglia, operò che alcuni battaglioni
dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il
quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria.
Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano
i Franzesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai
generali Massena e Laharpe, e dal generale di artiglieria Buonaparte.
Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima, seguitata da
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