Annali d'Italia, vol. 8 - 29
Non indugiò molto spazio la fortuna a mostrare a qual parte volesse
inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo
vincevano, e se si fossero spinti avanti con quella celerità che i
tempi richiedevano, avrebbero acquistato una compiuta vittoria. Ma se
ne stettero a soprastare; l'indugio diè comodità agli avversarii di
rannodarsi ed ai popoli di aiutarli. Kellerman li ricacciò di posto
in posto, sì che in fine si ritirarono al San Bernardo, da dove un
mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria. Rimaneva pei
repubblicani che i regi si cacciassero dalla Morienna, e Kellerman
colle sue disposizioni vinse anche questo punto, perchè l'esercito del
re, pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio.
Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoia dalle genti del re di
Sardegna nell'autunno di quest'anno, e per tale modo fu esclusa la lega
dalle sue speranze in queste parti; che se il disegno dei confederati
fosse riuscito, e Lione liberato, totale sarebbe stata la mutazione
delle cose d'Europa. Ma intanto i miseri Lionesi, udita la ritirata
dell'esercito e, privi di quest'ultima speranza, furono costretti a
rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità
sia stata trattata quella città sì nobile e sì generosa.
Dall'altra parte e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano
la Savoia, s'erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio
la fortuna si mostrava loro favorevole; ma, arrivati a Giletta, e
assaltato il dì 18 ottobre con grande impeto il ponte, furono duramente
risospinti, e con perdita sì grave che questo fatto, giunto alle
sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoia e di Lione,
terminò la guerra di quest'anno in quelle parti.
Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla
quale era concorso l'esercito vincitore di Lione e la guernigione
di Valenciennes, piazza forte in Fiandra che gli alleati avevano
espugnato. Già parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia
fortuna nelle quali mostrarono ambe le parti quanto potesse il valore
congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare o
l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a
presidiare i forti rizzati sulla stanca, i Piemontesi stavano a guardia
sulla dritta.
Gli oppugnatori s'erano accampati per modo che Dugommier,
generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente, Lapoype
assaltasse verso levante, e parte di queste genti, stanziando
principalmente alla Valletta, si distendesse sì verso mezzo giorno
che una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto
all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati
consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi
e nel ridotto da questi fatto vicino al forte. Ma i Franzesi già
s'erano impadroniti delle eminenze opposte al forte ed al ridotto; e
preso anche per assalto il forte dei Pommets, da tutti tali punti con
numerose artiglierie continuamente infestavano gl'Inglesi.
Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto
sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma, poste
le artiglierie in luogo molto opportuno, per opera massimamente del
luogotenente colonnello d'artiglieria Bonaparte, giovane di virile
spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se
non si cacciavano da quel nido i Franzesi, bisognava pensar ad altro
che a stare a Tolone, sì deliberò di dar loro l'assalto. Ed, uscito
il 3 di novembre con sei mila soldati, la fortuna fu loro sul primo
incominciare seconda. Ma all'avviso di tanto sinistro accorso Dugommier
con un grosso di soldati agguerritissimi, cacciò gl'Inglesi in fuga
manifesta e con tanta foga, che i vincitori non si arrestarono se non
se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco che non vi
entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente
ferito e fatto prigioniero Ohara ch'era accorso per rannodare i suoi.
Questa fazione tanto sanguinosa diede molto a pensare agli alleati, non
li lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura
di Tolone; e i repubblicani, mostrandosi pronti a mettersi ad ogni più
grave pericolo per conquistar quella città: si risolveva Dugommier a
dar l'assalto da tutte le bande.
Adunque, posta essendo ogni cosa in pronto, il dì 14 dicembre i
Franzesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da
quel fatto doveva risultare non solo la conservazione o la perdita
di Tolone, ma ancora la riputazione delle armi e l'acquisto d'Italia,
con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce la
difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia
al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurità dei luoghi
faceva inclinare le sorti a favore degli assaltatori, ora l'audacia,
per verità non credibile se non fosse vera, le voltava a favor degli
assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano
lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti ed i parapetti
delle batterie inglesi apparivano cospersi di cadaveri franzesi, e
nonostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui
che ribollivano rendevano gli uomini più accaniti e continuamente si
dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano.
Prevalse la fortuna di Francia; i forti tutti caddero in mano dei
repubblicani.
L'espugnazione de' forti rendeva impossibile agli alleati il tenere più
lungamente Tolone: conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi
dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte
confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel
maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci, appiccarono
il fuoco alle navi che non potevano trasportare con loro ed a tutte le
opere preziose di marineria di cui Tolone abbondava. In questo Sidney
Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli che alle grandi, con
molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le
armerie, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano.
Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo
tempo a compire.
Ma compassionevole spettacolo era quello de' Tolonesi, i quali
costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di
gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con
esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose che in
tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano
per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierie de' loro
compatriotti o da quelle degl'Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il
tuonare, lo scompiglio delle navi che andavano e venivano, le minaccie
de' soldati da terra che fuggivano, lo strepito de' soldati da mare
che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione,
le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un
terrore, una miseria che si possono meglio con la mente immaginare
che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi, disperando della
pietà del vincitore, accettato l'esilio, si ricoveravano alle navi, non
sapendo nè dove nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre
giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte
confederate, tirandosi dietro le navi rapite di Francia, i giorni 18
e 19 dicembre si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le
antiche Stecadi. Il giorno 20 poi, e poichè tutti si erano ridotti a
salvamento, vuotato il forte Lamalgue che ne avea protetto la ritirata,
lasciarono la misera terra intieramente a discrezione de' repubblicani:
entraronvi fieri e minacciosi.
Arsero nell'incendio tolonese acceso dagl'Inglesi quindici navi grosse
di fila; arsero sei fregate, con molti altri legni minori. Rapirono e
s'appropriarono gli Inglesi la grossissima nave di cento venti cannoni
chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo ed il Potente, l'uno
e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa,
l'Aurora, il Topazzo e non pochi altri legni minori. I Sardi se ne
portarono la fregata l'Alceste; i Napolitani il brigantino l'Imbroglio,
gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella
d'Inghilterra.
Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco
per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emula, che
ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio dei mari, e che
tuttavia avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo.
Così perì Tolone, città nobile e ricca, e sede principale della
marineria franzese.
I rappresentanti del popolo, Barras, Freron, Robespierre giovane e
Saliceti scrissero il dì 21 dicembre al consesso nazionale, essere
Tolone in potestà della repubblica.
Anno di CRISTO MDCCXCIV. Indiz. XII.
PIO VI papa 20.
FRANCESCO II imperadore 3.
L'infelice riuscita delle due imprese di Lione e di Tolone, la cattiva
prova fatta dai Marsigliesi, e la poca dipendenza che trovavano
nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai
confederati quanto fosse fallace l'opinione di aver nella popolazione
e nella efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni
che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però
si persuasero facilmente che non nelle parole ma nei fatti, non nelle
armi altrui ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era
diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti
stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una
volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior disubbidienza
li concitasse. E siccome era divenuto necessario che si cambiassero i
mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva che si dovevano cambiar
i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di
giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò
diè maggior ragionevolezza al conquistare per sè. Pareva necessario
torre per la risecazione di territorii forza ad una nazione potente
per sè stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si
rivolgevano per la mente de' confederati, i quali finalmente vennero
in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con
certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente
politica, cambiava di natura diventando guerra politica e territoriale.
Per tali condizioni dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in
Valenciennes il dì 21 di maggio del presente anno tra l'Austria e la
Sardegna un trattato, nel quale inoltre prometteva il re di fare ogni
maggiore sforzo e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandar in
Italia il più gran numero di genti potesse, oltre le ausiliarie che fin
dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito
reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente e coi medesimi
consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente
alla difesa dei monti e dei passi tanto verso la Savoia, quanto verso
il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in
piccole schiere, ma stessero congiunte in grosso corpo, sempre pronto
ad operare fortemente e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito
regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte;
e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano per
prima cosa e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il
nemico sulla riviera di Genova, affine di guarentire ed assicurare il
Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo
di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte;
avesse l'arciduca governator generale della Lombardia austriaca facoltà
di trattare ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione
del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa e di
rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare la impresa.
I Franzesi i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano
entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano
subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di
prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli
alleati. Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il
nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto
quelli che reggevano le genti adunate nella Savoia e nel Delfinato,
quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di
fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regii su
tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla
costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati
assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio
d'una potenza neutrale, così là usarono le armi e qua le persuasioni;
le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro.
Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal
governo franzese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro
i Franzesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe
non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il
governo genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era
composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi. Così sedate
le ire e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i
Franzesi usare le opportunità del territorio genovese per assaltare gli
Stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato
manifesto, scritto da Nizza, il dì 30 marzo, dai rappresentanti del
popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti.
Alle benigne parole succedevano ben tosto apparati terribili. Erano i
Franzesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del
generale Dumorbion, verso il principio di aprile, nel territorio di
Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine
del genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i
disegni loro, mandarono la notte del 6 dello stesso mese il generale
Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore che la Francia chiedeva
che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già
si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A
queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della
violata neutralità; ma vano era il protestare contro una risoluzione
irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il
dì 6 aprile sul territorio italiano l'esercito repubblicano di Francia
in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo e quale si
conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva
dietro col retroguardo il generale Massena, destinato a sollevarsi da'
più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più
periti e famosi capitani che abbiano acquistato nome nelle storie.
Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani, per viemmeglio
assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo
piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo,
caldamente, ma invano, s'era opposto il governatore genovese; ma
avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre
e Salicetti, ritirossene il presidio franzese, lasciando di nuovo il
castello in potere dei Genovesi.
Intanto, proseguendo i Franzesi l'impresa loro, una parte, voltatasi
alla sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone
un picciol presidio piemontese che vi stava a guardia, l'altra,
marciando sul litorale, s'incamminava alla volta di San Remo col
pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine
di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo
per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle
delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le
quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso
Saorgio. Nè contenti a questo i Franzesi, muovendosi sulla stanca di
Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio,
i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire la importante
fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie
avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore,
acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per
modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto
ad essere assalito da vicino. Nonostante, essendo forte per natura e
per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella
d'impadronirsene per oppugnazione, con assaltarlo da fronte.
Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano
i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non
poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi che
interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Franzesi
alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se
non per le navi genovesi che loro portavano i frumenti. Oltre a questo,
la strada non era nè lunga nè difficile per andar ad assaltare Ormea
e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure
del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse
rimasto al re di Sardegna a poter comunicare prontamente e sicuramente
coll'Inghilterra, massimamente con le flotte inglesi, che già erano, o
fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste
cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto
di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto
quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e
poste le artiglierie nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo
costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti
militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico
che sopravanzava per la moltitudine ed era fatto più audace per le
vittorie. La battaglia fu aspra. I Franzesi, partiti da San Remo, ed
occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore
inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime
delle artiglierie, le quali, traendo a punto fermo, facevano una
strage incredibile nelle file dei Franzesi. Questi, veduto il danno, e
stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto,
che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni
pezzi di artiglierie minute in luoghi prima creduti inaccessibili,
e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano
nella stessa forma, tanto fecero che questi, soppressati dal numero,
e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche
disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso.
Poscia, squadronatisi di nuovo, si ridussero al ponte di Nava,
lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto
del vincitore. Gli abitatori, mossi dal romore delle armi, e nei
quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi
di Truguet aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città
abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi.
Vi entrarono i repubblicani; e qui, per fare testimonianza al vero, è
debito raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal
por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e
nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza
militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa
tanto è più da notarsi, quanti a quei tempi in Francia correvano esempi
degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovarono
all'estremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in
Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie
da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri.
Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca,
promettendo a tutti che tornassero intiera sicurezza nelle persone e
nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano
una squadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa
con piccolo porto situata in su quella marina ed appartenente al re di
Sardegna.
Quantunque questa fazione fosse di importanza per le bisogna loro verso
il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei
sommi gioghi dei monti: s'accorgevano che insino a tanto che quelle
altissime cime fossero in mano dei regi, e massime il ponte di Nava,
passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di
artiglierie, e cui erano accorsi a difendere quindici centinaia di
Austriaci, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento.
Massena, già vincitore di Santa Agata e di Oneglia, fu destinato a
questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con otto mila
soldati scelti, e tanto e così subito fu l'impeto loro, che nè i
luoghi oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regi, nè le
artiglierie loro governate con molta maestria poterono operare che i
repubblicani non riuscissero vincitori. Massena, per non dar respitto,
e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un
bando coi soliti blandimenti e minaccie.
Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo
di Ormea, che, abbandonato dai difensori, venne in potere degli
assalitori, colle artiglierie grosse e minute e colle munizioni
da guerra e da bocca; gran quantità di panni singolarmente utili
al vestire dei soldati; undici centinaia di prigionieri resero più
cospicua questa vittoria. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna
del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai
repubblicani, ormai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si
spandessero nel Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la
intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose volerla
difendere sino all'estremo.
I Franzesi, conquistata Oneglia ed i luoghi importanti pe' quali
potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi
di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti
al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già
avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose
militari e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia
e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con
soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi,
coi precipizii, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo
ardua, ma impossibile, si credeva quella di superare il piccolo San
Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non
si ristettero gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il
generale Bagdelone, dopo di avere serenato due giorni sulle nevi delle
più alte cime de' monti, con soldati disposti a morire di disagio,
non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò
improvvisamente tre forti ridotti che i Piemontesi avevano costrutto
sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo
breve contrasto se ne impadroniva; quindi, voltate le artiglierie,
ond'erano muniti, contro la cappella del San Bernardo, dove i regii
avevano il campo più grosso, facevano le viste di fulminarla. Fu forza
allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano de' nemici un sito
che fu prima perduto che si pensasse di poterlo perdere. Nè i Franzesi
arrestarono il corso loro; anzi, spingendosi avanti, cacciarono a furia
i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi fin più là della Tuile, della
quale si impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la
valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel
mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che, dopo di avere
raccolte con sè tutte le milizie e tutte le genti regolari che in sì
grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso delle cose che
precipitavano.
Tentarono nel medesimo tempo e pei medesimi motivi i repubblicani
parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcavano, non arrestati nè da'
turbini nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo
all'improvviso sopra il forte di Mirabacco, difeso da pochi invalidi,
se ne impadronirono facilmente. Poscia, scendendo per la valle di
Lucerna, occuparono Bobbio ed altre terre superiori della medesima
valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche qui si
fecero dal governo le convenevoli provvisioni per modo che, assaliti
valorosamente i Franzesi dai regii nella terra del Villars, furono
costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte
Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa
terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di avere
presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si
ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti all'aver
romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed all'aver
fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Colla medesima
fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle
Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa
fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei
spianò la strada all'esercito d'Italia a potersi comunicare con quello
delle Alpi.
Il fatto d'armi di maggior rilievo, e per la sua grandezza e pel
valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del
monte Cenisio. Ne avevano i Piemontesi munito la eminenza con molte
e grosse artiglierie e con trincee e con ridotti. Tre principalissimi
massimamente parevano rendere sicuro quel passo, de' quali uno chiamato
de' Rivetti guardava il borro a destra dell'eminenza; il secondo detto
della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della
Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente
il terzo posto alla destra de' regii, il quale, avuto il nome di
un valente generale italiano che militava ai soldi dell'Austria,
chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierie
volte verso una selva di spessi e folti virgulti che poteva da quella
parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti
presidiati da soldati agguerriti e da cannonieri abilissimi. Tutti
avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di
provata esperienza, che li comandava: così il luogo, l'arte ed il
valore promettevano la vittoria. Ma i Franzesi, soliti a que' tempi
a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti
di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, fatto convenire a
Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più
pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a
far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro.
Era corsa la stagione fin verso la metà di maggio: in sul finir del
giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto
divisi in tre parti: Dumas medesimo per la strada maestra contro il
ridotto della Ramassa; il capitano Cherbin addosso al ridotto de'
Rivetti; Bagdelone per al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regii
si accorsero dell'approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre
con l'artiglieria e con l'archibuseria. Ne nacque in mezzo a que'
dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre
della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che
spandevano ad ora ad ora le artiglierie, e per l'eco che in quelle cave
montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar
loro così spesso e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre
più crescevano quanto più si avvicinavano i Franzesi ai ridotti regii;
poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa nè dal numero dei
loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non
vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti de'
Rivetti e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; con pari evento
e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora
a chi dovesse rimanere il dominio delle Alpi, quando Bagdelone con
la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti,
massime da alcuni luoghi precipitosi che gli si pararono davanti,
inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo
vincevano, e se si fossero spinti avanti con quella celerità che i
tempi richiedevano, avrebbero acquistato una compiuta vittoria. Ma se
ne stettero a soprastare; l'indugio diè comodità agli avversarii di
rannodarsi ed ai popoli di aiutarli. Kellerman li ricacciò di posto
in posto, sì che in fine si ritirarono al San Bernardo, da dove un
mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria. Rimaneva pei
repubblicani che i regi si cacciassero dalla Morienna, e Kellerman
colle sue disposizioni vinse anche questo punto, perchè l'esercito del
re, pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio.
Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoia dalle genti del re di
Sardegna nell'autunno di quest'anno, e per tale modo fu esclusa la lega
dalle sue speranze in queste parti; che se il disegno dei confederati
fosse riuscito, e Lione liberato, totale sarebbe stata la mutazione
delle cose d'Europa. Ma intanto i miseri Lionesi, udita la ritirata
dell'esercito e, privi di quest'ultima speranza, furono costretti a
rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità
sia stata trattata quella città sì nobile e sì generosa.
Dall'altra parte e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano
la Savoia, s'erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio
la fortuna si mostrava loro favorevole; ma, arrivati a Giletta, e
assaltato il dì 18 ottobre con grande impeto il ponte, furono duramente
risospinti, e con perdita sì grave che questo fatto, giunto alle
sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoia e di Lione,
terminò la guerra di quest'anno in quelle parti.
Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla
quale era concorso l'esercito vincitore di Lione e la guernigione
di Valenciennes, piazza forte in Fiandra che gli alleati avevano
espugnato. Già parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia
fortuna nelle quali mostrarono ambe le parti quanto potesse il valore
congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare o
l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a
presidiare i forti rizzati sulla stanca, i Piemontesi stavano a guardia
sulla dritta.
Gli oppugnatori s'erano accampati per modo che Dugommier,
generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente, Lapoype
assaltasse verso levante, e parte di queste genti, stanziando
principalmente alla Valletta, si distendesse sì verso mezzo giorno
che una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto
all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati
consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi
e nel ridotto da questi fatto vicino al forte. Ma i Franzesi già
s'erano impadroniti delle eminenze opposte al forte ed al ridotto; e
preso anche per assalto il forte dei Pommets, da tutti tali punti con
numerose artiglierie continuamente infestavano gl'Inglesi.
Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto
sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma, poste
le artiglierie in luogo molto opportuno, per opera massimamente del
luogotenente colonnello d'artiglieria Bonaparte, giovane di virile
spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se
non si cacciavano da quel nido i Franzesi, bisognava pensar ad altro
che a stare a Tolone, sì deliberò di dar loro l'assalto. Ed, uscito
il 3 di novembre con sei mila soldati, la fortuna fu loro sul primo
incominciare seconda. Ma all'avviso di tanto sinistro accorso Dugommier
con un grosso di soldati agguerritissimi, cacciò gl'Inglesi in fuga
manifesta e con tanta foga, che i vincitori non si arrestarono se non
se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco che non vi
entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente
ferito e fatto prigioniero Ohara ch'era accorso per rannodare i suoi.
Questa fazione tanto sanguinosa diede molto a pensare agli alleati, non
li lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura
di Tolone; e i repubblicani, mostrandosi pronti a mettersi ad ogni più
grave pericolo per conquistar quella città: si risolveva Dugommier a
dar l'assalto da tutte le bande.
Adunque, posta essendo ogni cosa in pronto, il dì 14 dicembre i
Franzesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da
quel fatto doveva risultare non solo la conservazione o la perdita
di Tolone, ma ancora la riputazione delle armi e l'acquisto d'Italia,
con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce la
difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia
al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurità dei luoghi
faceva inclinare le sorti a favore degli assaltatori, ora l'audacia,
per verità non credibile se non fosse vera, le voltava a favor degli
assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano
lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti ed i parapetti
delle batterie inglesi apparivano cospersi di cadaveri franzesi, e
nonostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui
che ribollivano rendevano gli uomini più accaniti e continuamente si
dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano.
Prevalse la fortuna di Francia; i forti tutti caddero in mano dei
repubblicani.
L'espugnazione de' forti rendeva impossibile agli alleati il tenere più
lungamente Tolone: conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi
dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte
confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel
maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci, appiccarono
il fuoco alle navi che non potevano trasportare con loro ed a tutte le
opere preziose di marineria di cui Tolone abbondava. In questo Sidney
Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli che alle grandi, con
molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le
armerie, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano.
Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo
tempo a compire.
Ma compassionevole spettacolo era quello de' Tolonesi, i quali
costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di
gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con
esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose che in
tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano
per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierie de' loro
compatriotti o da quelle degl'Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il
tuonare, lo scompiglio delle navi che andavano e venivano, le minaccie
de' soldati da terra che fuggivano, lo strepito de' soldati da mare
che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione,
le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un
terrore, una miseria che si possono meglio con la mente immaginare
che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi, disperando della
pietà del vincitore, accettato l'esilio, si ricoveravano alle navi, non
sapendo nè dove nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre
giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte
confederate, tirandosi dietro le navi rapite di Francia, i giorni 18
e 19 dicembre si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le
antiche Stecadi. Il giorno 20 poi, e poichè tutti si erano ridotti a
salvamento, vuotato il forte Lamalgue che ne avea protetto la ritirata,
lasciarono la misera terra intieramente a discrezione de' repubblicani:
entraronvi fieri e minacciosi.
Arsero nell'incendio tolonese acceso dagl'Inglesi quindici navi grosse
di fila; arsero sei fregate, con molti altri legni minori. Rapirono e
s'appropriarono gli Inglesi la grossissima nave di cento venti cannoni
chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo ed il Potente, l'uno
e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa,
l'Aurora, il Topazzo e non pochi altri legni minori. I Sardi se ne
portarono la fregata l'Alceste; i Napolitani il brigantino l'Imbroglio,
gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella
d'Inghilterra.
Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco
per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emula, che
ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio dei mari, e che
tuttavia avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo.
Così perì Tolone, città nobile e ricca, e sede principale della
marineria franzese.
I rappresentanti del popolo, Barras, Freron, Robespierre giovane e
Saliceti scrissero il dì 21 dicembre al consesso nazionale, essere
Tolone in potestà della repubblica.
Anno di CRISTO MDCCXCIV. Indiz. XII.
PIO VI papa 20.
FRANCESCO II imperadore 3.
L'infelice riuscita delle due imprese di Lione e di Tolone, la cattiva
prova fatta dai Marsigliesi, e la poca dipendenza che trovavano
nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai
confederati quanto fosse fallace l'opinione di aver nella popolazione
e nella efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni
che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però
si persuasero facilmente che non nelle parole ma nei fatti, non nelle
armi altrui ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era
diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti
stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una
volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior disubbidienza
li concitasse. E siccome era divenuto necessario che si cambiassero i
mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva che si dovevano cambiar
i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di
giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò
diè maggior ragionevolezza al conquistare per sè. Pareva necessario
torre per la risecazione di territorii forza ad una nazione potente
per sè stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si
rivolgevano per la mente de' confederati, i quali finalmente vennero
in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con
certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente
politica, cambiava di natura diventando guerra politica e territoriale.
Per tali condizioni dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in
Valenciennes il dì 21 di maggio del presente anno tra l'Austria e la
Sardegna un trattato, nel quale inoltre prometteva il re di fare ogni
maggiore sforzo e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandar in
Italia il più gran numero di genti potesse, oltre le ausiliarie che fin
dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito
reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente e coi medesimi
consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente
alla difesa dei monti e dei passi tanto verso la Savoia, quanto verso
il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in
piccole schiere, ma stessero congiunte in grosso corpo, sempre pronto
ad operare fortemente e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito
regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte;
e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano per
prima cosa e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il
nemico sulla riviera di Genova, affine di guarentire ed assicurare il
Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo
di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte;
avesse l'arciduca governator generale della Lombardia austriaca facoltà
di trattare ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione
del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa e di
rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare la impresa.
I Franzesi i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano
entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano
subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di
prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli
alleati. Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il
nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto
quelli che reggevano le genti adunate nella Savoia e nel Delfinato,
quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di
fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regii su
tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla
costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati
assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio
d'una potenza neutrale, così là usarono le armi e qua le persuasioni;
le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro.
Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal
governo franzese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro
i Franzesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe
non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il
governo genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era
composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi. Così sedate
le ire e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i
Franzesi usare le opportunità del territorio genovese per assaltare gli
Stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato
manifesto, scritto da Nizza, il dì 30 marzo, dai rappresentanti del
popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti.
Alle benigne parole succedevano ben tosto apparati terribili. Erano i
Franzesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del
generale Dumorbion, verso il principio di aprile, nel territorio di
Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine
del genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i
disegni loro, mandarono la notte del 6 dello stesso mese il generale
Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore che la Francia chiedeva
che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già
si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A
queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della
violata neutralità; ma vano era il protestare contro una risoluzione
irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il
dì 6 aprile sul territorio italiano l'esercito repubblicano di Francia
in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo e quale si
conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva
dietro col retroguardo il generale Massena, destinato a sollevarsi da'
più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più
periti e famosi capitani che abbiano acquistato nome nelle storie.
Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani, per viemmeglio
assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo
piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo,
caldamente, ma invano, s'era opposto il governatore genovese; ma
avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre
e Salicetti, ritirossene il presidio franzese, lasciando di nuovo il
castello in potere dei Genovesi.
Intanto, proseguendo i Franzesi l'impresa loro, una parte, voltatasi
alla sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone
un picciol presidio piemontese che vi stava a guardia, l'altra,
marciando sul litorale, s'incamminava alla volta di San Remo col
pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine
di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo
per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle
delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le
quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso
Saorgio. Nè contenti a questo i Franzesi, muovendosi sulla stanca di
Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio,
i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire la importante
fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie
avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore,
acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per
modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto
ad essere assalito da vicino. Nonostante, essendo forte per natura e
per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella
d'impadronirsene per oppugnazione, con assaltarlo da fronte.
Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano
i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non
poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi che
interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Franzesi
alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se
non per le navi genovesi che loro portavano i frumenti. Oltre a questo,
la strada non era nè lunga nè difficile per andar ad assaltare Ormea
e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure
del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse
rimasto al re di Sardegna a poter comunicare prontamente e sicuramente
coll'Inghilterra, massimamente con le flotte inglesi, che già erano, o
fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste
cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto
di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto
quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e
poste le artiglierie nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo
costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti
militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico
che sopravanzava per la moltitudine ed era fatto più audace per le
vittorie. La battaglia fu aspra. I Franzesi, partiti da San Remo, ed
occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore
inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime
delle artiglierie, le quali, traendo a punto fermo, facevano una
strage incredibile nelle file dei Franzesi. Questi, veduto il danno, e
stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto,
che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni
pezzi di artiglierie minute in luoghi prima creduti inaccessibili,
e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano
nella stessa forma, tanto fecero che questi, soppressati dal numero,
e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche
disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso.
Poscia, squadronatisi di nuovo, si ridussero al ponte di Nava,
lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto
del vincitore. Gli abitatori, mossi dal romore delle armi, e nei
quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi
di Truguet aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città
abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi.
Vi entrarono i repubblicani; e qui, per fare testimonianza al vero, è
debito raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal
por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e
nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza
militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa
tanto è più da notarsi, quanti a quei tempi in Francia correvano esempi
degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovarono
all'estremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in
Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie
da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri.
Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca,
promettendo a tutti che tornassero intiera sicurezza nelle persone e
nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano
una squadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa
con piccolo porto situata in su quella marina ed appartenente al re di
Sardegna.
Quantunque questa fazione fosse di importanza per le bisogna loro verso
il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei
sommi gioghi dei monti: s'accorgevano che insino a tanto che quelle
altissime cime fossero in mano dei regi, e massime il ponte di Nava,
passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di
artiglierie, e cui erano accorsi a difendere quindici centinaia di
Austriaci, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento.
Massena, già vincitore di Santa Agata e di Oneglia, fu destinato a
questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con otto mila
soldati scelti, e tanto e così subito fu l'impeto loro, che nè i
luoghi oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regi, nè le
artiglierie loro governate con molta maestria poterono operare che i
repubblicani non riuscissero vincitori. Massena, per non dar respitto,
e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un
bando coi soliti blandimenti e minaccie.
Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo
di Ormea, che, abbandonato dai difensori, venne in potere degli
assalitori, colle artiglierie grosse e minute e colle munizioni
da guerra e da bocca; gran quantità di panni singolarmente utili
al vestire dei soldati; undici centinaia di prigionieri resero più
cospicua questa vittoria. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna
del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai
repubblicani, ormai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si
spandessero nel Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la
intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose volerla
difendere sino all'estremo.
I Franzesi, conquistata Oneglia ed i luoghi importanti pe' quali
potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi
di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti
al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già
avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose
militari e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia
e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con
soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi,
coi precipizii, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo
ardua, ma impossibile, si credeva quella di superare il piccolo San
Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non
si ristettero gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il
generale Bagdelone, dopo di avere serenato due giorni sulle nevi delle
più alte cime de' monti, con soldati disposti a morire di disagio,
non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò
improvvisamente tre forti ridotti che i Piemontesi avevano costrutto
sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo
breve contrasto se ne impadroniva; quindi, voltate le artiglierie,
ond'erano muniti, contro la cappella del San Bernardo, dove i regii
avevano il campo più grosso, facevano le viste di fulminarla. Fu forza
allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano de' nemici un sito
che fu prima perduto che si pensasse di poterlo perdere. Nè i Franzesi
arrestarono il corso loro; anzi, spingendosi avanti, cacciarono a furia
i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi fin più là della Tuile, della
quale si impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la
valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel
mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che, dopo di avere
raccolte con sè tutte le milizie e tutte le genti regolari che in sì
grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso delle cose che
precipitavano.
Tentarono nel medesimo tempo e pei medesimi motivi i repubblicani
parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcavano, non arrestati nè da'
turbini nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo
all'improvviso sopra il forte di Mirabacco, difeso da pochi invalidi,
se ne impadronirono facilmente. Poscia, scendendo per la valle di
Lucerna, occuparono Bobbio ed altre terre superiori della medesima
valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche qui si
fecero dal governo le convenevoli provvisioni per modo che, assaliti
valorosamente i Franzesi dai regii nella terra del Villars, furono
costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte
Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa
terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di avere
presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si
ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti all'aver
romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed all'aver
fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Colla medesima
fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle
Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa
fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei
spianò la strada all'esercito d'Italia a potersi comunicare con quello
delle Alpi.
Il fatto d'armi di maggior rilievo, e per la sua grandezza e pel
valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del
monte Cenisio. Ne avevano i Piemontesi munito la eminenza con molte
e grosse artiglierie e con trincee e con ridotti. Tre principalissimi
massimamente parevano rendere sicuro quel passo, de' quali uno chiamato
de' Rivetti guardava il borro a destra dell'eminenza; il secondo detto
della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della
Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente
il terzo posto alla destra de' regii, il quale, avuto il nome di
un valente generale italiano che militava ai soldi dell'Austria,
chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierie
volte verso una selva di spessi e folti virgulti che poteva da quella
parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti
presidiati da soldati agguerriti e da cannonieri abilissimi. Tutti
avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di
provata esperienza, che li comandava: così il luogo, l'arte ed il
valore promettevano la vittoria. Ma i Franzesi, soliti a que' tempi
a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti
di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, fatto convenire a
Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più
pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a
far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro.
Era corsa la stagione fin verso la metà di maggio: in sul finir del
giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto
divisi in tre parti: Dumas medesimo per la strada maestra contro il
ridotto della Ramassa; il capitano Cherbin addosso al ridotto de'
Rivetti; Bagdelone per al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regii
si accorsero dell'approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre
con l'artiglieria e con l'archibuseria. Ne nacque in mezzo a que'
dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre
della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che
spandevano ad ora ad ora le artiglierie, e per l'eco che in quelle cave
montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar
loro così spesso e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre
più crescevano quanto più si avvicinavano i Franzesi ai ridotti regii;
poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa nè dal numero dei
loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non
vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti de'
Rivetti e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; con pari evento
e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora
a chi dovesse rimanere il dominio delle Alpi, quando Bagdelone con
la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti,
massime da alcuni luoghi precipitosi che gli si pararono davanti,
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