Annali d'Italia, vol. 8 - 28

combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole guerriera
dovevano seguitare molte navi da carico, per imbarcarvi i frumenti e
trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita spedizione fu dato
all'ammiraglio Truguet; laonde, trovandosi ogni cosa in pronto, ed
appena giunto il presente anno, l'armata franzese, salpando da Tolone
se ne veleggiava con vento prospero verso Sardegna; vi giunse prima
del finir di gennaio, ed il dì 24 del medesimo mese pose l'ancora,
mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè ponendo
tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti soldati a
far la chiamata alla città. Qui nacque il medesimo caso già deplorato
di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il palischermo sul
quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori, trassero sì, che
l'uffiziale e quattordici soldati restarono morti, e la più parte degli
altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare ed a bombardare la
piazza con tutto il pondo delle sue artiglierie. Nè i difensori se ne
stettero oziosi; spesseggiando coi colpi e traendo con palle di fuoco
contro le navi franzesi, sostenevano una ferocissima battaglia. Questo
assalto durò tre giorni con poco danno de' Sardi, ma con gravissimo
dell'armata franzese, della quale una nave grossa arse, e due andarono
a traverso. Le altre, o rotte sconciamente nel corpo, o lacerate
negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre, oltre il
presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri, arrivarono
i montanari, che si erano mossi quando dall'alto avevano veduto
avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai luoghi
più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque
si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile e di
virtù militare. E in fatti, quanti sbarcarono, o restarono uccisi, o,
costretti dai montanari, si ricoverarono precipitosamente alle navi.
Così restò vana la fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia.
Perderono i Franzesi in questo conflitto circa seicento buoni soldati.
Dal canto dei Sardi, cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè
Cagliari ricevè danno proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi
situati di sotto e più vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto
che gl'isolani, ne' quali aveva posto la principale speranza, non
solamente non avevano fatto movimento in suo favore, ma ancora avevano
validamente combattuto contro di lui, disperato dell'evento, si allargò
nel mare lontano dalla portata delle batterie, quantunque tuttavia
stanziasse ancora con le sue navi, così lacere com'erano, per qualche
tempo nelle acque del golfo di Cagliari. Ma poco stante non essendo
senza sospetto di ammutinamento nei suoi soldati, come suole avvenire
nelle disgrazie, e levatasi una furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a
porre nel porto di Tolone, dove l'attendevano casi ancor più tremendi.
Mentre in tal modo una guerra viva s'era accesa e presto spenta sulle
coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente:
la perdita medesima dell'impresa di Cagliari diede fomento a coloro
che, scontenti del governo di Francia, macchinavano di rivolgere
lo Stato. Mosso dall'odio antico e dalle ingiurie recenti, andava
Paoli sollevando ed armando le popolazioni, massimamente ne' luoghi
montuosi ed inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la
chiarezza del suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le
esorbitanze dei repubblicani. E le sue esortazioni producevano un
effetto incredibile. I montanari, mossi alle voce del mantenitore
della libertà corsa, calavano in folla, pronti a combattere sotto
le sue insegne contro gl'intemperanti repubblicani. Le stesse città
principali di Corte e di Aiaccio, mutato l'ordine pubblico, accettavano
il nuovo governo, rivocavano dal consesso nazionale di Francia i loro
deputati, chiamavan o Paoli generalissimo delle genti, ribandivano i
fuorusciti, restituivano il clero nella pristina condizione, e, fatto
un grosso di mille dugento soldati bene armati, s'impadronivano delle
riposte pubbliche, ed assaltavano le genti della repubblica. I soldati
repubblicani, sorpresi da tanto tumulto e ad impeto tanto improvviso,
fatto prima un poco di testa nei luoghi più forti, si ritirarono nelle
fortezze di Bastia e di San Fiorenzo. Era sorta intanto la guerra tra
la Gran Bretagna e la Francia, accidente di sì supremo momento per ambe
le parti. Ne pigliavano nuovi spiriti quei Corsi che aderivano a Paoli
e detestavano il nome di Francia.
Intanto, per dar forma al governo nuovo e ricompor quello che il
disordine dei popoli tumultuanti aveva scomposto, Paoli aveva adunato
una consulta che, procedendo secondo i tempi, gli conferiva potestà
di fare quanto credesse necessario alla conservazione della libertà
ed alla salute del popolo. Nel tempo medesimo bandiva, sotto pena di
morte, i commissarii di Francia, Casabianca, Saliceti ed Arena.
Il consesso nazionale, udite queste novità, risentitamente deliberando
decretava, essere cassa la consulta di Corsica, si arrestasse Paoli e
si conducesse alla sbarra dell'assemblea, fossero Casabianca, Saliceti
ed Arena investiti di qualunque suprema facoltà per rinstaurar lo
Stato e castigar i ribelli; il general Lacombe Saint-Michel contro i
ribelli marciasse. Obbediva Lacombe; nel medesimo tempo i commissarii
del consesso fulminavano con gli scritti e con le parole contro Paoli
e contro coloro che a lui si aderivano. Aggiungevano alle esortazioni,
che ai Corsi dirigevano, parole terribili e gonfie, secondo il
solito, minacciando castigo inevitabile, e confische, e morti a chi
contrastasse.
Raggranellati quei Corsi che per un motivo o per l'altro tenevano
per Francia, ed adunati, come meglio potè, i suoi soldati, Lacombe
era uscito dai forti; dall'altra parte, insisteva Paoli colle genti
collettizie. Ne sorgeva tra quelle rupi una guerra minuta e feroce;
ne' giusti incontri prevalendo le genti disciplinate di Lacombe, nella
guerra sparsa vantaggiando le genti di Paoli; e se non pareva che fosse
possibile che i Franzesi sforzassero i Corsi nei luoghi alpestri, non
si vedeva dall'altro canto come i Corsi potessero sforzare i Franzesi,
forti per disciplina e per artiglierie, nelle pianure e nelle terre che
occupavano sul lido.
Mentre in cotal modo le sorti della Corsica pendevano incerte, si
scopersero improvvisamente sulle sue coste più di venti navi inglesi
da guerra, le quali faceveno opera per intraprendere quelle che
si avviavano all'isola. Poscia, appoco appoco accostatesi al lido,
infestavano con bombe e con palle i luoghi che Paoli assaltava dalla
parte di terra; poste anche sul lido alcune genti, ed unite con le
schiere di Paoli, rendevano molto difficile la difesa a' Franzesi. Per
la qual cosa Lacombe, abbandonata l'isola, si ritirava a Genova sul
principiare di maggio. Rimanevano in mano dei Franzesi, Bastia, Calvi
e San Fiorenzo, ma non soprastettero ad entrare sotto le devozione del
vincitore. Così tutta la Corsica, dopo di aver obbedito al freno di
Francia per lo spazio di venticinque anni, venne, non saprebbesi dire
se in potestà propria o in potestà dell'Inghilterra.
Cacciati i Franzesi dall'isola, vi fu creato un governo per mezzo
di provvisione che intieramente dipendeva da Paoli e dalla parte
contraria alla Francia; l'autorità dei municipii fu ordinata secondo
le forme antiche. Paoli si accorgeva che questa condizione, siccome
transitoria, poteva terminarsi in molte maniere; però desiderava di
stringere, sì per fare un destino certo alla sua patria, e sì ancora
per metterla in grado di resistere ai tentativi della Francia sì vicina
e sì potente. Da un altro lato era pensiero dell'Inghilterra, per le
medesime ragioni, e per avere un piè fermo nell'isola, tanto opportuna
a' suoi traffici, a' suoi arsenali ed alla sua potenza, che si venisse
ad un partito determinativo. A questo fine Paoli applicò l'animo a
sollecitare il re della Gran Bretagna, acciocchè, ordinato un governo
libero in Corsica, ne pigliasse protezione, e il difendesse dagli
assalti della Francia: gratissimo suono all'Inghilterra. Da questo
seguitarono gli accidenti che si vedranno nell'anno seguente.
La guerra sorta coll'Inghilterra e colla Spagna e le armate loro
che erano giunte, o frappoco si attendevano nel Mediterraneo, erano
occasione di molesti pensieri ai Franzesi che occupavano la contea di
Nizza; laonde Brunet, che a quel tempo l'esercito in questi luoghi
governava, si risolvette a tentare qualche impresa di momento prima
che i confederati si fossero fatti forti nei mari vicini. Il fine di
questo moto era di cacciare i Piemontesi, dalle sommità e prender per
sè quei vantaggio che allora si trovava in mano del nemico. Partitosi
adunque sul principiar di maggio dalla Scarena, si dirizzava verso
i monti. E, siccome l'esercito piemontese era padrone di tutte le
creste, così gli fu d'uopo dividere le sue genti in moltiplici assalti.
Erano i Piemontesi sotto la condotta dei generali Colli e Dellera;
siccome avevano avuto intesa della mossa del nemico, così se ne
stavano apparecchiati per ributtarlo. Adunque, preparati gli uomini
e le armi dall'una parte e dall'altra, andavano, il dì 8 giugno, i
Franzesi all'assalto con un valore e con una furia incredibile; nè la
difficoltà dei luoghi, nè il calore della stagione, che era smisurato,
nè la tempesta di palle che fioccavano loro addosso, non li poterono
rattenere che non giungessero fin sotto le trincee, colle quali sul
sommo dei gioghi si erano i Piemontesi fortificati. Tanto fu l'impeto
loro, che tutti i posti furono sforzati, salvo quello di Raus, sotto il
quale si combatteva ostinatissimamente. Arrivarono i repubblicani con
un'audacia inestimabile fin sotto le bocche delle artiglierie italiane;
ma quanti arrivavano, tanti erano uccisi. Continuò la battaglia con
molto valore da ambe le parti con poco danno dei Piemontesi e con
gravissimo danno dei Franzesi, i quali rinfrescando continuamente con
nuovi rinforzi i combattenti, sostenevano quel duro scontro; ma in
questo punto i capi regii, veduta l'ostinazione del nemico, mandarono
al capitano Zin piantasse le artiglierie in un giogo vicino, e di là
lo fulminasse sul fianco. Il quale consiglio, opportuno per sè, fu
con tanta arte e con sì gran valore eseguito da Zin, che percossi i
repubblicani di costa, e raffrenata la temerità loro, abbandonarono
precipitosamente l'impresa, ritirandosi e lasciando i fianchi di quelle
montagne miseramente cospersi dei cadaveri de' compagni loro. In questo
fatto mostrarono i Franzesi il solito valore impetuoso e sconsiderato;
i Piemontesi, massimamente gli artiglieri ed il reggimento provinciale
di Acqui, che difendea le trincee di Raus, arte e costanza. Perdettero
i primi in questo fatto meglio di quattrocento buoni soldati tra morti,
feriti e prigionieri; negli altri assalti dati in questo medesimo
giorno circa trecento. Ne perdettero i secondi in tutta la giornata
circa trecento con due cannoni e molti arnesi da guerra. Ma tale era
l'importanza del colle di Raus, che i repubblicani, non isbigottiti
all'infelice successo della battaglia dell'8, lo assaltarono di nuovo
il dì 12 dello stesso mese con ben dodici mila soldati risolutissimi a
voler vincere. Ma nè il numero, nè il valor loro poterono operar tanto
che non fossero una seconda volta con gravissima perdita risospinti.
Così fu conservato in poter dei Piemontesi il forte posto di Raus,
dal quale intieramente pendevano gli accidenti della guerra in quelle
parti.
La fazione tanto sanguinosa di Raus aveva singolarmente raffrenato
l'audacia de' repubblicani e dato occasione agli alleati di sollevar
l'animo a più alte imprese. Se ne fecero allegrezze in Piemonte, e si
argomentava che la fuga di Savoia e di Nizza dalla mala condotta de'
capi, non da mancanza di valore ne' soldati si doveva riconoscere.
Da un altro lato i repubblicani accusarono i capi loro di tradimento.
Kellerman, avute le novelle de' fatti avversi accaduti nell'Alpi
marittime, si era condotto a Nizza per sopravveder le cose, e per
mettere in opera que' rimedii che i tempi richiedessero. Il pericolo
maggiore era quello che l'esercito alleato, facendo punta verso il
Varo, si ficcasse in mezzo, nel qual caso sarebbe stato forza evacuare
prestamente tutta la contea. Considerato bene il tutto, fe' munire
accuratamente i posti che accennavano sulla estremità dell'ala sinistra
dell'esercito dell'Alpi marittime; e ciò col fine di tener aperte le
strade a poter comunicare con le genti che tenevano il campo di Tornus,
per mezzo delle alture della Tinea, e nel tempo medesimo di stare
all'erta ed in buona guardia di quanto potesse sopraggiungere dalla
valle di Stura, per qualche passo de' gioghi sommi che coronano le Alpi
da quelle parti, e soprattutto dal colle delle Finestre, pel quale il
varco è molto più agevole.
A riscontro Colli e Dellera avevano fortificato di vantaggio e munito
di genti fresche il colle di Raus, sul quale insisteva l'ala dritta
dell'esercito loro, e distendendosi su per quelle cime fino al forte
di Saorgio, avevano speranza non solamente di resistere, ma ancora di
conseguire qualche onorata vittoria.
L'arrivo delle armate inglesi nel Mediterraneo, dando maggior animo
agli Stati d'Italia che già si erano dichiarati, diede anche occasione
di manifestarsi a coloro che, più per timore che per desiderio di
neutralità, se n'erano stati fino allora ad osservare. Per la qual
cosa il re di Napoli, scoprendosi intieramente, chiudeva i porti a'
Franzesi, e si obbligava a fornire alla lega di sei mila soldati, con
grosse navi da guerra e molte minori. Il papa medesimamente, che aveva
causa particolare di temere de' Franzesi, armava e prometteva di dar
gente; ma Venezia, Genova e Toscana persistevano nella neutralità.
Però gl'Inglesi, per farle venire ad una deliberazione terminativa,
aggiunsero alla presenza delle navi i negoziati politici; mostrarono in
questi trattati, massimamente con Genova e Toscana, tanta arroganza,
che già fin d'allora ebbe l'Italia un saggio, e potè prendere augurio
di quello che i forastieri le preparavano.
Un Harvey, ministro d'Inghilterra a Firenze, scriveva a Seristori,
ministro del granduca, dopo un superbo preambolo: sapesse il granduca
che l'ammiraglio Hood avea comandato che un'armata inglese con una
parte della spagnuola sarebbero venute a Livorno per vedere quello che
sua altezza volesse farsi; sapesse inoltre sua altezza, e ciò l'Harvey
dichiarare per bocca dell'ammiraglio Hood e in nome del re suo signore,
che se in termine di dodici ore ella non aveva cacciato da' suoi Stati
De La Flotte, ministro di Francia, e gli altri suoi aderenti, l'armata
avrebbe assaltato Livorno. Badasse bene sua altezza a quello che si
facesse, poichè solo mezzo di prevenire l'inimicizia d'Inghilterra
era di eseguire puntualmente e subito quanto ora le si domandava, cioè
cacciasse La Flotte, e con quel governo regicida di Francia rompesse;
facesse causa cogli alleati.
Con tanta insolenza Harvey favellava ad un sovrano indipendente, ad un
principe di casa austriaca; con altrettanta rimproverava ad altrui un
Inglese di aver ucciso un re. Rispose assai rimessamente Seristori che
il granduca aveva dato ordine che De La Flotte ed i suoi aderenti, fra
cui Chauvelin e Fougère, se ne partissero di Toscana il più presto che
fosse possibile; ma non si scoprì quanto allo accostarsi alla lega ed
al romper guerra alla Francia.
Le stesse minacce furono fatte e nel medesimo tempo dal ministro
inglese Drake ai Genovesi; ed alle minacciose ed inconvenienti
parole si aggiunsero fatti più minacciosi e più inconvenienti ancora.
Imperciocchè, trovandosi la fregata franzese la Modesta a stanziare nel
porto di Genova, fu improvvisamente assalita da due navi inglesi, che
le si erano a questo fine poste a lato, e presa con uccisione di non
pochi marineri che vi si trovarono a bordo.
Parve a tutti questo fatto, com'era veramente, di pessimo esempio; e
se prima si temevano le insolenze franzesi in uno stato così vicino,
ora più si temevano per la violata neutralità. In fatti non così tosto
si ebbe a Nizza notizia di questo attentato che i rappresentanti del
popolo, Robespierre giovane e Ricard, pubblicarono uno sdegnosissimo
scritto che conchiudeva che Genova si risolvesse incontanente a
voler essere o amica degli amici o nemica de' nemici della società
oltraggiata nelle persone de' repubblicani franzesi; protestavano
poscia al popolo genovese che se il senato tardasse a risolversi ed
a punire con giusto ed esemplare castigo gli autori di un delitto
commesso nel suo porto e sotto le bocche delle sue artiglierie, sarebbe
stimato ostilità, e la repubblica avrebbe di per sè fatto quanto
crederebbe necessario per vendicarsi di una sì orribile violenza.
Le medesime acerbe parole fece poco tempo dopo Robespierre maggiore
contro Genova, favellando alla tribuna del consesso nazionale; e
così il governo di Genova, stretto da due necessità, non sapeva a
qual partito appigliarsi. Pure, siccome il non risolversi era peggio
che risolversi, tutto bene ponderato, il senato deliberò di starsene
neutrale, aggiungendo in risposta, che molto gl'incresceva di non poter
deliberare altrimenti, ma che la necessità dei tempi non ammetteva
altra risoluzione. Quanto poi al fatto della Modesta, se ne stette sui
generali.
Il senato veneziano fu nuovamente tentato a questi tempi. Era
residente in Venezia per parte dell'Inghilterra il cavaliere Worsley,
personaggio non tanto rotto quanto Hervey e Drake, ma pure intentissimo
a procurare gl'interessi dei confederati. Questi, o fosse la natura
sua più temperata, o comando del re, che portasse maggior rispetto
a Venezia più potente, che a Toscana ed a Genova più deboli, fece
modestamente le sue rappresentanze al senato, favellando piuttosto
per modo di consiglio che di richiesta. Pregava pertanto ed esortava
caldamente il senato che fosse contento di allontanare da Venezia
quella occasione di scandali, quella sentina di mali, quella radice
di corruttele dell'ambasceria franzese. Concludeva che se il senato
consentisse a licenziare l'ambasceria, e se vietasse ai Franzesi le
tratte d'armi e di vettovaglie dagli Stati della repubblica, sarebbero
gli alleati contenti, che nel resto conservasse la sua neutralità, e
che, in caso di guerra dalla parte di Francia, se gli assicurerebbero
gli Stati con tutte le forze della lega; che già fin d'allora gli si
offerivano le armate d'Inghilterra e di Spagna, ordinate di modo che
ne fossero preservati da ogni insulto. Queste parole terminò dicendo,
porgere lui alla repubblica da parte del re suo signore, che glielo
comandò di bocca propria; porgerle per mandato del ministro Pitt;
porgerle ancora per mandato espresso dell'imperatrice di tutte le
Russie, dell'imperatore d'Austria e del re di Prussia. Si riscuotesse
adunque e prendesse quelle deliberazioni che a tempi tanto pericolosi,
a richieste tanto efficaci, ad offerte tanto generose ed alla salute
stessa della repubblica si convenivano.
Il senato veneziano, non mai solito ad appigliarsi a partiti
precipitosi, e credendo che la forza della Francia, quantunque
disordinata per la discordia, fosse formidabile per la rabbia, e
capace di fare qualche sbocco in Italia, volendo altresì conservare
salvi i traffichi di mare, rispose gravemente, voler serbare intera la
neutralità, non poter risolversi a licenziare lo incaricato d'affari di
Francia Jacob, ma che solamente il chiamerebbe incaricato della nazione
franzese, non della repubblica.
Worsley non fece altra dimostrazione e continuò a starsene a Venezia,
dove continuamente biasimava i discorsi superbi di Harvey e di Drake al
granduca ed a Genova.
La cupidità del gran mastro dell'ordine di Malta alla guerra
non essendo più raffrenata dal timore dei Franzesi a cagione
dell'intervento degl'Inglesi nel Mediterraneo, prese animo di
manifestare più apertamente quello che già da lungo tempo sentiva
rispetto agli affari di Francia; imperciocchè, recandosi in ciò
esortatore il re di Napoli, aveva comandato, che tutti gli agenti
franzesi se ne uscissero dall'isola e che i porti fossero chiusi a
qualunque nave franzese sì pubblica che privata, finchè durasse la
presente guerra: pubblicato inoltre che non sarebbe mai per accettare
ad incaricato d'affari chiunque a lui si mandasse da quella repubblica,
ch'ei non doveva, nè poteva, nè voleva conoscere.
In cotal modo, essendo sorta la guerra tra la Francia e l'Inghilterra
e, comparse le armate inglesi nel Mediterraneo, si ravvivavano le
speranze dell'Austria e della Sardegna in Italia, furono serrati ai
Franzesi tutti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico, salvo i
Veneziani ed i Genovesi, si aggiunsero alle forze della lega quelle
della Chiesa e di Napoli, e l'aspettazione degli uomini divenne tanto
maggiore quanto più vedevano che se dall'un dei lati si era cresciuta
nuova forza ai confederati, dall'altro cresceva a proporzione la
concitazione ed il furore in Francia.
Oggimai si aprivano le occasioni agli accidenti importanti, ai quali
da lungo tempo tendevano i consigli dei confederati rispetto alle
provincie meridionali della Francia. La cacciata fatta dal consesso
nazionale e la proscrizione della setta girondina, come la chiamavano,
diè cagione a coloro che la seguitavano ed a coloro che od amavano la
libertà, conculcata dagli sfrenati giacobini, o s'intendevano con gli
alleati per rinstaurare il governo regio, di collegarsi, di correre
all'armi, e di far tumulti e sollevazioni. Già le città di Bordò,
di Mompellieri e di Nimes tumultuando mostravano con quanto sdegno
avessero ricevuto le novelle del cacciamento dei deputati loro: ma
l'importanza del fatto consisteva nella grossa città di Lione, che era
stata la mira di tutte le pratiche segrete tenute già da qualche tempo
tra i capi della lega a Torino ed i capi degli scontenti. Congiuntisi
nelle sue mura Biroteau ed alcuni altri capi dei girondini di minor
nome con Precy, commossero alle armi tutta la città e pubblicarono
manifesti contro la tirannide del consesso nazionale.
Non è di questi Annali il narrare particolarmente l'oppugnazione di
Lione, che poco tempo dopo seguì, e che fu uno dei fatti più memorabili
di quest'anno, sì pel valore e la ostinazione d'ambe le parti, e sì per
l'immanità dei vincitori. Ma come prima i Lionesi erano insorti contro
l'autorità di chi reggeva, i Marsigliesi si erano levati ancor essi a
rumore. Impazienti di starsene chiusi fra le mura, e raccolti sotto le
insegne in numero assai notabile, si dirizzarono al soccorso di Lione.
Non avevano i Lionesi trovato nei popoli circonvicini quell'aderenza
che avevano sperato; e i Marsigliesi vantavansi di esser capaci da
sè soli di vincer la impresa e di salvar Lione. In fatti già avevano
varcato il fiume Duranza, e con ischiamazzo infinito erano entrati in
Avignone; e quivi commesso ogni male, già si avviavano verso le regioni
superiori del Rodano.
Nel tempo medesimo s'incominciavano a colorire i disegni degli
alleati. I Piemontesi congiunti con qualche nervo di Austriaci, erano
calati grossi dal monte Cenisio e dal piccolo San Bernardo a fine
d'invadere la Morienna e la Tarantasia; anzi una parte di quelli che
scendevano dall'ultimo dei detti monti, avuto il passo per le terre
del Vallese, si drizzavano ad occupare il Faussigny col pensiero di
fare spalla all'impresa di Tarantasia e di rannodarsi verso la terra
di Conflans, per quindi marciare, se la fortuna si mostrasse a tale
segno favorevole, sino a Lione. Tutte queste genti militavano sotto il
governo del duca di Monferrato, figliuolo del re, principe ottimo per
mente e per costume e molto amato dai popoli per la natura sua facile e
mansueta.
Dall'altra parte il re di Sardegna si era condotto col grosso
dell'esercito nella contea di Nizza, molto confidente di avere a
conseguir presto, con ricuperar un paese amato sopra tutti e che gli
era stato occupato da un nemico odiatissimo, una piena e gloriosa
vittoria. Era suo intendimento di calarsi per le sponde del Varo a fine
di obbligare i Franzesi ad evacuar la contea, o di tagliarli fuori
dalla Provenza se non l'evacuassero. Aveva il re compagno a questa
impresa il duca d'Aosta, suo figliuolo secondogenito, principe molto
ardente in questo bisogno contro chi allora signoreggiava la Francia e
che sempre aveva dimostrato pensieri alieni dalla pace. Questo era il
principale sforzo che i confederati volevano fare; e così quel nembo
che poco innanzi pareva dovesse tutto scagliarsi contro la Italia dalla
Francia, ora si rivoltava contra la Francia dall'Italia.
Udite tutte queste cose, Kellerman accorreva prestamente in Savoia,
dove venuto al campo dei suoi, posto all'ospedale presso Conflans,
alloggio principalissimo in quelle circostanze, ebbe con la sua
presenza e con le sue esortazioni tanto inanimato i soldati che
si mostrarono prontissimi a mettersi a qualunque pericolo anzichè
abbandonare il luogo commesso alla fede loro. Nel tempo stesso fe'
venire dal campo di Tornus una grossa schiera, in gran parte di buona
ed audace gente; e stantechè il pericolo era oltre ogni dire grave,
aveva, costretto dall'estrema necessità, chiamato dal campo di Lione
un'altra squadra e mandata nel Faussigny, che si trovava del tutto
privo di difensori. A questo si aggiunse ch'ei fece la chiamata alle
guardie nazionali della Savoia e del dipartimento vicino dell'Isero,
acciocchè facendo un po' di retroguardo agli stanziali, dessero loro
coraggio e potessero, in caso d'infortunio, ristorar la fortuna della
guerra. Per maggior sicurezza ordinava che si facessero trincee al
passo di Barreaux, molto importante alla sicurtà del Delfinato, e
che si munissero di artiglierie, avvisando che con quel sospetto da
fianco, gl'Italiani non si sarebbero arditi di correre fino a Lione.
Egli poi, a motivo di poter sopravvedere bene le cose, si venne a
porre al castello delle Marcie, luogo centrale a cui accennavano le tre
divisioni delle sue genti.
Dall'altro lato e più sotto Kellerman avea spedito con tutta
celerità il generale Carteau con un buon nervo di gente, ordinandogli
riacquistasse il passo di Santo Spirito, cacciasse i Marsigliesi da
Avignone, gli rincacciasse sulla riva sinistra della Durunza, non
passasse il fiume, solo attendesse a proibire al nemico lo scorrazzare
sulla destra. Ma Carteau varcava, e fu salute mentre doveasene
attendere la rovina; imperciocchè i Marsigliesi, invece di assaltarlo
e buttarlo nel fiume, cosa agevole, si diedero disordinatamente alla
fuga. Carteau, usando l'occasione, voltossi con tutte le sue forze
contro Aix, di cui s'impadronì; poi, senza frappor tempo in mezzo,
marciò contro Marsiglia, capo e fomite principale di quella guerra;
o tanto fu il terrore concetto dai Marsigliesi, che, fatta niuna
difesa della città loro, la diedero in mano del vincitore. L'infelice
Marsiglia, pagando troppo fiero scotto della sua imprudenza, fu posta
miserabilmente a sacco, e vi furono commesse opere al tutto degne di
quei tempi ferocissimi.
La presa di Marsiglia nocque ai Lionesi che per questa cagione si
trovarono soli esposti a tutto lo sforzo dei repubblicani; ma le
immanità commessevi giovarono ai disegni della lega in Provenza; poichè
per iscamparne, Tolone udì con maggiore inclinazione le proposte degli
alleati, e diede sè ed il porto in mano dell'ammiraglio d'Inghilterra
Hood, desiderando che l'autorità del re Luigi si restituisse e la
costituzione dell'89 si accettasse.
I repubblicani già tanto feroci vieppiù s'inferocirono all'accidente
di Tolone. Esortazioni ardenti, minacce precipitose posero in
opera per far correre i popoli al riscatto. Nè fu l'effetto minore
dell'intento; perchè, tra soldati bene ordinati e gente tumultuaria,
s'adunò tosto intorno alle mura di Tolone un esercito giusto di circa
quaranta mila soldati. Dalla parte loro gli alleati vollero confermar
con la forza quello che la fortuna aveva loro conceduto. Spagnuoli,
Napolitani e Piemontesi furono portati a presidiare i forti di Tolone;
gli altri potentati d'Italia li fornivano di vettovaglie; il papa
stesso somministrava armi e munizioni. Così con grandissimo ardore si
combatteva sotto le mura di Lione e di Tolone, nelle montagne della
Savoia e di Nizza.