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Annali d'Italia, vol. 8 - 25

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  popolare non ardiva perchè parlavano in nome ed in favor del popolo. In
  ogni luogo, sedizioni, incendii e rapine, morti funeste e modi di morte
  più funesti ancora, uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti
  cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficiati. Virtù
  in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni
  giorno, e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva
  mano nel sangue o ad ardere i palazzi; nè il sesso nè le età si
  risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime
  in Parigi. In mezzo a tutto questo, atti sublimi di virtù patria e di
  virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile e contrario.
  Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove
  avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva.
  In fine, dopo molti e varii eventi, l'assemblea con una cotal
  costituzione che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico,
  molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne
  l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale che
  l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della
  somma delle cose i tristi, la nazione franzese, non trovando più riposo
  in sè stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir
  da' proprii confini, e di allagare con rovina universale l'Europa.
  
  
   Anno di CRISTO MDCCXC. Indizione VIII.
   PIO VI papa 16.
   LEOPOLDO II imperadore 1.
  
  A dì 20 del mese di febbraio del presente anno cessò di vivere in
  Vienna, nell'età di quarantanove anni, l'imperatore Giuseppe II,
  dopo che i suoi eserciti impadroniti eransi di Belgrado, ed ebbe a
  successore il fratel suo granduca di Toscana, sotto il nome di Leopoldo
  II, principe filosofo e pacifico, che, sollecitato da una parte dalla
  corte di Prussia, dall'altra dal bisogno de' suoi popoli, non tardò a
  staccarsi dalla Russia ed a conchiudere una pace parziale coi Turchi.
  In più luoghi di questi Annali si è accennato qual fosse il carattere,
  quale l'indole, quale la condotta di Giuseppe. Tuttavia porta il pregio
  di riferire un brano della Storia d'Italia del cavalier Bossi che in
  questo modo riassume l'argomento:
  «Abbiamo già notato come in mezzo ad uno zelo ardentissimo per lo
  bene e la prosperità de' suoi popoli, non fosse stato dalla opinione
  pubblica secondato ne' suoi vasti disegni d'innovazione e di riforma,
  tanto nel sistema civile, quanto nell'ecclesiastico. Si dissero
  talvolta troppo minuti i suoi regolamenti, troppo precipitose le
  sue risoluzioni, soventi volte revocate o modificate, si dissero
  troppo gigantesche le sue idee, le quali forse tendevano, al pari di
  quelle di Caterina II, a cacciare i Turchi dall'Europa; ma sebbene la
  riconoscenza de' popoli pari forse non si mostrasse alla sollecitudine
  da esso impiegata nel procurare i loro vantaggi, glorioso nome lasciò
  egli per la saviezza di molte leggi e di molti interni regolamenti,
  per le sue grandiose istituzioni, per i suoi tentativi medesimi,
  sempre diretti alla pubblica utilità ed allo stabilimento dell'ordine,
  e grandissima lode ottenne per le sue virtù domestiche, per la sua
  affabilità mantenuta costantemente anche col più minuto popolo, per
  il disprezzo da esso mostrato verso il lusso e la vana ostentazione,
  per il suo allontanamento dai pubblici omaggi, per la sua vita frugale
  e laboriosa, per un infaticabile ardore di veder tutto egli stesso
  e di informarsi di tutto, per la sua beneficenza verso i più miseri
  e per l'attenzione sua continua nello indagare e nel ricompensare
  il merito anche nascosto. Gli stranieri, forse più giusti dei di lui
  sudditi medesimi, pubblicarono a gara i tratti segreti, o gli aneddoti
  più gloriosi della sua vita, i quali provano l'elevatezza della di
  lui mente e la professione continua delle massime filantropiche più
  virtuose. Un problema politico assai curioso e singolare potrebbe
  proporsi: quale andamento, cioè, pigliato avrebbe la rivoluzione
  franzese, e quali ne sarebbero stati i risultamenti pegli altri Stati,
  e specialmente per l'Italia, se Giuseppe II non fosse stato da immatura
  morte colpito.»
  Intanto, agli accidenti di Francia, cadevano nelle menti degli uomini
  degli altri paesi di Europa varii pensieri. Da principio, quando solo
  si trattava della opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta
  un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero
  le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si
  distrussero, e più ancora quando si schernirono i diritti sopra i quali
  erano fondati gli ordini delle monarchie d'Europa, quando s'insultò
  il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla,
  cominciò alla maraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle
  incredibili enormità si aggiunsero quelle compagnie raunate in Parigi
  ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano
  volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli,
  distruggere i tiranni (che con tal nome chiamavano tutti i re),
  il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la
  Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei
  disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove:
  si temeva che, per le sfrenate dottrine tutte le provincie s'empissero
  di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarii;
  i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di
  temere il sapersi che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini
  perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello
  Stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle
  riforme già fatte in que' tempi dai principi, e credendo potersi dare
  una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar
  orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in
  Germania ed in Italia per la vicinanza de' territorii, per la facilità
  e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle
  opinioni.
  Tal era la condizione de' tempi. In Italia, il re di Sardegna,
  trovandosi il primo esposto, per la prossimità de' luoghi, a tanta
  tempesta, aveva più che ogni altro principe cagione di pensare a
  provvedere al suo Stato. Del che tanto maggiore necessità il premeva,
  che non gli era nascosto che nella parte de' suoi dominii posta oltre
  l'Alpi le nuove opinioni si erano largamente sparse, e ch'ella poco
  attamente si poteva difendere dagli assalti franzesi, quando si venisse
  a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più che i suoi Stati
  erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori
  di scandali che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di
  loro, favellando in pubblico, aveva predicato.
  Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro i quali
  reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli
  ambasciatori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono
  loro che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta
  cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale,
  acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro
  agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali
  e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi
  incominciavano a sorgere, stantechè, sebbene fosse stato continuo il
  vigilare del governo e continue le provvidenze date, non s'erano potute
  evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri,
  moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più
  o meno nelle altre parti d'Italia; che, per verità, attentamente si
  affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte
  radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarii, per iscoprir le
  congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi
  quale de' due alfine avesse a restar superiore, o la vigilanza de'
  governi o la pertinacia de' novatori, se non si prendevano nuove e
  più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva
  che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e
  difesa comune; poichè quello che spartitamente non avrebbero potuto
  conseguire, lo avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi
  comuni. Aggiunsero, che, per verità, questo disegno era già loro
  venuto in mente da un pezzo, di tanta opportunità egli era; ma che
  gli aveva ritratti dal proporlo il sapere, che Giuseppe, imperador
  d'Alemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio
  loro covile que' nemici della umanità e della religione; che ora,
  cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri
  di Leopoldo, suo successore, piuttosto a preservare e conservare il
  proprio che ad assalire l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno
  di ordinare e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il
  fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto
  di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se
  non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì
  gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio,
  stringere una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a
  danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un
  l'altro dalle insidie dei mandatarii franzesi, a mantener la quiete
  negli Stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende
  presenti, e ad aiutarsi con l'armi e coi denari, ove nascesse in questo
  luogo od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri sardi
  di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando
  particolarmente il re loro signore, l'imperadore d'Alemagna, la
  repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna, per
  la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era chiarito per alcune pratiche
  segrete della mente de' re di Napoli e di Spagna che acconsentivano
  ad entrare nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, come
  quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in
  Francia circa gli interessi spirituali e temporali della religione.
  Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando
  quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e veramente difensiva,
  avrebbe fatto ingrossar l'armi in Italia, e chiamato forti eserciti
  di Alemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato
  l'esecuzione: cosa sempre, e non senza cagione, detestata da quella
  repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto
  collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico
  dello Stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole
  da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi
  ora in alleanza con Leopoldo suo successore in un'impresa evidentemente
  dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica
  vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore del senato
  delle nuove massime franzesi; poichè la natura italiana molto eminente
  negli Stati veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione;
  poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo de'
  popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma
  erano continue e forti le istanze del re di Sardegna e degli altri
  alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano
  molta fede nell'armi venete, avevano gran bisogno del nome e de' denari
  della repubblica.
  Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime
  deliberazioni ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla
  Prussia dopo la morte di Giuseppe e l'assunzione di Leopoldo. Erasi
  Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza
  comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia e contro le
  vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi,
  non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose
  essere poi stata stipulata la guerra e lo smembramento della Francia,
  furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni
  guerriere ed ostili che non lece, e per istimolare a maggior empito i
  Franzesi, che già con tanto empito correvano.
  Primo a risentire in Italia i danni della rivoluzione franzese fu il
  papa. Una commozione in Avignone accaduta, e cui tornarono indarno
  tutte le pratiche del vicelegato pontificio per sedare, non meno
  che quelle d'uno special commissario colà dal papa spedito, terminò
  colla dichiarazione della propria indipendenza che gli Avignonesi
  fecero, in pari tempo a grandi istanze, chiedendo d'essere incorporati
  alla repubbica franzese. Così cessò dopo quattro secoli e mezzo la
  dominazione pontificia in Avignone.
  
  
   Anno di CRISTO MDCCXCI. Indizione IX.
   PIO VI papa 17.
   LEOPOLDO II imperadore 2.
  
  Nel mese di marzo di quest'anno divenne Venezia albergo di molti
  principi, che vi si trovarono uniti tutti ad un tempo stesso, cioè
  l'imperatore Leopoldo II, sotto il nome di conte di Burgau, il re
  e la regina di Napoli, il nuovo granduca e la nuova granduchessa di
  Toscana, gli arciduchi Carlo e Leopoldo, palatino d'Ungheria, preceduti
  dall'arciduca Ferdinando e dall'arciduchessa sua moglie. Se durante
  la loro dimora festeggiati fossero gl'illustri personaggi, non è da
  domandarsi a chi già sa con che magnificenza, con che splendidezza la
  veneziana repubblica accogliesse nella sua capitale, ospiti graditi,
  i principi ed i sovrani esteri. Balli, accademie, luminarie, regate,
  e cent'altri passatempi, tutti sontuosi e ogni giorno svariati, si
  succedevano l'uno all'altro, quasi direbbesi, senza interruzione. Al
  che se aggiungasi lo spettacolo veramente imponente della città, regina
  del mare, in sè medesima, colle cospicue sue fabbriche, colla sua
  singolare configurazione, non dubitare si può che gli augusti ospiti
  non avessero dal soggiorno loro avuto sommo piacere.
  Partiti da Venezia essi principi, si avviarono verso la Toscana. Già
  a nome del nuovo granduca Ferdinando III era stato dal consiglio di
  reggenza preso il possesso del granducato. Leopoldo si trattenne per
  alcuni giorni a Firenze, ed allora fu veduta a pubblicare l'opera,
  che già altrove accennammo, intitolata: _Il governo della Toscana
  sotto il regno di Leopoldo_. Con irrefragabili documenti da tale opera
  risultava che nell'anno 1765, epoca dell'avvenimento al trono del
  granduca Leopoldo, l'entrate pubbliche del granducato montavano ad
  otto milioni novecento cinquantotto mila seicento ottantacinque lire
  di Firenze, e nell'anno 1789, ultimo del suo regno, ascesero a dieci
  milioni cento novantasette mila seicento cinquantaquattro lire: aumento
  tanto più ragguardevole e degno di maggior encomio, che Leopoldo, come
  abbiam veduto, avea scemato le pubbliche contribuzioni e tolto via
  non pochi aggravii, sì che tutto fu effetto della maggior industria,
  della popolazione maggiore e del più esteso commercio della Toscana.
  Tanto accrescimento di rendite, tranne quattro milioni che si trovarono
  in essere nel 1789, fu dal buon principe speso tutto a sollievo dei
  proprii sudditi o per ristorarli da calamità, o per proteggere le arti
  e promuovere l'industria ed ogni ramo di pubblica utilità.
  Il vescovo di Pistoia Scipione Ricci, contro il quale erano nell'anno
  precedente scoppiate sommosse, prima in Pistoia stessa, poi a Prato
  e nel rimanente della diocesi, dovette fuggire, e gli stessi capitoli
  delle due cattedrali si dichiararono contro di lui. Si presentò egli
  a Leopoldo; partito lui, presentossi al successore Ferdinando; ma le
  sue riforme furono abbandonate; e Ricci, non potendo rientrare nella
  diocesi, dove tutti gli animi erano esacerbati, rinunziò al vescovato,
  tale risoluzione partecipando al papa con una lettera, in cui
  protestava della sua devozione e sommissione, ed alla quale Pio VI si
  piacque rispondere in modo affettuoso.
  Il re e la regina di Napoli da Firenze passarono a Roma. In tre
  abboccamenti dal re avuti col papa, gettaronsi i primi fondamenti della
  concordia, che non potuta conchiudersi nel congresso a Castellone,
  tenuto tra il cardinale Campanelli e l'Acton, primo ministro del
  re, ebbe effetto nei maneggi di Napoli, in resultato dei quali fu
  convenuto: ogni nuovo re, salendo al trono, pagasse cinquecento mila
  ducati in forma di pia offerta a San Pietro; godesse egli la nomina a
  tutti i vescovati; nominasse il papa a tutti i benefizii subalterni,
  purchè l'elezione sopra sudditi regnicoli cadesse; in quanto alle
  sedi episcopali, il papa eleggesse fra i tre candidati che la corte
  proponesse; in avvenire alla corte di Roma per le cause matrimoniali si
  ricorresse; per questa volta il pontefice tutte le dispense, concesse
  dai vescovi napolitani, confermasse; con questo, la cerimonia della
  chinea per sempre cessasse.
  
  
   Anno di CRISTO MDCCXCII. Indizione X.
   PIO VI papa 18.
   FRANCESCO II imperadore 1.
  
  Quella inesorabil morte che la temuta falce ruota a cerchio ciecamente,
  mietendo le vite dei monarchi non meno che quelle de' più meschini
  mortali, tolse del mondo un gran principe; Leopoldo imperadore morì
  il dì 10 di marzo del presente anno in età di soli quarantaquattro
  anni. L'immatura perdita, che in Europa diede luogo alle più strane
  conghietture, fu dai più saggi attribuita ad una dissenteria che
  da lungo tempo lo travagliava, all'uso troppo frequente di aromati
  irritanti, ed all'indebolimento che le continue e gravissime
  occupazioni portato avevano al di lui temperamento. Giunto al trono
  imperiale dalla Toscana, questo principe vi aveva portato i medesimi
  principii, le medesime viste, il medesimo zelo per l'avantaggio
  dei sudditi, e dato aveva al suo regno uno splendore che tanto più
  singolare riusciva quanto più difficili erano i tempi, angosciose le
  circostanze. Collegato erasi egli destramente coll'Inghilterra, affine
  di frenare l'ardore delle conquiste di Caterina II ed accelerare
  la pace tra quella sovrana e la Porta; ricuperata aveva in parte la
  autorità sua sovra i Paesi Bassi, contratta un'alleanza colla Prussia,
  e assicurati tutti i rami dell'amministrazione della vastissima
  monarchia, e tutto questo in due soli anni. Tra le sue doti più
  singolari fu commendata la sua affabilità; nel di lui palazzo ammesso
  era il povero ugualmente che il ricco; nella Toscana, destinati
  aveva tre giorni della settimana, solo per ascoltare le domande
  degl'infelici, e passato alle sede dell'impero, ancora lasciava libero
  l'accesso a chiunque alla di lui persona, e pochi giorni perfino avanti
  la sua morte dato aveva pubblica udienza. Il dolore, che provato aveva
  la Toscana alla sua partenza, divenne, alla epoca della morte di lui,
  comune a tutta la monarchia, e pochi principi lasciarono al pari di lui
  vivo il desiderio ne' sudditi e gloriosa dovunque la rimembranza.
  Morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco,
  principe giovane ed ancora nuovo nelle faccende, i negozii pubblici
  si piegarono a diverso fine. Caterina di Russia, la quale, visto
  il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era
  costituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa,
  la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte
  protestazioni volerlo ristaurare. Molte cose diceva continuamente
  Caterina ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massime di
  Francesco II e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a sè medesimi in
  tale auguroso frangente i fuorusciti franzesi, e più i più famosi ed i
  più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di
  ministro in ministro, per raccomandar la causa del re, la causa stessa,
  come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni
  l'imperatore Francesco, che giovane d'età avea già assaggiato la guerra
  all'assedio di Belgrado, deposti i pensieri pacifici di Leopoldo, e
  non dando ascolto ai ministri, nei quali aveva suo padre avuto più
  fede, accostossi ai consigli di quelli che, consentendo colla Russia,
  lo esortavano ad assumere l'impresa ed a cominciar la guerra. Dal
  canto suo, Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole
  generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia,
  e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo II, si lasciò
  persuadere, e postosi in arbitrio della fortuna, corse anche egli
  all'armi contro la Francia.
  Noi non descriveremo nè la lega che seguì tra la Russia, l'Austria
  e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente
  cominciata e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna:
  quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dall'Italia. Incredibile era
  l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in
  sè varii pensieri secondo la varietà dei desiderii e delle opinioni. Il
  re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per
  le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti franzesi, che
  in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi Stati, e lasciandosi
  tirare alle loro speranze, aveva meglio bisogno di freno che di sprone.
  Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoia
  e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime
  percosse dell'armi franzesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse
  amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle
  viscere delle province più popolose e più opime della Francia. Nè
  contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente
  alle mani, persuadendosi che le soldatesche franzesi, come nuove e
  indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso
  a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano
  creduto di terminar da sè la bisogna, marciando sollecitamente contro
  Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi
  troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che
  si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della
  Marna e della Senna.
  La subitezza di Vittorio Amedeo e la lega dei re contro la Francia
  diedero non poco a pensare al senato veneziano, e lo confermarono
  vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato,
  quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime
  istanze, affinchè aderisse alla lega italica. Ma prevedendo le ostilità
  vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi
  armate di potenze belligeranti potessero entrare nel golfo e turbar i
  mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia, non forti sull'armi
  navali, gli domandassero aiuti per preservar i lidi dagl'insulti
  nemici, ordinò che le sue armate, che, ritornate dalla spedizione
  contro Tunisi, stanziavano nelle acque di Malta e nelle isole del mar
  Ionico, se ne venissero nell'Adriatico. E veramente essendo stato
  richiesto poco dopo dai ministri cesareo e di Toscana che mandasse
  navi per proteggere Livorno ed il litorale pontificio, rispose di aver
  deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente: la qual
  deliberazione convenirsegli e per massima di Stato e per interesse dei
  popoli.
  Il re di Napoli, stimolato continuamente dalla regina e dal debito del
  sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi coll'armi
  navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente,
  perchè sapeva che una forte armata franzese era pronta a salpare dal
  porto di Tolone; nè era bastante da sè a difendersi dagli assalti di
  lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi
  ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella
  neutralità o congiunger le sue armi con quelle dei confederati. Perciò
  se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a
  poter prorompere con frutto in aperta guerra quando fosse venuto il
  tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete.
  Il granduca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione
  pei traffici di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar
  occasione di tirare a sè la tempesta, che già desolava i paesi lontani
  e minacciava i vicini.
  Il papa non poteva soffrire indifferentemente le novità di Francia in
  materia religiosa. Ma l'assemblea costituente, astutamente procedendo,
  ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava
  volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della Chiesa
  cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre
  comune, lo salutavano vicario di Dio in terra. Queste scaltre lusinghe
  venute da un'assemblea di cui parlava e per cui temeva tutto il mondo,
  avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava
  mitigare. Ma succedette all'assemblea costituente, la quale, benchè
  proceduta più oltre che non si conveniva, aveva nondimeno mostrato
  qualche temperanza, l'assemblea legislativa ed il consesso nazionale,
  che, disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in
  ogni sorta di enormità. Pio VI, risentitosi di nuovo gravissimamente,
  fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò
  sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose.
  Allora fu tentato dallo imperadore d'Alemagna e dai principi d'Italia
  che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il
  pontefice, parendogli che alla verità impugnata della religione,
  alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa
  della Sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi e la
  protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore
  di Cristo, prestò orecchio alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri
  nella lega offensiva contro la Francia.
  La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni
  che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente o
  troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio
  dei sudditi, che, tutti intenti al commercio di mare con la Francia,
  navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente.
  Così erano in Italia nel corso del presente anno timori universali;
  armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte;
  preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana;
  armi poche ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle
  due repubbliche. Queste erano le disposizioni dei governi; ma varii
  si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza
  le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi
  per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi
  perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto
  rimessamente, siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia, per
  l'indole molto ingentilita dei popoli, gli atroci fatti avevano destato
  uno sdegno grandissimo, e poco si temevano gli effetti dell'esempio,
  massime con quel tribunale degl'inquisitori di Stato, quantunque fosse
  divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora
  servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuove opinioni, e
  fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca
  cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese e il cielo
  vi fa gli uomini eccessivi. In Roma, fra preti che intendevano alle
  faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori che a
  tutt'altro pensavano che a quello che gli altri temevano, si poteva
  vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili
  e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la
  felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano
  molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano
  sfogare poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive
  sul commercio.
  La Francia intanto venuta in preda ad uomini senza freno e senza
  consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare
  all'armi le lusinghevoli promesse e le disordinate opinioni. Però i
  suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà
  del governo loro e delle beatitudini della libertà. Affermavano non
  voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi
  fedeli, rispettare chi rispettava. Queste erano le parole, ma i fatti
  avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove
  
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