Annali d'Italia, vol. 8 - 24

sia stato mai, o che si riguardi la conservazione propria, o che si
miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai
parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano.
Solo pareva meritevole di biasimo quel tribunale degl'inquisitori di
Stato, per la segretezza e per la crudeltà dei giudizii; pure era volto
piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizii che a tiranneggiare i
popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi
che non gli hanno per legge stabile, se li procurano per abuso; e non
sapresti se muovano più al riso o allo sdegno certuni che tanto rumore
hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto
da lui di distruggere quell'antica repubblica. Del resto la provvidenza
di lei era tale che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili
discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli
animi, e se vi rimanevano gli ordini buoni, mancavano uomini forti per
sostenerli. Diminuita la potenza turchesca, e composte a quiete le cose
d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano ed al regno
di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la
repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar
salva ne' pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero
certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare
senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti;
la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso
l'anno presente stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di
risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edilizio
politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far
rovinare.
Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la
condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno
da' suoi maggiori degenerato del genovese. Fortezza d'animo, prontezza
di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista
con qualche rozzezza, ma da mollezza esente; un osare con prudenza, un
perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui
quel popolo che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi
Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria,
cacciò dalla sua città capitale i soldati forastieri; e se i destini
in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarii alla misera
Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio
di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza colla oppressione e di
libertà colla servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi
fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era
in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizii, perchè
era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio
presa e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosia
senza posa nell'universale verso la sovranità de' nobili, non perchè
tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma
data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in
Venezia: le sette, la fazioni e le parti, ora rompendo in manifesta
guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano
mantenuto in Genova gli animi forti e le menti attente. Era nel paese
veneziano gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel
Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là
si poteva conservare l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo
operando. Era in Venezia chiuso ai plebei il libro d'oro; era in Genova
aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che
la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più
per delicatezza di costumi che per forza, e se, pel contrario, era più
cospicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni,
quelle relative allo Stato poco sapevano di cambiamento, quelle
relative alle ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto Reale era
in favore e molto largamente si pensava. Tal era Genova, non cambiata
dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al
molto amor patrio suo non gradito ai forastieri piuttosto che a verità
debbonsi attribuire.
Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità de' popoli e per
la stabilità degli Stati l'aristocrazia temperata dal costume; se
Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di
governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo; dimostravalo
Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile
investigazione sul procedere tanto dei nobili quanto dei popolari.
Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano _discolato_, e rappresentava
l'antico ostracismo d'Atene e la censura di Roma, che quando alcuno,
o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia
civile o de' costumi buoni, tosto tenevasi discolato, scrivendo ciascun
senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il
dannavano in tre discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine
o in esilio. Tenevasi il discolato ogni due mesi: il che era gran
freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure, siccome sempre il male è
vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che
ne nasceva, rendeva di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi;
perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare lucchese, ed
una terra oltre ogni creder dolce e gioconda era abitata da gente grave
e contegnosa.
Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero;
poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato o, vogliam
dire, ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusarli di
gravame; commissarii espressi tenevano registro, e facevano rapporto
al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca
giudizii integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza de'
popoli.
Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al
bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato
dalle stagioni, si fornivano o danari dall'erario o generi dai
magazzini del comune. Così mite provvido e largo era il reggimento
di Lucca. Così ancora facilmente si vede che nei paesi d'Italia non
soggetti agli ordini feudali, erano state ordinate la giustizia e la
franchezza, non impronte e superbe favellatici come in altri paesi,
ma fondate su buoni statuti, sull'assenza di eserciti esorbitanti,
sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo ed
assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per
fondare una compita franchigia, nissuno s'ardirà di dire. Ma dove sia
questo genere di perfezione, niuno il sa; poichè nè anche vuol credersi
che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare e recare a
servaggio, non che la patria, una ed anche più parti dei mondo. Che se
poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà de' governi,
argomentando dall'infrequenza de' delitti, certamente si affermerebbe
i governi di Venezia, di Genova, di Lucca e di Toscana, essere stati
i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello
della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica
di questo nome appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto,
quiete senza tirannide, felicità senza invidia; quivi nobiltà solo per
chiarezza di natali, non per diritti oltraggiosi, nè per privilegii, nè
per desiderio di dominazione; quivi popolo occupato ed industrioso, e
come fra i nobili temperati, così nè irrequieto nè tirannico. Fortunate
sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli
effetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno
a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli
uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono
i Sammariniani in tranquillo stato ed amici di tutti: dall'alto e dal
sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in
quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come sarà a suo luogo
raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale
soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente da' capi di
tutte le famiglie adunati in generale congresso, o, vogliam dire, a
parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da sè stesso a
misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani
del comune reggono lo Stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva;
avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte
della giudiziale, ma questa poi cesse ad uomini chiamati dall'estero
dal consiglio sotto nome di podestà; rimase ai capitani l'ufficio di
paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del
loro uffizio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle
obbligazioni, o, come dicono i Franzesi, della risponsabilità, trovato
dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola
San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i
forastieri. Nulla ei desidera negli altri, nulla gli altri desiderano
in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizii, la quiete non piace ai
turbolenti, nè la libertà ai corrotti.
Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo d'Este, ultimo rampollo
d'una casa da cui l'Italia riconosce tanti benefizii di gentilezza, di
dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli che non solo
ogni reggimento italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel
di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo.
Era il duca Ercole principe degno de' suoi maggiori, se non che forse
la sua strettezza nello spendere era tale che sapeva di miseria. Pure
dubitar si potrebbe se tale qualità in lui si debba a vizio od a virtù
attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse e dalla natura
sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode che di biasimo.
Certo era in lui maravigliosa la previdenza, e non saprebbesi se i
posteri crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito,
quando si dirà che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso
predisse, parecchi anni prima del presente anno il sovvertimento di
Francia e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica
che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze
si sarebbono collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata.
Principe buono ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano
più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste,
nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener
in freno anche il clero, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi,
e si ricordava di Ferrara. Fiorirono meravigliosamente a tempo suo le
lettere in quella parte di Italia: finì la casa d'Este simile a lei,
nell'antico costume perseverando.
Ora, per raccogliere in poco discorso quello che siamo andati
finora largamente divisando, si vede che se apparivano in Italia
desiderii di riforma, non apparivano semi di rivoluzione; che questi
desiderii risguardavano parte lo Stato politico, parte la disciplina
ecclesiastica; principalmente un'evidente impazienza vi era sorta
di quanto rimaneva degli ordini feudali. Più principi mostrarono di
volere, e mandarono ad effetto non poche riforme; il che fece nascere
generalmente desiderio e speranza di veder condotta a compimento la
macchina delle istituzioni sociali. Tutte queste cose assecondava
la filosofia tanto squisita di que' tempi, non quella turbolenta e
sfrenata che non si intende come alcuni chiamino filosofia, ma quella
che desiderava maggior moderazione ne' potenti e maggior felicità nei
deboli. In ciò volle supplire la filosofia, e fecelo, finchè uomini
senza freno, di lei troppo enormemente abusando, empierono il mondo di
sterminii e di sangue. A questo, erano in alcuni luoghi della penisola
uomini rozzi, ma forti, in altri uomini gentili, ma deboli; di nuovo,
in alcuni armi deboli, ma opinioni tenaci, in altri armi forti, ma
eccessive, e, per questo medesimo che eccessive erano, non sufficienti.
Del resto, se erano in Italia desiderii buoni, non erano ambizioni
cattive; non solo non vi si aveva speranza, ma nè anco sospetto di
rivoluzione, e gli italiani hanno natura tale, che, se van con impeto,
maturano con giudizio.
Tale era Italia quando, giunto il secolo verso l'anno 1789 che andiam
discorrendo, si manifestarono in Francia, provincia solita a muovere
co' suoi moti tutta l'Europa, inclinazioni e cambiamenti di grandissimo
momento. Destarono queste novità diverse speranze e diversi timori
in Italia, secondo la diversità degli ingegni e delle passioni. In
questi crebbero le speranze, in quelli i timori; in alcuni cominciarono
a sorgere le ambizioni: i principi si ristettero dalle riforme per
sospetto, i popoli più le desideravano per esempio: tutti credettero
che per la vicinanza de' luoghi, per la frequenza del commercio, per la
comunanza delle opinioni, novità di una suprema importanza avverrebbero
di qua, come già erano avvenute di là de' monti. Ma è d'uopo entrare
in qualche particolarità sulle rivoluzioni in Francia, loro cagioni ed
effetti, per comprendere quello che ne derivò pegli altri paesi.
Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che
bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo
non fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono
ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi voglia investigar
le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi
che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il
governavano, e finalmente lo stato dell'erario.
Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale
era prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde e più
larghe radici in Francia che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè
dalla Francia medesima, quasi da fonte principale, derivava, sì perchè
la civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta,
e sì finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere
spesso le mode ed i tempi, ed i tempi poscia li governano. Così era
allora tempo d'umanità; e siccome questa è una nazione che, per la
prontezza della mente e per la grandezza dei concetti, dà facilmente
negli estremi così nel bene come nel male, e sempre si governa
coi superlativi, così questa universale benevolenza era diventata
eccessiva, estendendosi anche a certi fini che toccano la radice del
governo, e ciò non senza pericolo dello Stato; poichè, se è necessario
allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenarli col
timore, più potendo in loro l'ambizione e le altre male pesti, che non
la gratitudine.
In tale disposizione d'animi non solo erano divenuti più che non
fossero mai stati odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni
leggier freno che dal governo venisse era riputato duro e tirannico.
Da questo procedeva che con riforme utili si desideravano anche riforme
disutili o pericolose.
Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle che s'erano
formate e sparse ai tempi della ultima guerra d'America, sì
opportunamente intrapresa e sì generosamente condotta dalla Francia:
esser doni volontarii le contribuzioni dei popoli; dover essi e
della necessità loro e della quantità giudicare; esser la nobiltà non
necessaria, anzi pericolosa allo Stato; il re capo, non sovrano; il
clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la
religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza
per gli oppressi, che, se mancavano i veri, si cercavano i supposti,
per isfogar la piena di tanto amore, poichè ogni punito ed ogni imposto
riputavansi oppressi, ed un gran di sale che si pagasse, faceva sì che
si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni,
ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione; volevano
diventar potenti, con salire alle dignità ed alle cariche dello Stato.
Queste erano le improntitudini popolari; ma la ferita era ancor più
grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello Stato; conciossiachè
coloro fra i nobili che avevano militato in America, eransi lasciati
ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da un'illusione
benevola, credendo che un'americana pianta potesse portar buoni frutti
in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli
che non alla corona; ed, oltre alla egualità dei diritti, desideravano
l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica costituzione del
regno. Piacevano loro le forme della costituzione d'Inghilterra. Ciò
mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano
per la novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo
propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno.
Ma i più fra quelli dei nobili che o per coscienza o per interesse
perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona,
tale quale era durata tanti secoli, davano novella forza, certo per
orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè
e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più
duramente esigevano gli abborriti diritti feudali, credendo con
maggior forza doversi tener quello che si temeva di perdere. Ciò tanto
maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella
parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini
o intieramente dismessi o grandemente moderati, ed i restanti con
molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè
questi nobili arroganti erano appunto quelli che facevano maggior
dimostrazione in favor delle prerogative e della potenza regia.
Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è che i vizii
maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo
la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di
corrompere e di corrompersi, nè bastano le gentili dottrine a raffrenar
questo impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi
era in Francia sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi,
che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto che già avea tolto ai
loro diritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri
infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione
sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire,
ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata e di meretrice
compra, o di bugia o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia
dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa,
nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del
re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che
le corti s'informino sul modello dei re, così i Franzesi, vedendo una
corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore che in
tutti i secoli hanno portato ai re loro.
Il perverso influsso era tale che ne furono contaminati anche coloro
che dovrebbero avere in sè più di sacro e di venerando; il perchè
scemava fra i popoli il rispetto verso la religione. In tal modo la
potenza, separatasi prima dalla virtù, separossi anche dal rispetto,
suo principal fondamento; la virtù medesima, sbandita dalla città e
dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterii dei parrochi e fra
gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla
potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa dov'era
la virtù, e la cattiva dov'era il vizio.
A questo si aggiungeva che a gran pezza l'entrata non pareggiava
l'uscita dello Stato, deplorabile frutto dei concetti smisurati di
Luigi XIV, del voluttuoso vivere di Luigi XV, e del profuso spendere
della corte di Luigi XVI, ancorchè questo principe se ne vivesse per
sè molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul
finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi
si rimediava.
In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai
nobili ai popolari, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati,
e mancato il denaro, principal nervo dello Stato, si vedeva, che
ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe
accaduto. Nè la natura del re, dolce e buona, era tale che potesse dare
speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa ed a
posta sua gli accidenti che si temevano.
Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro
nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre
più consentanea a sè stessa nel male che nel bene, e tanto sono cupe
le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata
dai tempi, e come cosa utile e giusta, un'equalità civile, un'equalità
d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini
giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato
ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza e le prerogative
della corona, tanto salutari in un reame vasto ed in una nazione vivace
e mobile, il comportassero. Ma una setta composta principalmente dai
parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai
nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del
quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine,
preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori, dell'impresa.
In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettattive parole
la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria,
l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo
disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di
popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante.
Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero
molto opportunamente per arrivare ai fini loro, di un errore commesso
dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro e fu primo
principio di quel fatale incendio che arse prima il reame di Francia,
poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed
a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto
desiderate del popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por
le tasse, poi le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in
odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque, avendo
egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse un'imposta sopra
le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata,
il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma, ancora più
oltre procedendo, ordinò che chiunque recasse ad effetto i due editti
fosse riputato reo di tradimento e nemico della patria. Questo era il
momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge,
e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme
e giuste per sè e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il
passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti
i suoi editti. Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che, volendo
usar l'occasione di guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione
dell'autorità regia, passò ad abbominare con pubbliche scritture e con
parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo
ad una convocazione degli Stati generali, non essere in facoltà sua, nè
della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per
via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la
semplice espressione di questa volontà poter costituire l'atto formale
della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba
trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite
dalla legge; tali essere i principii, tali i fondamenti della
costituzione franzese; sapere il parlamento che si volevano sovvertire
i diritti pubblicati, per istabilire il dispotismo; la libertà comune
essere in pericolo; ma non volere nè poter a tali rei disegni dar
la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali
diritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo; poi, rivoltosi
al re, gl'intimò non isperasse di poter annullare la costituzione,
concentrando il parlamento nella sola sua persona.
Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto
secondo gli ordini fondamentali dello Stato; non s'intromettessero in
affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna;
ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili
solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità
nè legislativa nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza
pericolo nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione
del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse,
cambierebbesi la monarchia in aristocrazia di magistrati; badassero a
far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose
pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in
mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai
re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà
dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo
autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di
notai del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti, ai quali
e' si dovevano conformare, e se nol facessero, si li costringerebbe.
Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le
prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era
soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi,
o avevano cessato di per sè stessi l'ufficio, o erano dall'autorità
regia sospesi. Volle il re rimediare colla creazione della corte
plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta;
protestarono i pari del regno; il clero stesso titubava.
Intanto uomini faziosi d'ogni genere, o stimolati espressamente
dei capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente
dell'occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità,
andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchia.
Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa e in altre sedi di
parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno
il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo,
esortavansi le genti a levarsi, a disvelare e punir gli oppressori.
Avendo il re trovato, invece d'appoggio, opposizione e resistenza
nei parlamenti, nella nobiltà e in una parte del clero, dovette
necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua
sulla potenza dei più, giacchè i pochi lo abbandonavano. Così era
fatale che le prime occasioni delle enormità che seguirono siano state
date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono
alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il
Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si
sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno,
convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la
parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi.
Decretossi da prima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio
il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini,
non separatamente, ma in comune, poi si deliberasse, non per ordini,
ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli
ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al
cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune
scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore che per un
nuovo empito popolare s'era voltato all'assemblea.
L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì
l'inequalità delle imposte, poi i privilegii della nobiltà, poi quelli
del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il
clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella
non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio della equalità era
solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano l'occasione dello
indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non
li poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità