Annali d'Italia, vol. 8 - 23
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le istituzioni utili e i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri
più aveva in cale che gli edifizii dei ricchi; nè mai visitava il
bisognoso, che nol consolasse di parole ed ancor più di fatti. Protesse
con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatarii, opera già
incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa; gli ordini feudali
stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia
indifferente a tutti; là creava spedali, ospizii, conservatorii ed
altre opere pie; qua fondava università di studii; i giovani ricchi
d'ingegno e poveri di fortuna in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi
e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido che forse
alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè
di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con
premii, e non avviliva colla necessità dell'adulazione. Nè contento a
questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti, ed aprì novelle vie
al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle
dogane interne; non mai in alcun altro paese o tempo furono in così
grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che
sollevano ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista.
Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte
di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia Austriaca venne a
tanto fiore che stiam per dire che in lei verificossi la favolosa età
dell'oro. Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe
la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte;
comandò ai vescovi che niuna bolla pontificia avessero per valida,
se non fosse loro dal governo trasmessa; statuì che gli ordini dei
religiosi regolari non dai loro generali residenti a Roma, ma bensì
dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; abolì i
conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache
solamente quelle che facevano professione di ammaestrar le fanciulle;
eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; fondò poi un numero assai
considerabile di parrocchie, sollecito della instruzione di tutti i
fedeli.
Anco di Leopoldo di Toscana abbiamo narrato quanto bisognava e sì di
recente che il tenerne nuovamente discorso sarebbe oziosa replica.
Ma non così degli altri italiani Stati, intorno a' quali, ben che
qua e colà siasi all'evenienza parlato, rendesi di tutta necessità
divisare a parte a parte la loro attuale condizione, senza che, niuna
concatenazione avrebbero i fatti che verranno in appresso.
Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750,
cedè il regno delle Due Sicilie a Ferdinando IV, suo figliuolo
secondogenito, costituito allora nella tenera età di nove anni. Creata
prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza
del nuovo re il principe di San Nicandro, il quale, privo di ogni
sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva
egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia ed altri
cotali esercizii del corpo. Di questi si invaghì Ferdinando che
ne prese poi in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma
crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile ed al
governo degli Stati; pure amava chi sapeva e di consigliarsi con
loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni,
che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte
nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera
sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali ed avverso alle
immunità, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio
alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con
dolcezza. Speravasi qualche moderazione al dispotismo feudale, che in
nissuna parte d'Italia erasi conservato più gravoso che in quel regno,
principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici
egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano,
questo aggravavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca,
dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i
governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le
prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli olii, delle sete e
delle lane; per loro ancora i dazii d'entrata nelle terre, i pedaggi,
le gabelle, le decime ed i servigi feudali. In somma erano i popoli
vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità,
tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè
piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi
furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu
cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i
popoli.
Quanto agli Stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva
per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di
Ferdinando. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il
marchese della Sambuca, poi Acton.
Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali
furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano
dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri
filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non sapresti dire se
sia maggiore la forza dell'ingegno o l'amore dell'umanità. Erano con
incredibile avidità letti e con grandissime lodi celebrati da tutti.
Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo Stato
ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una
libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè
a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo non ancora
insospettito della rivoluzione di Francia.
Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme,
perchè maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra
i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia
quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi
dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè
le austriache erano del tutto dimesse. Quindi niun diritto in palese,
nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il
rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni
imperfettissimi.
Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza;
desideravasi qualche saggio pratico della utilità loro. Aveva il re,
mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto
sono celebrate le pianure del Parmigiano e del Lodigiano. Piaciutegli
opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta.
La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando,
dicendo che poichè era stato il fondator di San Leucio, fossene
anche il legislatore; e l'ottennero facilmente. Statuì il re delle
leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno Stato
indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia
indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi
di famiglia ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita
civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme e regole speciali,
ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangeri. Con queste
leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia,
dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in
pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri che gli si
volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il
desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno che
quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi,
sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.
Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più
coloro che glieli porgevano erano i più zelanti difensori contro
chiunque dell'autorità e dignità sua. Già s'era Tanucci dimostrato
molto operativo intorno alle controversie romane. Già, per consiglio
suo, erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui
erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause
nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato
ogni appello a Roma. Era Tanucci stato anche autore che la corona di
Napoli, e non la santa Sede, nelle vacanze dei benefizii nominasse
i vescovi, gli abbati e gli altri beneficiati, che la presentazione
della chinea il giorno di san Pietro in un'offerta di elemosina si
cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità
che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana
sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente s'era diminuito
il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù.
Parlossi inoltre di rendere i regolari indipendenti dai generali loro
residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della Chiesa per
allestire un navilio sufficiente di vascelli da guerra.
Tutte queste novità non si potevano mandar in esecuzione senza querele
dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Così sorsero nel regno
molti scrittori a difesa della libertà e della indipendenza della
corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi: si accostò a loro
il vescovo di Taranto; ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro che
desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo e ad un
tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le
prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando non in pace con
Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e li vedeva e gli
udiva più volentieri. S'aggiunse che Carlo di Marco, uno dei ministri
del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta
alle controversie con Roma.
Tale era lo Stato del regno di Napoli, in cui si vede, come abbiamo
già altrove notato, che i medesimi tentativi si facevano che nella
Lombardia Austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica,
ma con maggior ardore, a cagione delle controversie politiche con
Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi s'era anche
incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se
n'intendeva e ripugnava; ed il re, occupato ne' suoi geniali diporti,
amava meglio che altri facesse, che far da sè. Da ciò nasceva che gli
umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.
La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva
con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento
di tre camere dette bracci, ch'erano gli ordini dello Stato. Una
chiamavasi braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori
che avevano in proprietà loro popolazioni almeno di trecento fuochi.
L'altra intitolavasi braccio ecclesiastico; entravano in questo tre
arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abbati, ai quali il re conceduto
avesse abbazie. La terza aveva nome camera demaniale; era composta dai
rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che
demaniali si chiamavano, cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte
di città avea la Sicilia, baronali e libere; le prime erano quelle
che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano
immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali.
Accadeva spesso che un solo barone avesse più voti in parlamento,
per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la
medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati
delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima.
Capo del braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo,
dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore
della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno.
Prima di Carlo V faceva le leggi, dopo venne ridotto a concedere i
donativi.
Da questo si vede che il nervo principale del parlamento siciliano
consisteva ne' baroni, perchè più ricchi erano e più numerosi. Ma ben
maggiore era la potenza loro nelle terre, a cagione de' privilegi
feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigii
feudatarii v'erano ancora gravi. Del resto, le opinioni del secolo poco
avevano penetrato in quella isola; ma quello che non dava l'opinione il
potevano dare facilmente gli ordini dello Stato.
Questa che abbiamo raccontata era la condizione del regno delle
Due Sicilie verso l'anno 1789; ma poco diversa appariva quella
del ducato di Parma e Piacenza, dove, come a Napoli, regnava la
famiglia de' Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi
sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la
Sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto
il campo ad investigazioni del solito effetto. Quando l'infante
don Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del
Franzese Dutillot, il quale, nato di poveri parenti in Baiona, era
salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto
mandato Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo
consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma,
temendosi che, in quella nuova possessione del ducato, ella volesse
dare qualche sturbo in virtù de' diritti di superiorità sovrana che
pretendeva in quello Stato. Per verità, se grande fu la fede che la
Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua
destrezza e la prudenza. Chiamò a sè i più famosi ingegni d'Italia,
tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo
nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere,
di notabile eloquenza; e tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i
costumi di quella bella parte di Italia, e tanto vi prosperarono le
buone arti, che il regno di don Filippo ebbe fama del secolo d'oro
di Parma. Certo, città nè più colta nè più dotta di Parma non era
a que' tempi, nè in Italia nè forse anche altrove. Crearonsi, per
consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti
ordini nell'università degli studii, un'accademia di belle arti, una
magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni
insegnamenti ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi,
oltre Paciaudi e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac,
Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli
ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle
parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo
stesso ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate,
per edifizii, per istrade, per pubblici passeggi. Così passò il regno
di don Filippo assai facilmente sotto la moderazione di Dutillot.
Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto li ducato nel duca
Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governare lo Stato
con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia
tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè, avendo il
duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un
editto che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa
Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò
nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità
non idonea a farle, e lesive deil'immunità ecclesiastica, ammonendo
eziandio che tutti coloro che cooperato vi avevano erano incorsi
nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti
in nissun caso, eccettuato in punto di morte, se non da lui stesso o
dal pontefice che dopo di lui sulla cattedra di san Pietro sedesse.
Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto
sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti
scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito.
Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio e le arti della
parte avversaria già entrata molto addentro nella buona grazia del
giovinetto principe. Ciò non ostante, in tutto il tempo in cui questo
fu minore di età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi,
giunto all'età di diciotto anni, assunse il governo, s'indrizzarono
i suoi pensieri ad altro fine. Perchè, congedato Dutillot, il
principe si governò intieramente al contrario di prima. Il tribunale
dell'inquisizione fu istituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè
aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto
a molti il rigore eccessivo che si usava per far osservare certe
pratiche di esterior disciplina: in questo i popoli non potevano dire
del principe che altro suono avessero le sue parole ed altro i fatti;
poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro,
egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i
santi nel calendario dell'anno. Mentre il duca pregava, il popolo si
erudiva, nè Parma perdette il nome che si era acquistato di città dotta
e gentile.
Sedeva a questi tempi, come già sappiamo, sulla cattedra di san Pietro
il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo
della prospera e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente
XIV, da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza
del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di
costumi e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei
chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo
seggio della cristianità, cosa altrettanto intempestiva e pericolosa
quanto era in sè lodevole e virtuosa. Il perchè i cardinali, morto
Clemente, elessero papa il cardinal Braschi, che già fin quando era
tesoriere della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non
ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo
de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia
del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere,
procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che
e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la Sede ne
venivano facilmente conciliati. Queste erano le qualità di papa Pio.
Circa i costumi, e' furono, non che non meritevoli di riprensione,
degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla
malvagità de' tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire.
Ognuno crederà facilmente che un pontefice di tal natura doveva
altamente sentire dell'autorità sua e delle prerogative della Sedia
apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora
fra' cardinali più dotti, più operativi, più esperti, un disegno d'una
suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un
governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani,
e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il
cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo
in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane;
se ad altri pareva che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo
fatto, pareva all'Orsini ch'ei non avesse nè detto nè fatto abbastanza.
Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiero dell'Orsini circa la
lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti
importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia.
Ma non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio nè
l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama
di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il
prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto,
certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme
rispetto a Stato sì angusto, con costanza tanto mirabile che pochi
esempii si leggono nelle storie degni di egual commendazione. Quattro
fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa e la Teppia non trovando sfogo al
mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento.
Rapini, ingegnere di grido, preposto da Pio alle opere, cavata la linea
Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico
fiume Sisto, alveò l'Uffente e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si
scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via
Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI.
Non dismostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti
all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di
San Pietro, opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo
minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile
della basilica di Michelangelo. Dolsersi anche non pochi, che, per
fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato che si atterrasse
l'antico tempio di Venere, al quale Michelangelo aveva avuto tanto
rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo
pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere come aveva fatto
già, fin quando esercitava l'ufficio di uditore del camarlingo, a
papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso museo, il quale
poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione,
fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue,
busti, bassorilievi ed altre anticaglie di gran pregio. Come nobile
fu l'intento suo nel fondar il museo, così nobile del pari fu il suo
consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di
scritture e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile
l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a
Lodovico Mirri, e quanto ai commenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne
sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle
opere più perfette che in questo genere sieno.
Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno;
così, visitata dai più potenti principi d'Europa, lasciava in loro
riverenza e maraviglia; i popoli mossi da sì sontuosi apparati non
rimettevano di quella venerazione che avevano sempre avuto verso
la Sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che
parlavano tanta umanità, poche radici avevano messe in Roma; non che
i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro,
mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo
a certi effetti cagioni non vere, troppo in sè stessi si compiacquero
di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a sè medesima
conforme, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza che per
ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.
Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per
benefizio dei principi o per ammaestramento dei buoni scrittori, la
vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei
popoli e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più
generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre
parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più
ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in
tutte le altre, o rovine nella casa regnante o rivoluzioni di popoli.
Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà
prima e principal cagione, essere la potestà assoluta del principe
giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni
della ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto
tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione
di un potente, anche fortunata, che render sè ed il paese suddito o
dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di
Braganza avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse
che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro
medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome che potessero, non
che distruggere, emulare la potenza dei principi.
Da questo e dagli eserciti molto grossi nacque la maravigliosa
stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in
quello Stato un'opinione generale stabile, che, da generazione in
generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante, alle
repubbliche, nelle quali se cangiano gli uomini, non cangiano le
massime nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati
intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.
Ciò non ostante, alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento
si ravvisavano negli Stati del re di Sardegna, massimo circa la
ecclesiastica disciplina. Imperciocchè, tolte dal re Vittorio Amedeo II
le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studii di
ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana
a diffondersi. I tre bibliotecarii dell'università, Pasini, Berta e
Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle
opere scritte dai difensori di quelle dottrine, e Vaselli ne arricchì
la libreria del re.
Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo
generoso, di vivo ingegno e di non ordinaria perizia nelle faccende di
stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria
militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di
misura; il che rovinò le finanze che tanto fiorivano a tempi di Carlo
Emmanuele suo padre, sparse largamente nella nazione la voglia delle
battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili soli ammessi a
capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo
re di Prussia. Certamente, se immortali lodi si debbono a Federigo per
aver difeso il suo reame contra tutta la Europa, gran danno ancora
le fece per avervi introdotto coll'esempio suo un eccessivo umor
soldatesco, ed aver messo su eserciti. Gli altri potentati, o per
fantastica imitazione, o per dura necessità, furono costretti a far
lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia che dilatò questa peste
ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte che la portò agli estremi, ed
altro non mancherebbe alla misera Europa, per aver la compita barbarie,
se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti,
coi combattenti anche i vecchi, le donne ed i fanciulli.
Ma, tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato che
soleva dire ch'ei faceva più stima d'un tamburino che d'un letterato,
benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati
accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente.
Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro
lasciato da Carlo, ma i debiti dello Stato, non ostante che le
imposizioni si aggravassero, tanto s'ammontarono che sommavano in
questo anno a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono
più di cento milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche
conferivansi solo ai nobili ed agli abbati di corte. Ad una generazione
di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti,
successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti a ben reggere
gli uffizii loro.
Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere.
Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano
pontefice ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio avea, per
amor di quiete, ordinato che mai non si parlasse o scrivesse nè pro
nè contro la bolla _Unigenitus_, nè mai si trattasse dei quattro
capitoli della Chiesa gallicana; che anzi, siccome questi articoli
erano apertamente insegnati e costantemente difesi nell'università di
Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe II, aveva, a petizione del
cardinale Gerdil, proibito che i sudditi suoi andassero a studiare
in questa università. Ma tali opinioni più pullulavano quanto più si
volevano frenare.
Se la monarchia piemontese era la più ferma delle monarchie, la
repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro, i
quali, credono essere le repubbliche varie e turbolente, potran vedere
nella veneziana una repubblica più quieta di quante monarchie sieno
state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso
di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni,
da Turchi, da Germani, da Franzesi; trovossi fra guerre atroci, fra
conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma
stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi non solo salva in
mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini
antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati
per antichità! Pare che più sapiente governo di quel di Venezia non
più aveva in cale che gli edifizii dei ricchi; nè mai visitava il
bisognoso, che nol consolasse di parole ed ancor più di fatti. Protesse
con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatarii, opera già
incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa; gli ordini feudali
stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia
indifferente a tutti; là creava spedali, ospizii, conservatorii ed
altre opere pie; qua fondava università di studii; i giovani ricchi
d'ingegno e poveri di fortuna in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi
e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido che forse
alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè
di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con
premii, e non avviliva colla necessità dell'adulazione. Nè contento a
questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti, ed aprì novelle vie
al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle
dogane interne; non mai in alcun altro paese o tempo furono in così
grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che
sollevano ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista.
Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte
di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia Austriaca venne a
tanto fiore che stiam per dire che in lei verificossi la favolosa età
dell'oro. Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe
la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte;
comandò ai vescovi che niuna bolla pontificia avessero per valida,
se non fosse loro dal governo trasmessa; statuì che gli ordini dei
religiosi regolari non dai loro generali residenti a Roma, ma bensì
dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; abolì i
conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache
solamente quelle che facevano professione di ammaestrar le fanciulle;
eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; fondò poi un numero assai
considerabile di parrocchie, sollecito della instruzione di tutti i
fedeli.
Anco di Leopoldo di Toscana abbiamo narrato quanto bisognava e sì di
recente che il tenerne nuovamente discorso sarebbe oziosa replica.
Ma non così degli altri italiani Stati, intorno a' quali, ben che
qua e colà siasi all'evenienza parlato, rendesi di tutta necessità
divisare a parte a parte la loro attuale condizione, senza che, niuna
concatenazione avrebbero i fatti che verranno in appresso.
Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750,
cedè il regno delle Due Sicilie a Ferdinando IV, suo figliuolo
secondogenito, costituito allora nella tenera età di nove anni. Creata
prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza
del nuovo re il principe di San Nicandro, il quale, privo di ogni
sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva
egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia ed altri
cotali esercizii del corpo. Di questi si invaghì Ferdinando che
ne prese poi in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma
crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile ed al
governo degli Stati; pure amava chi sapeva e di consigliarsi con
loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni,
che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte
nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera
sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali ed avverso alle
immunità, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio
alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con
dolcezza. Speravasi qualche moderazione al dispotismo feudale, che in
nissuna parte d'Italia erasi conservato più gravoso che in quel regno,
principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici
egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano,
questo aggravavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca,
dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i
governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le
prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli olii, delle sete e
delle lane; per loro ancora i dazii d'entrata nelle terre, i pedaggi,
le gabelle, le decime ed i servigi feudali. In somma erano i popoli
vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità,
tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè
piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi
furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu
cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i
popoli.
Quanto agli Stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva
per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di
Ferdinando. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il
marchese della Sambuca, poi Acton.
Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali
furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano
dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri
filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non sapresti dire se
sia maggiore la forza dell'ingegno o l'amore dell'umanità. Erano con
incredibile avidità letti e con grandissime lodi celebrati da tutti.
Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo Stato
ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una
libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè
a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo non ancora
insospettito della rivoluzione di Francia.
Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme,
perchè maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra
i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia
quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi
dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè
le austriache erano del tutto dimesse. Quindi niun diritto in palese,
nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il
rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni
imperfettissimi.
Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza;
desideravasi qualche saggio pratico della utilità loro. Aveva il re,
mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto
sono celebrate le pianure del Parmigiano e del Lodigiano. Piaciutegli
opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta.
La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando,
dicendo che poichè era stato il fondator di San Leucio, fossene
anche il legislatore; e l'ottennero facilmente. Statuì il re delle
leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno Stato
indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia
indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi
di famiglia ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita
civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme e regole speciali,
ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangeri. Con queste
leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia,
dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in
pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri che gli si
volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il
desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno che
quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi,
sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.
Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più
coloro che glieli porgevano erano i più zelanti difensori contro
chiunque dell'autorità e dignità sua. Già s'era Tanucci dimostrato
molto operativo intorno alle controversie romane. Già, per consiglio
suo, erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui
erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause
nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato
ogni appello a Roma. Era Tanucci stato anche autore che la corona di
Napoli, e non la santa Sede, nelle vacanze dei benefizii nominasse
i vescovi, gli abbati e gli altri beneficiati, che la presentazione
della chinea il giorno di san Pietro in un'offerta di elemosina si
cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità
che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana
sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente s'era diminuito
il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù.
Parlossi inoltre di rendere i regolari indipendenti dai generali loro
residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della Chiesa per
allestire un navilio sufficiente di vascelli da guerra.
Tutte queste novità non si potevano mandar in esecuzione senza querele
dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Così sorsero nel regno
molti scrittori a difesa della libertà e della indipendenza della
corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi: si accostò a loro
il vescovo di Taranto; ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro che
desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo e ad un
tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le
prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando non in pace con
Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e li vedeva e gli
udiva più volentieri. S'aggiunse che Carlo di Marco, uno dei ministri
del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta
alle controversie con Roma.
Tale era lo Stato del regno di Napoli, in cui si vede, come abbiamo
già altrove notato, che i medesimi tentativi si facevano che nella
Lombardia Austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica,
ma con maggior ardore, a cagione delle controversie politiche con
Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi s'era anche
incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se
n'intendeva e ripugnava; ed il re, occupato ne' suoi geniali diporti,
amava meglio che altri facesse, che far da sè. Da ciò nasceva che gli
umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.
La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva
con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento
di tre camere dette bracci, ch'erano gli ordini dello Stato. Una
chiamavasi braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori
che avevano in proprietà loro popolazioni almeno di trecento fuochi.
L'altra intitolavasi braccio ecclesiastico; entravano in questo tre
arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abbati, ai quali il re conceduto
avesse abbazie. La terza aveva nome camera demaniale; era composta dai
rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che
demaniali si chiamavano, cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte
di città avea la Sicilia, baronali e libere; le prime erano quelle
che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano
immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali.
Accadeva spesso che un solo barone avesse più voti in parlamento,
per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la
medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati
delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima.
Capo del braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo,
dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore
della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno.
Prima di Carlo V faceva le leggi, dopo venne ridotto a concedere i
donativi.
Da questo si vede che il nervo principale del parlamento siciliano
consisteva ne' baroni, perchè più ricchi erano e più numerosi. Ma ben
maggiore era la potenza loro nelle terre, a cagione de' privilegi
feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigii
feudatarii v'erano ancora gravi. Del resto, le opinioni del secolo poco
avevano penetrato in quella isola; ma quello che non dava l'opinione il
potevano dare facilmente gli ordini dello Stato.
Questa che abbiamo raccontata era la condizione del regno delle
Due Sicilie verso l'anno 1789; ma poco diversa appariva quella
del ducato di Parma e Piacenza, dove, come a Napoli, regnava la
famiglia de' Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi
sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la
Sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto
il campo ad investigazioni del solito effetto. Quando l'infante
don Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del
Franzese Dutillot, il quale, nato di poveri parenti in Baiona, era
salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto
mandato Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo
consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma,
temendosi che, in quella nuova possessione del ducato, ella volesse
dare qualche sturbo in virtù de' diritti di superiorità sovrana che
pretendeva in quello Stato. Per verità, se grande fu la fede che la
Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua
destrezza e la prudenza. Chiamò a sè i più famosi ingegni d'Italia,
tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo
nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere,
di notabile eloquenza; e tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i
costumi di quella bella parte di Italia, e tanto vi prosperarono le
buone arti, che il regno di don Filippo ebbe fama del secolo d'oro
di Parma. Certo, città nè più colta nè più dotta di Parma non era
a que' tempi, nè in Italia nè forse anche altrove. Crearonsi, per
consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti
ordini nell'università degli studii, un'accademia di belle arti, una
magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni
insegnamenti ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi,
oltre Paciaudi e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac,
Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli
ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle
parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo
stesso ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate,
per edifizii, per istrade, per pubblici passeggi. Così passò il regno
di don Filippo assai facilmente sotto la moderazione di Dutillot.
Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto li ducato nel duca
Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governare lo Stato
con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia
tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè, avendo il
duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un
editto che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa
Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò
nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità
non idonea a farle, e lesive deil'immunità ecclesiastica, ammonendo
eziandio che tutti coloro che cooperato vi avevano erano incorsi
nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti
in nissun caso, eccettuato in punto di morte, se non da lui stesso o
dal pontefice che dopo di lui sulla cattedra di san Pietro sedesse.
Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto
sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti
scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito.
Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio e le arti della
parte avversaria già entrata molto addentro nella buona grazia del
giovinetto principe. Ciò non ostante, in tutto il tempo in cui questo
fu minore di età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi,
giunto all'età di diciotto anni, assunse il governo, s'indrizzarono
i suoi pensieri ad altro fine. Perchè, congedato Dutillot, il
principe si governò intieramente al contrario di prima. Il tribunale
dell'inquisizione fu istituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè
aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto
a molti il rigore eccessivo che si usava per far osservare certe
pratiche di esterior disciplina: in questo i popoli non potevano dire
del principe che altro suono avessero le sue parole ed altro i fatti;
poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro,
egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i
santi nel calendario dell'anno. Mentre il duca pregava, il popolo si
erudiva, nè Parma perdette il nome che si era acquistato di città dotta
e gentile.
Sedeva a questi tempi, come già sappiamo, sulla cattedra di san Pietro
il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo
della prospera e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente
XIV, da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza
del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di
costumi e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei
chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo
seggio della cristianità, cosa altrettanto intempestiva e pericolosa
quanto era in sè lodevole e virtuosa. Il perchè i cardinali, morto
Clemente, elessero papa il cardinal Braschi, che già fin quando era
tesoriere della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non
ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo
de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia
del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere,
procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che
e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la Sede ne
venivano facilmente conciliati. Queste erano le qualità di papa Pio.
Circa i costumi, e' furono, non che non meritevoli di riprensione,
degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla
malvagità de' tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire.
Ognuno crederà facilmente che un pontefice di tal natura doveva
altamente sentire dell'autorità sua e delle prerogative della Sedia
apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora
fra' cardinali più dotti, più operativi, più esperti, un disegno d'una
suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un
governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani,
e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il
cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo
in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane;
se ad altri pareva che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo
fatto, pareva all'Orsini ch'ei non avesse nè detto nè fatto abbastanza.
Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiero dell'Orsini circa la
lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti
importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia.
Ma non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio nè
l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama
di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il
prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto,
certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme
rispetto a Stato sì angusto, con costanza tanto mirabile che pochi
esempii si leggono nelle storie degni di egual commendazione. Quattro
fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa e la Teppia non trovando sfogo al
mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento.
Rapini, ingegnere di grido, preposto da Pio alle opere, cavata la linea
Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico
fiume Sisto, alveò l'Uffente e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si
scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via
Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI.
Non dismostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti
all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di
San Pietro, opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo
minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile
della basilica di Michelangelo. Dolsersi anche non pochi, che, per
fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato che si atterrasse
l'antico tempio di Venere, al quale Michelangelo aveva avuto tanto
rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo
pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere come aveva fatto
già, fin quando esercitava l'ufficio di uditore del camarlingo, a
papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso museo, il quale
poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione,
fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue,
busti, bassorilievi ed altre anticaglie di gran pregio. Come nobile
fu l'intento suo nel fondar il museo, così nobile del pari fu il suo
consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di
scritture e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile
l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a
Lodovico Mirri, e quanto ai commenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne
sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle
opere più perfette che in questo genere sieno.
Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno;
così, visitata dai più potenti principi d'Europa, lasciava in loro
riverenza e maraviglia; i popoli mossi da sì sontuosi apparati non
rimettevano di quella venerazione che avevano sempre avuto verso
la Sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che
parlavano tanta umanità, poche radici avevano messe in Roma; non che
i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro,
mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo
a certi effetti cagioni non vere, troppo in sè stessi si compiacquero
di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a sè medesima
conforme, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza che per
ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.
Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per
benefizio dei principi o per ammaestramento dei buoni scrittori, la
vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei
popoli e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più
generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre
parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più
ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in
tutte le altre, o rovine nella casa regnante o rivoluzioni di popoli.
Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà
prima e principal cagione, essere la potestà assoluta del principe
giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni
della ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto
tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione
di un potente, anche fortunata, che render sè ed il paese suddito o
dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di
Braganza avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse
che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro
medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome che potessero, non
che distruggere, emulare la potenza dei principi.
Da questo e dagli eserciti molto grossi nacque la maravigliosa
stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in
quello Stato un'opinione generale stabile, che, da generazione in
generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante, alle
repubbliche, nelle quali se cangiano gli uomini, non cangiano le
massime nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati
intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.
Ciò non ostante, alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento
si ravvisavano negli Stati del re di Sardegna, massimo circa la
ecclesiastica disciplina. Imperciocchè, tolte dal re Vittorio Amedeo II
le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studii di
ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana
a diffondersi. I tre bibliotecarii dell'università, Pasini, Berta e
Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle
opere scritte dai difensori di quelle dottrine, e Vaselli ne arricchì
la libreria del re.
Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo
generoso, di vivo ingegno e di non ordinaria perizia nelle faccende di
stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria
militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di
misura; il che rovinò le finanze che tanto fiorivano a tempi di Carlo
Emmanuele suo padre, sparse largamente nella nazione la voglia delle
battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili soli ammessi a
capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo
re di Prussia. Certamente, se immortali lodi si debbono a Federigo per
aver difeso il suo reame contra tutta la Europa, gran danno ancora
le fece per avervi introdotto coll'esempio suo un eccessivo umor
soldatesco, ed aver messo su eserciti. Gli altri potentati, o per
fantastica imitazione, o per dura necessità, furono costretti a far
lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia che dilatò questa peste
ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte che la portò agli estremi, ed
altro non mancherebbe alla misera Europa, per aver la compita barbarie,
se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti,
coi combattenti anche i vecchi, le donne ed i fanciulli.
Ma, tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato che
soleva dire ch'ei faceva più stima d'un tamburino che d'un letterato,
benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati
accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente.
Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro
lasciato da Carlo, ma i debiti dello Stato, non ostante che le
imposizioni si aggravassero, tanto s'ammontarono che sommavano in
questo anno a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono
più di cento milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche
conferivansi solo ai nobili ed agli abbati di corte. Ad una generazione
di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti,
successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti a ben reggere
gli uffizii loro.
Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere.
Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano
pontefice ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio avea, per
amor di quiete, ordinato che mai non si parlasse o scrivesse nè pro
nè contro la bolla _Unigenitus_, nè mai si trattasse dei quattro
capitoli della Chiesa gallicana; che anzi, siccome questi articoli
erano apertamente insegnati e costantemente difesi nell'università di
Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe II, aveva, a petizione del
cardinale Gerdil, proibito che i sudditi suoi andassero a studiare
in questa università. Ma tali opinioni più pullulavano quanto più si
volevano frenare.
Se la monarchia piemontese era la più ferma delle monarchie, la
repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro, i
quali, credono essere le repubbliche varie e turbolente, potran vedere
nella veneziana una repubblica più quieta di quante monarchie sieno
state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso
di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni,
da Turchi, da Germani, da Franzesi; trovossi fra guerre atroci, fra
conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma
stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi non solo salva in
mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini
antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati
per antichità! Pare che più sapiente governo di quel di Venezia non
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